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Temi globali

Perché Cina?

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Per la prima volta nel 2010 i Paesi cosiddetti emergenti hanno conquistato la parità con i paesi di antica industrializzazione. 
 

Nel 2030 il 57% della ricchezza mondiale sarà in mani diverse da quelle dell’Occidente sviluppato. Il 95% degli oggetti che il popolo occidentale usa  proviene dalla Cina e questo ci ricorda che la crescita della Cina è inevitabile. Tutto questo non deve però spaventarci, non sempre la crisi è qualcosa di cui preoccuparsi ma riprendendo proprio la traduzione in cinese di questa parola ( 危机)la stessa è formata dall’unione di due ideogrammi Crisi ed Opportunità per il sistema italiano, per il sistema occidentale che deve comprendere e relazionarsi con una “way of life” differente da quella sino ad ora conosciuta. Non bisogna solo delocalizzare ma conquistare nuovi mercati è questa  l’opportunità. Il problema è che si ha la necessità di assumere una nuova identità aziendale, infatti, le analisi di Mediobanca affermano che nel 2009 le grandi aziende hanno avuto un saldo import – export negativo di 18 miliardi di euro, quelle medie e medio – grandi un attivo di oltre 60 miliardi.  La Cina è tanto vicina alle aziende più piccole, sembrerebbe, perché più rapide a modificare il proprio assetto strategico e non alle continue evoluzioni dei mercati. Le stesse mantengono le radici in Italia ma acquistano una visione internazionale, diventano meno italiane e più globali, rendendo il sistema economico italiano più forte. Per esse il mercato non è solo quello italiano, esso non è che un ponte per raggiungere altri mercati che si rifanno a quello globale e più propriamente a quello cinese che non sembra più guardare solo all’esterno ma anche all’interno di se stesso. Non solo mezzo di produzione, il lavoratore cinese, sta diventando consumatore di valore. Non tanto più sfruttato esso si rende partecipe di un nuovo modello, non tanto più rivolto alle esportazioni quanto alle importazioni e al consumo interno. È questa la novità, un’altra opportunità da cogliere, realizzare e distribuire prodotti a nuovi consumatori non più occidentali, non solo cinesi ma anche più propriamente globali. Questo perché dopo la crisi finanziaria e la successiva recessione, è diventato evidente che il modello di crescita trainato dalle esportazioni ha perso una delle gambe su cui poggiava: la costante crescita della domanda esterna.  Il PIL cinese è cresciuto in media del 12% nel periodo  2005 – 2007, toccando il 13% nel 2007. Ma nel 2009, la quota del commercio globale sul PIL mondiale ha perso quasi sei punti, crollando al 26.7%: la contrazione maggiore registrata a partire dal secondo dopoguerra. Seguirà una lunga fase di contrazione della spesa da parte del consumatore americano, i modelli di crescita trainati dalle esportazioni, come quello cinese, hanno davanti a sé anni piuttosto duri. La crisi però ha svegliato Pechino. Il trend delle esportazioni cinesi è passato dal boom alla crisi: da una crescita annua del +26% nel luglio 2008, a un calo pari a -27% nel febbraio 2009.  Il governo è intervenuto immediatamente con un pacchetto di stimolo fiscale di 4000 miliardi di renmimbi. Ecco perché la Cina si rafforzerà dal punto di vista dell’economia interna perché altrimenti essa rischierebbe di aggravare squilibri già molto forti, come dimostra la percentuale degli investimenti in rapporto al PIL, che supera il 45%. Le recenti stime per quanto riguarda il tasso di risparmio delle famiglie, dal 27.5% nel 2000 è passato al 37.5% nel 2008 ma questo perché il sistema di sicurezza e previdenza sociale sono un po’ carenti e le famiglie per ragioni precauzionali spingono a risparmiare.  Ma il nuovo piano quinquennale si presupponga  dedicherà maggiori attenzioni a tre settori: quello della sicurezza e della previdenza sociale, quello volto ad aumentare il reddito degli abitanti delle campagne, quello delle carenze sul versante dell’offerta diretta al consumo interno cinese. I servizi costituiscono circa il 40% del PIL cinese, al di sotto della media del resto del mondo, ma migliorerà e accelererà nel medio termine, per dare vita a istituzioni di eccellenza formativa, creando i presupposti di una nuova potenza non solo commerciale ma anche culturale, di relazioni e maggiormente sostenibile. Il dominio degli Usa sembra vacillare, un nuovo attore globale sembra prendere il suo posto, per tanti questo è quasi un’utopia, per tanti altri essa è una certezza. Nessun economista è un mago ma analizza i numeri e osserva il mutamento degli stessi, che significa anche osservare il comportamento degli attori, e grazie a questi egli si  esprime sotto forma di ipotesi. Ad oggi i numeri a disposizione sono questi e ipotizzare un sistema globale prescindendo dalla Cina è improponibile. Piuttosto che lottare contro il presente evitando altresì il futuro bisognerebbe cogliere l’occasione di relazionarci con un nuovo attore che non parla la nostra lingua ma si esprime attraverso di essa, ha studiato le nostre teorie e ha acquistato il know – how con molta umiltà, adesso tanto più che insegnare loro a fare mercato a fare cultura, abbiamo il dovere di interloquire con loro senza timore rendendoci partecipi di un nuovo mutamento del commercio globale. Non tanto più frutto di scambi commerciali ma di relazioni culturali e non. 
Perché la Cina? Perché ha imparato tanto da noi, ora abbiamo da imparare noi, attraverso di lei.

 

di Antonio Simeone

 

 

 

Le tre Coree

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LONDRA - Una leggenda narra che, quasi cinquemila anni fa, un importante imperatore cinese inviò, in una terra non troppo lontana dall’allora capitale Xianyang, un gruppo di pari maschi e femmine, tutti vergini. Si dice che, di lì a poco, gli occupanti di quel territorio, isolati nel nulla, diedero vita all’arcipelago Giapponese. Un altro mito vuole che quegli stessi neoabitanti, una volta stabilitisi, cominciarono ad espandersi, dando vita a un’altra regione che si protendeva dalla Cina: la penisola Coreana. Fu li, in quella circostanza e con quelle precise dinamiche, che la Corea prese vita. Questa leggenda, perché di ciò si tratta, la dice lunga su quanto la Cina, sin dai tempi più remoti, considerasse importante la politica estera e su quanto reputasse inesistente –o quasi- qualsiasi potenza circostante il suo sempre più immenso territorio.

Non fu poi del tutto così nella Storia. La penisola Coreana, ponte strategico importantissimo tra la Cina e il Giappone, ebbe un rilievo sempre maggiore sin dalla metà del primo millennio. A tal punto da incutere più di qualche semplice timore alla Cina, in preda ad una prepotente crescita dall’anno 221 a.C. con l’unificazione da parte dei Qin di un territorio sempre più vasto. Tuttavia, l’espansione a macchia d’olio del Confucianesimo e del Buddismo giocarono un ruolo fondamentale, quasi troppo facile, nell’influenzare e smuovere la geopolitica interna della Corea. Ancora più importante, le minacce sempre più incombenti da parte dei territori limitrofi e delle tribù non Cinesi che assottigliavano il Nord della Cina come un filo radente, rendevano improcrastinabile la necessità di una ristrutturazione interna. Arrivò presto la centralizzazione dello Stato, il primo, in Corea; e, di lì a poco, sopraggiunsero anche le conseguenti tensioni interne alla penisola. Di fatto, ci si contendeva il primato di far divenire la Corea un paese meritocratico su base Confuciana Cinese.

La penisola Coreana, al tempo, era composta da tre regni – Koguryŏ (al Nord), Paekche (a Sud-Ovest) e Silla (a Sud Est)- le cui origini risalgono all’inizio del quarto secolo. Essendo congiunta alla Cina attraverso Koguryŏ, sul limes settentrionale della regione, i tre regni risentirono fortemente dell’innovazione ideologica, religiosa e poi  culturale proveniente dall’Impero Cinese.

Tutti e tre governati da elite di guerrieri, furono capaci, in qualche modo, di mantenere la loro unicità, preservando quegli elementi che li avrebbero reso forti nel difendersi, di lì a poco, dalle insidie Cinesi.

Nonostante i vari tentativi da parte della dinastia Tang di annettere l’intera regione Coreana perseguivano negli anni, l’intera penisola resisteva; non bastavano la Manciuria, a nord, e l’approdo via mare per sottometterla. Il Regno di Koguryŏ creò diversi problemi alla Cina, che, dapprima con alcuni missionari in avanscoperta e, successivamente, con veri e propri agguati, tentò, invano, di conquistare la parte settentrionale della regione per espandersi ed arrivare a comprendere l’intera penisola. Si guardi a quella che millequattrocento anni fa era la regione contesa e si capisca perché, ancora oggi, la Nord Corea, con capitale Pyongyang, riveste un ruolo critico nella politica estera – non solo Cinese.

Non a caso, la Corea nella sua accezione più larga ed eterogenea- si distingue ancora oggi, seppur in maniera meno evidente, per alcuni caratteri fondamentali dall’intera regione Est-Asiatica. Basti pensare al ceppo linguistico, quello uralo-altaico, appartenente alla penisola Coreana, diverso dal sino-tibetano Cinese; o ancora all’esito che il sistema tributario Cinese apportò in termini commerciali alla Corea; e a quant’altro quel genio di Edward Said espone e spiega, pur con qualche pecca e semplificazione di troppo, discernendo in maniera netta l’ ‘Occidente’ dalla visione di un ‘Oriente’ rappresentatoci come uniforme ed omogeneo, nel suo libro ‘Orientalism’ del 1978.

Di battaglie, tra il 640 e il 680 d.C., ne avvennero a bizzeffe. Le tensioni che si crearono all’interno della penisola furono il risultato di conflitti infiniti tesi a destabilizzare i tre regni: Silla, ad esempio, si ritrovò più spesso contesa tra Koguryŏ e Paekche. La Cina, approfittando della debole condizione domestica della penisola Coreana, riuscì finalmente a conquistare in buona parte il nord della regione; di fatto addomesticando Silla -con cui si era alleata-, che, non senza difficoltà, nel 676 d.C. riuscì nel suo gesto più eroico: unire la Corea in un’unica penisola coesa e solida. Solo più avanti, in quello che era il regno di Koguryŏ, si formò quello di Balhae.

Quanto avveniva in Cina più o meno nello stesso periodo -ovvero una maggiore attenzione rivolta sia ai Mongoli e agli Xiongnu, tribù stanziatesi nel Nord estremo della Cina, che a Sud-Est verso Taiwan- dava l’opportunità alla Corea di realizzare il primo vero Stato centrale.

Il vero compromesso in Corea, tuttavia, avvenne poco più tardi, quando, nel formare un governo centrale, si ottenne un ridimensionamento del potere aristocratico a favore della classe burocratica; una storia, in principio, non poi così diversa da quanto già avvenne in passato in Cina col passaggio dai Qin ai più ponderati Han. Sebbene il cambiamento riconsiderasse il rapporto tra la classe dirigente e la popolazione, esso era volto a far intendere che il sistema legalitario, seppur troppo rigido per appagare l’intera popolazione, era la soluzione da adottare. E così fu, secondo dinamiche diverse, per lunga parte della storia Cinese e Coreana.

Ben presto, infatti, in Cina, insieme all’evoluzione meritocratica raffigurata dallo ‘junzi’ -il vero gentiluomo, secondo Confucio- anche tutti i vantaggi del sistema tributario riuscirono a far fiorire le attività commerciali. La Corea, invece, non riuscì a raggiungere un livello di sviluppo pari a quello Cinese e rimase, per anni, checchè se ne dica, imperniata su un sistema gerarchico altamente anti meritocratico e fondato sull’agricoltura.

 

 

di Giulio Gambino (The Post Internazionale)

 

 

 

 

 

Poco più di 20 milioni di euro i fondi assegnati al Ministero della Difesa per il 2010

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Documento allegato:Nota aggiuntiva allo stato di previsione per l'anno 2010

 

fonte: Redazione

 

 

 

Lo Yemen, gli Houthis e gli altri.

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LONDRA.  La geografia e il clima spesso interpretano alla perfezione le caratteristiche geopolitiche di un paese. Un po’ come quando la foschia copre i picchi delle sue taglienti montagne, lo Yemen passa in secondo piano sulla scena internazionale fino a quando un inquietante evento non ne richiama l’attenzione.

La Repubblica Unita dello Yemen, l’unica con una simile forma di governo nella penisola araba, è politicamente frammentata ed economicamente provata. Tra le sue aguzze montagne e gli aridi deserti vivono quasi ventiquattro milioni di persone.

L’AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula) si descrive come il difensore della popolazione yemenita contro l’intromissione Americana nel paese. Forti contraddizioni e contrasti d’ogni genere sono all’ordine del giorno.

La storia, ancora una volta, può aiutarci a chiarire molti aspetti: lo Yemen, originariamente, era geograficamente diviso in due parti – il nord e il sud.

La parte settentrionale, sottomessa all’Impero Ottomano fino al 1918, divenne indipendente solo con i primi cenni della caduta di quest’ultimo (avvenuta nel 1922). Prese così vita il Regno Mutawakkilita dello Yemen.

Una seconda rivoluzione, questa volta appoggiata dal presidente dell’Egitto Gamal Abdel Nasser, avvenne nel 1962 con la presa della città più importante, San’a, che verrà poi istituita capitale della Repubblica Araba dello Yemen.

Solo la Siria e l’Egitto, facenti parte della Repubblica Araba Unita (RAU), supportarono l’appena nata Repubblica Yemenita. L’Arabia Saudita ed altri paesi, invece, si schierarono a favore dell’antica monarchia. Queste due opposte posizioni generarono uno scontro ideologico, ed economico, che s’inasprì con gli anni, sfociando in una vera e propria guerra civile che perdurò fino al 1967. E’ solo nel 1970, infatti, che l’Arabia Saudita riconobbe la Repubblica Yemenita come tale.

In maniera diversa, lo Yemen del sud fu colonizzato dall’Impero Britannico sin dalla seconda metà dell’Ottocento, ma nel 1967 quest’ultimo, osteggiato da forze rivoluzionarie interne, si ritirò, lasciando spazio all’emergente partito comunista. Ed è proprio questo cambiamento che permise l’instaurazione nel 1970 della nuova Repubblica Democratica dello Yemen. Un regime comunista popolare che, riunendo tutte le fazioni sotto il Partito Socialista Yemenita, strinse contatti con la Cina, l’Unione Sovietica e Cuba.

Nel 1990, dopo aver governato per dodici anni (1978-1990) nel nord della Repubblica Araba, Abdallah Saleh riuscì in un’epocale impresa: sfruttando il declino sempre più imminente dell’Unione Sovietica, unì lo Yemen del Nord a quello del Sud nella Repubblica Unita dello Yemen.

Si guardi ai dati storici fin qui elencati e si cerchi ora di comprendere quale sia lo stato attuale di un paese unitosi solo vent’anni fa. Ancora oggi uno tra i paesi più poveri del mondo arabo, lo Yemen risente di forti pressioni interne: nel nord, precisamente nell’area di Sa’dah, al confine con l’Arabia Saudita, vi sono gli Houthis, un gruppo ribelle di 10.000 soldati sciiti-Zaidisti (una branca dello sciismo) che devotamente segue le orme del suo leader, Hussein Badreddin al-Houthi, venuto a mancare nel 2004.

Ancor più importante, inoltre, sembra essere il sentimento etnico-religioso al quale gli Houthis sono legati. Il governo yemenita segue una politica filo-americana e accusa il gruppo ribelle sciita di supportare il governo Iraniano, a sua volta per la maggior parte sciita. Il  Capo di Stato, Saleh, ha stretto una forte collaborazione con l’America nella “guerra al terrore” per combattere Al-Qaida. Un’alleanza che Saleh e il suo debole governo hanno dovuto pagare a caro prezzo: pare di capire che nell’ultimo mese Al-Qaida abbia ucciso settanta tra soldati e poliziotti.

Difficile dunque per l’intera comunità internazionale riuscire a intuire se al-Qaida stia effettivamente cercando di impadronirsi con il terrore di importanti punti strategici nello Yemen o se si tratti di scontri tra i diversi gruppi armati. A sud di Sa’dah, vi è la capitale San’a. Da qui si dirama la geopolitica interna. Il governo deve far fronte non solo alle continue sommosse da parte degli Houthis, ma anche alle aree circostanti indicate come roccaforti di al-Qaida.

La vastissima area che si espande a sud e sud-est del paese, dove i moti secessionisti comunisti continuano ininterrottamente, è anch’essa teatro di diversi scontri tra le forze rivoluzionarie e l’esercito Yemenita. Oltre alle infiltrazioni di pirati somali, facilitate dalla presenza del Golfo di Aden nell’Oceano Indiano, lo Yemen paga al sud i movimenti riconducibili al fondamentalismo islamico. Così come nella parte occidentale del paese (e quella circostante la capitale, San’a), anche nel sud al-Qaida opera indisturbata.

Non ci si deve dimenticare, infatti, che Osama Bin Laden è originario di Wadi Dawan, una valle deserta nello Yemen centrale. Non lontanissimo dalla città famosa per i suoi palazzi fatti da mattoni di fango, sorge, sempre nella zona meridionale secessionista del paese, la presunta base d’addestramento di al-Qaida.

Dunque, se gli Houthis, come appare, risultano essere un gruppo sovversivo ed anarchico, difficilmente domabile visto il loro estremo attaccamento allo sciismo, la galassia sunnita fondamentalista di al-Qaida sembra celare, in realtà, molti più pericoli. Non sarà, infatti, un gruppo in continua rivoluzione con il quale è difficoltoso trattare, ma, comunque, nasconde un’organizzazione ben strutturata con un organismo terroristico assai più elaborato.

Quale dei due metodi sia peggiore, se una continua serie d’attacchi disordinati o degli attentati scrupolosamente studiati, è incerto. Cosa è certo, invece, è che né gli Houthis, né al-Qaida porteranno lo Yemen ad una situazione politicamente ed economicamente stabile.

Se è vero, quindi, che gli Houthis sono legati e supportano il governo Iraniano, con il quale è storicamente difficile scendere a compromessi -forse proprio in virtù della loro fede sciita-, allora il governo Yemenita dovrà concentrare le sue attenzioni sul gruppo ribelle Zaidista più di quanto avesse mai pensato.

 

 

 

di Giulio Gambino (The Post Internazionale)

 

 

 

L'oro dei pazzi

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Il prestito del Poyais ancora oggi resta il solo prestito di un paese immaginario collocato sul mercato azionario di Londra. 

 

Tutto cominicò nel 1821 quando il cacicco di Poyais, un piccolo territorio al confine dell’attuale Nicaragua, giunse a Londra.  Nella City riuscì a collocare 600000 sterline di prestito poayesiano, con un dividendo del 6 per cento, grazie alla collaborazione di Sir John Perring, l’ex sindaco di Londra.  Il successo fu straordinario e  le obbligazioni salirono sul mercato oltre il prezzo di collocamento. Ma quando nel 1823 duecento colonizzatori furono spediti verso la capitale del Poyais, invece di trovare una ricca città, soffrirono la fame ed il freddo e molti morirono. Solo cinquanta colonizzatori, alla fine, riuscirono a tornare in Gran Bretagna, ma il cacicco era fuggito in Francia con la sua famiglia, portando con sé i proventi delle obbligazioni.
Nel marzo del 1822 fu pubblicato un prospetto che si riferiva alle risorse illimitate della Colombia e alle ricchezze delle miniere e furono stampati certificati di obbligazioni con interessi pari ad oltre il 7 per cento, così altri stati latino – americani si affrettano a sfruttare l’occasione. I prestiti ebbero un successo immediato e il valore delle obbligazioni in pochi mesi era salito di un quarto dando un profitto di più del 150 per cento per gli acquirenti di scrip, ovvero,  alla sottoscrizione. Gli interessi erano così alti che le obbligazioni sudamericane dovettero essere contrattate a Parigi per aggirare la legge londinese contro l’usura, che aveva come limite il tasso del 5 per cento. Di tutto questo denaro, una grande percentuale fu trattenuta dai mediatori britannici per pagare i dividendi mentre i proventi di collocazioni successive di prestiti furono utilizzati per ripianare i debiti precedenti. Questo sistema, simile a quello ideato da Ponzi, diede l’illusione della vitalità ma in realtà non fu mai restituito denaro dal Sud America per onorare i prestiti.
I promotori delle società sudamericane raccontavano di storie frutto di fantasia e di avidità, infatti parlavano di pepite d’oro che pesavano tra sette etti e sette chili, totalmente trascurate, dichiaravano che le miniere delle società avrebbero fruttato molto più denaro necessario per mantenere il mondo intero.  Tutti credevano a queste storie e la Gran Bretagna diventava sempre più ricca, cresceva inesorabilmente sotto il peso di aspettative di ricchezze irreali.
Ma, il titolo più importante di quelli coinvolti nella mania mineraria, il Real del Monte nel gennaio del 1825 crollò da 1550 sterline a meno di 200, la crisi, ora era alle porte. La Banca d’Inghilterra rischiò il fallimento e per tutto il paese si cominciò ad accettare solo l’oro e nonostante le favole sudamericane non c’è n’era da coprire neanche le necessità basilari. Anche le borse dei paesi sudamericani crollarono e questo portò ad un peggioramento  dei rapporti tra le nazioni in via di sviluppo e l’Occidente,  cosa che perdura ancora oggi.
L’oro in quel periodo ha reso folli le persone, di questi giorni vi è la notizia di un ritrovamento in Afghanistan di ingenti miniere auree. Cosa succederà? Saremo pazzi, più pazzi di prima? O useremo un briciolo di razionalità e non ci faremò condizionare da un’eventuale euforia? Concludo con la descrizione di un ciclo di borsa di S.J. Loyd, partorito dopo la crisi del 1825: “ Prima lo troviamo in uno stato di quiete, -  successivo miglioramento, - crescente fiducia, - prosperità, - eccitazione, - eccesso di scambi, - convulsioni, - pressione, - stagnazione, - angoscia, - che si risolve alla fine in quiete.” Questo è quello che succederà.

 

di Antonio Simeone