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Recensioni

I romanzi di Bella Maro

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In tutti i 2 volumi Ela è la protagonista principale: è Ela (Elena Doni, come è indicato quasi casualmente in una pagina de La storia di Ela), una bella e fascinosa signora o meglio ragazza; moderna, colta, realizzata nel lavoro (è una gallerista di successo) e si può dire anche nei sentimenti, in quanto si accompagna sempre o quasi a dei compagni di un certo valore, anche se, successivamente, nel suo viaggio del secondo volume le cose andranno un po’ diversamente. 
Il primo volume – La storia -  ha il carattere praticamente di un poliziesco: potremmo dire a metà fra Agatha Christie per la complessità dell’intreccio, che coinvolge numerosi personaggi del presente e soprattutto del passato della protagonista e le storie del Commissario Montalbano, dato che vi compaiono  degli ispettori di polizia, tra cui il Commissario Renzi, che non ha nulla a che vedere, ovviamente, col più famoso Matteo, che però salverà Ela, assieme al coraggioso compagno di questa Gianni, materialmente da vari pericoli (quello di un’inchiesta giudiziaria nei suoi confronti e soprattutto da una violenta aggressione da parte di un antico fidanzato di Ela, diventato ricattatore grazie a dei pezzi sottratti a Livio, lo stalker protagonista del libro).
Mi soffermo di più sul secondo volume Il viaggio di Ela. Anche se pure qui non mancano alcuni spunti polizieschi, da divertissement di  fiction, una scrittura che evidentemente piace ad Isa (nei personaggi di Flavia e Giulio), stavolta al centro ci sono - il libro inizia così - principalmente le schermaglie, le liquide passioni, gli incontri, a volte i tradimenti di 2 coppie non tradizionali, ovvero 2 donne (Ela e Chiara) e 2 uomini (Luigi e Fabio), impegnati tra di loro. A questi si aggiungono altri due personaggi principalmente: Flavia, la fisioterapista della clinica dove Ela e Chiara hanno subito un intervento e si sono incontrate, ch’e' una donna forte, del popolo, che parla in romanesco ma che è anche lei in una situazione problematica dato che è in crisi col marito Raimondo, la quale diventerà, per un breve periodo, la compagna di desiderio di Ela e poi c'è l'altro personaggio, Giulio, di cui parleremo dopo; in questo emergere, nei sentimenti dei protagonisti, dei comportamenti di  un’attuale società “liquida“, come osserva l’Autrice, (in un punto viene annotato esplicitamente:“Dopo quell'esaltante esperienza, sembrò a tutti più chiaro il concetto di società liquida…. I comportamenti stereotipati non  appartengono… ogni cosa può verificarsi, ovunque nel mondo ormai in comunicazione”. Pag.43). 
Il titolo del romanzo è Il viaggio di Ela, dato che, per vivere un’avventura diversa dalla quotidianità e per verificare magari anche lo stare insieme delle due coppie, cui si aggiunge, Flavia, in cerca di evasione, tutte queste persone si trovano ad interagire, fra di loro e con l'ambiente circostante, nel viaggio di gruppo che decidono di compiere in Africa.  Con una digressione si potrebbe osservare che il tema del viaggio costituisce indubbiamente uno dei motivi forti della letteratura mondiale: da Omero a Marco Polo, a Goethe e i narratori del Gran Tour, a Swift, Coleridge, De Maistre, al Martin Eden di Conrad e poi a Hemingway,  Kerouac, ecc., caratterizzandosi con accezioni diverse fra loro ma tutte molto significative. Nel libro, uno dei personaggi, di fronte alla bellezza di una radura africana che fa pensare ad un luogo di magia, osserva: (Qui) “Si entra più facilmente in contatto con la natura, ci si capisce meglio, si sta più vicini all'altro, si diventa più tolleranti più simpatici e forse anche amici. E' forse qui l'origine della civiltà?”  P.66, con un’osservazione che sembra riecheggiare addirittura, magari incidentalmente a causa dell’ambientazione primitiva, l’accezione antropologica del Levi Strauss, quando definisce il viaggio, tra l’altro come un “ mezzo per salvare la memoria umana” (nonostante la sua avversione iniziale per i viaggi – tradizionali –, egli osserva: “Quando si viaggia si è sempre qualcosa, qualcuno” , Tristi Tropici).
La meta del viaggio è infatti l’Africa, un luogo di assai grande interesse. Il capitolo centrale del libro s’intitola Pericoli e magie africane ed esordisce con efficacia: “ Altipiani, monti antichi di lava fossilizzati scorrevano dei finestrini del fuoristrada che avevano affittato per le escursioni. Gli operai locali erano con la schiena ficcata negli orti o accanto alle rare capre allevate. Le donne viaggiavano a piedi con pesanti ceste in perfetto equilibrio sulle loro teste. I ragazzi indossavano colorate divise scolastiche e giravano in gruppo. Erano tanti; che differenza con il dinamico mondo occidentale. Qui il tempo era rallentato. Non si avvertiva il nervosismo dell’incessante peregrinare occidentale. Si viveva il presente” Pag.39. 
Di fronte alla suggestione dell’ambiente, a questi viaggiatori certamente diversi da  quelli del passato, alloggianti in comodi e organizzati resorts e dotati di agguerritissimi smartphones sempre in azione, venivano a porgersi tante importanti domande, sul mondo e su se stessi:
“L’esito della lotta fra civiltà e natura è ancora aperto?”” Chi vince nel pericolo?” “Quali sono le vittime?” si domandava Ela. “Spazi immensi! Dubbi eterni dell'umanità!”
 E poi: “Difficili rapporti di coppia”“ Ma tu chi sei, l'amore?”” Cosa vuoi da me?” S'interrogava Luigi. “ Come mai pensi sempre a me?” Si chiedeva Fabio. “ Che vuoi che ti dica, Raimondo, é la fine? Ma la colpa non è mia” pensava Flavia. “ Questa volta durerà?” era infine l'interrogativo di Chiara. P.43 
Con una visione quasi panteistica, si osservava ancora: “  La complessità delle natura e delle sue sfumature, in quel luogo, accostava non solo i grandi animali ai più piccoli, ma anche l’acqua alle rocce e alla terra rossa. Le innocue lucertole e le farfalle giganti assumevano colori e dimensioni insolite. I rapidi scatti del cellulare di Luigi testimoniavano la presenza di piante affascinanti, di coloratissimi e divertenti piccoli rettili, dalle strane forme. La meraviglia si bloccò solo quando furono avvistate lungo il percorso orme e strani suoni inquietanti, che alimentarono la paura.” P.45.
Al di là delle suggestioni e i ricordi evidenti in relazione a  quelli che si possono considerare un po’ i classici della letteratura sull’Africa del ‘900 (Verdi colline d’Africa di E. Hemingway, citato pure nel frontespizio e La  Mia Africa di Karen Blixen), questo passo mi ha fatto pensare personalmente anche ad una mia lettura di molti anni fa: l’opera di John Steinbeck To the unknown God, Al dio sconosciuto, impregnata di forti e reali suggestioni animistiche. Il romanzo è la storia di Josef Wayne un  farmer che lascia il padre per andarsene in un territorio di nuova colonizzazione, Nuestra Senora, al confine col Messico, una terra piena ancora di simboli magici e indiani. Là egli fonda la sua azienda con i fratelli, aggregatisi a lui dopo la morte del padre, di cui, nonostante il suo abbandono, Joseph era stato il preferito e costruisce la sua casa proprio sotto un grande albero, che lui avverte come la prosecuzione della presenza del padre e con il quale inizia un vero e proprio dialogo continuo (parlando della famiglia, mostrandogli il figlio).. Le cose all'inizio vanno bene, l’azienda prospera e lui sposa Elisabeth, una bella e colta maestra, ma tutto pare cambiare quando il fratello di Joseph, Burton, un bigotto, scandalizzato dall’animismo che egli avverte in Jospeh, lascia l’azienda tagliando pure le radici del grande albero padre. Elisabeth muore cadendo da una roccia, venerata anch’essa dagli indios, sulla quale morirà alla fine lo stesso Josef, ma soprattutto il territorio, come era avvenuto dieci anni prima, ricade in una terribile totale siccità che distruggerà tutto. Mentre anche l’altro fratello Thomas lascia la valle per salvare parte del bestiame, Josef decide di restare, per alimentare con l’ultima acqua rimasta da un piccolissimo torrente il muschio-vegetazione della roccia indiana, simbolo della valle, dove è scivolata Elisabeth e infine, dopo la scomparsa anche di quello, di alimentarla col suo stesso sangue  tagliandosi le vene. A questo seguirà una grande pioggia che ridarà vita al territorio. Si tratta di un romanzo possente, tradotto in italiano da E. Montale, in quella grande transumanza di animali, individui, genti e culture che sono in particolare gli Usa degli anni 1930, che però alcune interessanti osservazioni sul magico clima africano del libro di Isabella mi hanno un po’ ricordato, anche se il suo stile è ovviamente del tutto diverso, improntato soprattutto ad una curiosa e allegra moderna vivacità (piuttosto che al dramma e alla sofferenza), in relazione forse anche, secondo me, ai suoi compagni di viaggio del romanzo, più “liquidi”, fragili e casuali, contemporanei.
Nell'ultima parte del libro si assiste al ritorno e alla ricomposizione del gruppo in una località del tutto diversa e supercivilizzata: si ritrovano infatti tutti ad Amsterdam, anche senza saperlo e per varie ragioni. Alcuni per partecipare al Gay Pride (tra loro Chiara con una nuova amica, dopo il tradimento di Ela con Flavia),  Ela e Luigi e Fabio e anche Flavia, quest’ultima col marito Raimondo, che  si trova là per regalarle un anello di diamante dopo la riconciliazione. L’incontro di Ela con Flavia è pieno di emozioni ma anche senza prospettive. In questa situazione di fine avventura ricompare Giulio, un personaggio che era stato sino ad allora quasi ai margini nel libro: un cliente di Ela, caduto innamoratissimo di questa, con la quale egli ha intessuto sin dall’inizio una corrispondenza fittissima e molto speciale, di carattere addirittura ossessivo e maniacale si potrebbe dire (tale da far ripensare a Livio, lo stalker del primo libro).
L’incontro causale di Giulio con Ela, nella città olandese, però sembra cambiare radicalmente questa situazione: dopo le sperimentazioni precedenti, Ela ha bisogno forse proprio di un rapporto di tipo tradizionale, di dedizione e stima romantica e affettiva totale: probabilmente proprio Giulio può riempire quel vuoto seguito alla fine con Flavia. Come andrà a finire la storia e come sarà domani? Non lo sappiamo. “ Nella società liquida, lasciamo che l’amore riscatti la superficialità dell’esteriorità, indaghi a fondo le nostre debolezze e penetri con sensibilità la nostra emotività e identità” conclude Isa (ma con quale tipo di amore?). Nelle nostre incertezze attuali, anche questa è un’ipotesi di lavoro. Le due storie insieme si presterebbero bene, secondo me, ad una sceneggiatura tipo di un film di Ozpetek.
 
di Stefano Lepre
 

Fahrenheit 9/11, il docu-film che sconvolse l’America

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Il documentario Fahrenheit  9/11 del noto regista americano Michael Moore, premiato con la palma d’oro a Cannes, ripercorre gli accadimenti legati alla presidenza di Bush, dalla “vittoria” elettorale ai bombardamenti in Afghanistan e Iraq passando per l’11 settembre. La caduta delle Torri Gemelle, ripercorsa solo con il sonoro di quel tragico giorno, ha segnato l’inizio della vera lotta al terrorismo trasformando l’America e il vivere quotidiano dei cittadini stessi. Una parte del documentario si sofferma sulle relazioni affaristiche legate al business del petrolio tra la famiglia Bush e i principi reali sauditi, in particolar modo con il Saudi Binladin Group. Una serie di atteggiamenti incomprensibili mentre la popolazione veniva manipolata psicologicamente attraverso paura e terrore. Per difendere il paese da queste “minacce” terroristiche fu coniato il Patriot Act il quale limitava la libertà quotidiana delle persone anche ad esempio attraverso il controllo dei libri presi in biblioteca. La paura dei cittadini venne acuita da delle voci secondo cui Saddam Hussein (Rais dell’Iraq) disponeva di armi chimiche, notizia che poi si rivelerà infondata. Un’altra magagna che fece il presidente della Casa Bianca fu il bombardamento in Afghanistan e conseguentemente in Iraq che si conclusero con l’uccisione di molti civili, nonostante i rappresentanti della Difesa americana parlassero di bombardamenti mirati a determinati obiettivi, quali basi dei presunti terroristi. Il regista sondò il terreno con i parlamentari americani e sull’invio dei propri figli nelle basi belliche dove l’esercito americano combatteva. Con le loro risposte evasive sul quesito, Moore giunse alla conclusione che a difendere la patria erano maggiormente coinvolti i ragazzi dei ceti meno abbienti presenti nelle periferie. Il documentario si chiude con una citazione di George Orwell:  “Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. Una società gerarchica è possibile solo se si basa su povertà e ignoranza. […] La guerra viene combattuta dalla classe dominante contro le classi subalterne e non ha per oggetto la vittoria sull’Eurasia o sull’Asia orientale, ma la conservazione dell’ordinamento sociale”.

di Alice Di Domenico e Domenico Pio Abiuso

Visioni e illusioni di una nuova economia globale

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"Alcuni vedono le cose come sono e dicono perché? Io sogno cose non ancora esistite e chiedo perché no?"(G.B.Shaw). E' questo il messaggio che sembra volerci comunicare Antonio Simeone, giornalista molisano, direttore del China Development Observatory, nel suo libro "Visioni e Illusioni di una nuova economia globale edito da Gump Edizioni: "ciò che emerge è la possibilità di concepire una realtà diversa, di realizzare un nuovo sistema economico che non sia più basato esclusivamente sulla logica del profitto e della speculazione. Il titolo non deve trarvi in inganno: non è, infatti, necessario possedere un nozionismo tecnico nel campo economico per cimentarsi nella lettura dell'opera: in ogni capitolo lo scrittore ci guida per mano attraverso un percorso che porta non solo a capire le cause dell'attuale crisi economica,ma anche a riflettere sulla natura dell'uomo, sui suoi bisogni, impulsi primordiali e desideri. Il primo capitolo ci costringe a fare un tuffo nel passato per poter giungere alla definizione del microcosmo e del macrocosmo, due concetti apparentemente astratti che, però, assumono concretezza se si seguono le tappe di un iter evoluzionistico che dalle origini della vita arriva fino all'uomo, ultimo prodotto della natura, ma non per questo dotato di maggiore perfezione. Al contrario: l'uomo attuale sembra essere pieno di difetti. Inizialmente l'uomo viveva in completa armonia con la natura, il cosiddetto "bestione tutto stupore e ferocia" di cui parla Vico, governato soltanto dalle leggi dell'istinto, libero di seguire i propri impulsi e le proprie emozioni. Successivamente lo sviluppo delle capacità concettuali porta alla creazione del linguaggio, mezzo che consente all'uomo di interagire con gli altri e di divenire un animale sociale. Il linguaggio è tuttavia anche espressione delle idee, della creatività dell'uomo, il quale, presto insoddisfatto di ciò che possiede e del mondo che lo circonda, comincia ad affermare la propria supremazia, inizia una lotta con se stesso e con gli altri per poter rivendicare la propria indipendenza. Avverte il bisogno di delimitare i propri beni, di tracciare i confini del suo dominio:nasce così la proprietà privata e si inizia ad affermare l'homo oeconomicus. In questa fase nulla ha più senso: ciò che conta è soltanto il profitto individuale, il desiderio di accrescere la propria ricchezza e il proprio potere. Diventa imperante uno stile di vita hobbesiano "Homo homini lupus" la cui logica, d'altronde, pervade l'intero mondo della finanza. E così, con questo excursus attraverso le varie epoche del passato, Antonio Simeone ci porta a capire la natura, la reale indole degli speculatori il cui sogno è quello di "nutrirsi delle perdite degli altri, monetizzare i guadagni e rifare lo stesso gioco": massimizzare in qualsiasi modo il profitto personale a discapito altrui. La narrazione prosegue con un climax ascendente, con un tono incalzante e sempre più coinvolgente finché "ex abrupto" non ci capovolge in un universo tutto al femminile. Lo scrittore dedica, infatti, un intero capitolo alle donne. Attratto probabilmente dalla loro capacità di far fluire la vita, di lasciarsi pervadere dall'energia della natura senza tentare di dominarla, dalla loro capacità di rigenerare continuamente la vita, l'autore esalta la loro forza e il loro valore sottolineando il ruolo centrale che esse possono ricoprire nell'attuale sistema economico. Viene realizzato un interessante binomio "donna-azienda": sono illustrate diverse tipologie di personalità femminili in relazione alle quali vengono descritti i cicli vitali di organizzazione e di crescita che differenziano ciascuna azienda. Compare quindi finalmente la visione di un nuovo modello economico caratterizzato dall'immaterialità, dalla gratuità e dalla condivisione: un sistema che sia basato su uno sfruttamento proporzionato ed equo delle risorse e che prenda coscienza dell'impossibilità di produrre maggiore ricchezza a qualsiasi costo, dei limiti dell'incremento del PIL. E' ciò che Antonio Simeone definisce la "marea blue economy" che trova le sue radici nella" vis medicatrix naturae", la forza curativa della natura. Non crea aspettative e non vende illusioni, ma pretende una way of life differente, in armonia con il cosmo." E' la visione di una nuova economia che si renda conto delle proprie tare genetiche e rifletta su come cambiare: il perseguimento di un profitto individuale sempre più considerevole non può essere la via da intraprendere a lungo termine per il funzionamento del sistema economico. Occorre diventare consci di vivere in una realtà globale in cui le dinamiche comportamentali di ognuno si influenzano e condizionano reciprocamente. Possiamo quindi decisamente dire che con "Visioni e Illusioni di una Nuova Economia Globale" ci troviamo di fronte ad un'opera "sui generis" che sfugge a qualsiasi possibilità di definizione. Si tratta di un libro nuovo, originale che ci fa riflettere e al tempo stesso ci trasmette un messaggio positivo, spingendoci a rifiutare di rassegnarci allo stato di cose attuale. "Se uno sogna da solo, è solo un sogno. Se molti sognano insieme, è l'inizio di una nuova realtà."(Friedensreich Hundertwasser). Forse Antonio Simeone con il suo libro vuole dirci proprio questo: non si tratta di scappare dalla realtà per rifugiarsi nei sogni, ma di acquisire la consapevolezza che sia possibile attuare globalmente un cambiamento: occorre prendere spunto dai nostri sogni per fare della realtà in cui viviamo il nostro sogno. Ecco il segreto. Per ora sembra essere una visione un po' controcorrente, oscillante ancora nell'utopia: è lo stesso scrittore a metterci in guardia e a palesare le difficoltà di questo nuovo modello economico, ma chi lo sa. Probabilmente anche voi leggendo questo libro resterete persuasi dall'idea di una nuova realtà.

di Chiara Mancini

Il Duce attraverso il Luce

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Il Duce attraverso il Luce

 

 

 

Una confessione cinematografica

di Enzo Antonio Cicchino

Mursia Editore p.830

 

 

 

 

 

 

 

Una presenza al primo impatto ingombrante questo libro di Enzo Antonio Cicchino. Non solo per la mole cartacea (830 p.) quanto per  non prestarsi a una veloce lettura trasversale. Siamo costretti a rallentare, inchiodati a “L’impermeabile giallo” (1° cap.), quello di Hitler, dalla cui ombra rigida “sbucano come fantasmi” le scarpe di vernice (p. 9). Certamente lucide, ci vien subito da pensare, come un pensiero malato in una testa che non seppe contenerlo.

E con lui, che a Mussolini da subito non piace, incontriamo “altri masticatori usciti dalle tane del cielo ed ora ministri della grande Germania, stretti nelle giacche scure sigillate con bottoni dalla testa di morto... in fila come cani al traino” (p. 5).

Dunque fin dalle prime pagine ci coinvolge lo stile narrativo di questa originale confessione cinematografica, assemblata dall’autore  con l’occhio esperto di documentarista che ha dimestichezza con la  propaganda dell’epoca fascista.

Il porre l’attenzione al momento in cui i cinegiornali arrivavano nelle sale porta a ripensamenti su quanto taciuto in quelli precedenti, sempre puntualmente manipolati in una “sintassi mai casuale” (p. 11) che sorvolando sui momenti cruciali delle guerre in corso in Abissinia, Libia o Sicilia, o di quando si moriva assiderati sulle alture della Grecia, si fa storia nel falsarla.

Nel riferirci dei rapporti con Francia e Inghilterra e con lo stesso Fuhrer, le immagini del Luce sono destinate fin dal loro sorgere, nel 1925, a una diplomazia che cerca di sedurre, dimostrando comunioni di fatto che in realtà Mussolini non riuscì mai stabilmente a raggiungere. E Cicchino ce lo racconta bene, sviluppando lo scarto tra quanto veniva propinato e il non detto, ma rilevando che “pur dovendo spaziare sui volti speranzosi degli italiani... chiamati a morire... ottimisti col sorriso di cuoio” (p. 81), i film Luce non sempre riescono a nascondere la verità dell’economia rispetto a quella della propaganda.

Piccola digressione. Come non accorgersi di quanto questa analisi sia attuale?  Di come anche oggi sia necessario non distrarsi per vedere quel che c’è dietro certa “informazione” televisiva che ne palesa l’insincerità, non dissimile a quella dell’Istituto Luce nella sua strategia linguistica vagliata dalla censura di Mussolini?

Venutosi a trovare come regista esperto nella necessità di recuperare più materiale valido possibile, e dovendo al contempo starne attento al contenuto, a non fargli perdere l’inquadratura significativa, l’autore ha escogitato di far seguire ai filmati e alla trascrizione delle registrazioni audio impresse sulla pellicola, la voce silenziosa della sua scrittura come interprete  di  figure e suoni.

Ecco allora che i bambini in braccio non sono solo quelli che porgono i fiori al Duce. Altri hanno “Sguardi parole. Cenciosi. Contorti, Smorti” (p. 90).Sono “Volti di bambini sorti all’improvviso. Generati come topi dalla polvere...” E i combattenti diventano “Soldati preganti col rosario delle armi... schiene dure di ossa di piombo... identici a uccelli che hanno perso le penne”(p. 135).

Dunque nonostante l’intellighenzia cinematografica, le immagini filtrate dalla narrazione danno alla politica, quella vera, un significato diverso dalle apparenze.

Se già nella foto di copertina ci aveva colpito un primo accostamento tra scrittura e gusto figurativo poi, nel libro,  è ancora la scrittura di Cicchino a rendere estraneo alla pellicola il commento volutamente secco e scarno dello speaker che sembra non avere vita né movimento. Se la strategia degli operatori Luce è quella di dare di volta in volta, nelle varie fasi della guerra, cordoglio a questa parte o a quella, per esaltarla od offuscarla a seconda di quale alleato ci si voglia al momento ingraziare,  l’autore se ne  separa per accomunare le stesse parti avverse in un’unica memoria che travalica i fatti per dirci solo del peso della devastazione e delle sofferenze.

Comprendiamo così che la cifra del libro è recupero non tanto nell’analisi dell’elemento storico ma di quello narrativo. Un tentativo di restituire emotivamente le sensazioni del telegiornale non attraverso una oggettività assoluta, ma mettendo in evidenza elementi che nei cinegiornali non ci sono stati.

Ma non ci sono stati perché? Quel che vien fuori è che rispetto a quanto riportato in accordo con lo stesso Renzo De Felice, sul fatto che Mussolini con la sua ambiguità avrebbe rinviato l’invasione dell’Italia di tre anni rispetto a quella della Francia, da acuto osservatore dei mezzi di informazione che fanno politica Cicchino mette in evidenza come fu proprio il sistema d’informazione del Luce a consentire di bilanciare i tempi dell’entrata in guerra. Dunque la sua operazione letteraria con la Storia vuol puntare il dito anche su  qualche intenzione “buona”, che malgrado tutto forse ci fu, nel tentativo maldestro di difendersi dal tranello nazista.

Operazione che però non dimentica gli intrighi funesti e  prosegue in un crescendo narrativo che diventa raccapricciante metafora.

Nel capitolo “Gli incontri fantasma” (p. 707), nel momento in cui veniamo a sapere che il regista del Luce preferito da Mussolini era Roberto Omegna, i cui capolavori erano “La mantide religiosa” e “Vita del ragno crociato”, e che il Duce era  ossessionato e affascinato dalla loro strategia di sopravvivere, ci viene anche riportato il filmato in questione. Come direttore della sezione scientifica dell’Istituto Nazionale Luce, Omegna aveva realizzato oltre un centinaio di film. Uno anche su“La vita delle farfalle”. Organismi evidentemente troppo liberi per il Duce, che si ostinava a voler  conoscere a memoria solo i fotogrammi che tessono la rete e l’agire del ragno per difendersi dalla mantide.

Ci viene raccontato come le guarda e riguarda “ mentre la polvere e le macerie schiacciano i vivi e i morti come nulla più che insetti” (p. 709) Ma chi è la mantide? Chi il ragno? Si domanda e sembra domandarci l’autore. Altrove ci dice che niente si sa di cosa ebbero a dirsi nei loro incontri privati il Duce e il Fuhrer fino al momento dell’imbroglio della falsa pace “Due strette di mano” (cap. XVII), ma  ci viene ricordato che il Fuhrer in gioventù era stato omosessuale e che il suo amore particolarissimo per Mussolini, ostinato quanto incondizionato nella promessa di non abbandonarlo mai “Mai, qualunque cosa accada!” (cap.VII), fa ripensare al fatto che tutta la loro storia politica potrebbe essere raccontata come una incontenibile passione non ricambiata del Fuhrer per il Duce che invece da sempre nutre per lui un odio ben fermo che non sempre riesce a dissimulare.

E dunque tutto quel che seguì, poteva essere ben rappresentato dal filmato dove il ragno impotente è alle prese con una femmina mantide non facilmente trattabile, perché nonostante il maschio cerchi di accaparrarsene le grazie, ancor vivo sarà da lei messo in disparte dopo il pasto e infine ucciso e divorato (p. 709-714).

La metafora senza scampo viene a dirci che per quanto astuto sia l’aracnide nell’ungere le zampe di olio vischioso per salvarsi dalla sua stessa trappola, il potere politico non ottenne lo stesso successo nel tentare la medesima strategia. L’invischiamento di Mussolini con colui che definiva un “pervertito sessuale” divenne e restò “artifizio di eccitazione e morte come essenza del fascismo”.

Dal capitolo “Cuocere nel brodo” (XXVIII) il cinegiornale che riparte dalla numerazione n.1 fa una panoramica su Venezia in tono meno pomposo. Mostra uomini “armati di indifferenza”, che non sono più gli stessi nell’esultare per l’Italia monarchica. Dalle riprese sono totalmente scomparsi l’aquila, i fasci littori e i carri armati. Ci si illude che la fine di Mussolini significhi fine della guerra.

E’ luglio di uomini. Irate donne slacciate. Lune imboscate fra nubi, frammezzate di rosso e di spine.(p. 726)

Poi, nella descrizione del bombardamento su Roma. Un soffio diverso nella scrittura evoca reminiscenze futuriste. Come se le parole stesse,  per una necessità di rapporto con quanto cade dal cielo si pongano come effluvio contaminato dalla identificazione con l’aggressore. Ed è: “Inferno umano d’asfalto. Uomini setacciati. Barelle. Muri, di carne sventrati. Corpi salmistrati. Lingue. Morte. Di mani che fuoriescono. D’un frate che s’aggira. Sconfitto. Senza più soffitto“ (p. 728). E poi ancora: ”Non è la sfrontatezza dei millenni che è umiliata ma i volti tumefatti di quei grossi mosconi umani coventrizzati(...)V’è una dimensione astrale, assoluta. Colpi di obiettivo e della morte. Ma anche di una poesia dell’abisso, del dolore cosmico (p. 748).

Poi, nel capitolo “ E salì a Salò” così sul trasferimento di Mussolini al quartier generale di Hitler: “Sangue di ruggine, cuore di sfinge, Hitler è qualcosa di più di Himmler, l’entomologo della morte. Possiede la perfezione degli antichi veleni, la segretezza delle intime asfissie, il calore distruttore del gelo...” (p. 788)

Se la ricerca scientifica sul fascismo è materia di tale ampiezza e molteplicità di possibili interpretazioni, e se per lo più si pensa che la materia dell’epoca del fascismo può essere compresa soltanto mediante una stretta relazione tra pensiero filosofico e una visione storica, vien da domandarsi dov’è allora questa relazione nel libro di Cicchino. Una risposta potremmo trovarla in quel che molto recentemente si dice a proposito della inadeguatezza della filosofia a interpretare la modernità rispetto ad alcune  narrazioni che sanno meglio esprimersi per immagini. Immagini intese non tanto come figure, quanto per il pensiero che ne sottende le forme. Diverso da quello filosofico che per secoli ha parlato di se stesso senza mai  dirci da dove esso pensiero sorga.

Se fin dal primo capitolo ci siamo sentiti trascinare nella politica della doppiezza ciò vuol dire lo stile dei cinegiornali Luce una sua filosofia ce l’ha. Anche se non  concettualizzata ma sottintesa. Una  filosofia che la narrazione rende tanto più chiara quanto  più ben rappresentata.

Arriviamo così alla pellicola su “Piazzale Loreto” (XXXII e ultimo cap.) che “pare che palpiti”...Dove “Il passato si chiude. Vendetta si schiude...tra le gambe che guardano...i volti che premono...Tra vittime. Carnefici. Spettatori appollaiati come avvoltoi sui lampioni..I fotogrammi durano un lampo...La pellicola è totalmente frantumata... (p. 824)

Ma con essa (dalla quale si è potuto trarre le foto che documentano l’indicibile fino alla fine), ci vien da dire noi vediamo frantumarsi paradossalmente anche “L’essere per la morte” teorizzato da Heidegger. Ritenuto a tutt’oggi grande filosofo dai più, nonostante avesse aderito al partito nazista, Ernst Nolte lo ricorda ne “I tre volti del Fascismo” appellandosi a una sorta di trascendenza riparatrice.

Il narrare attraverso immagini si appella invece alla fantasia interna che è propria dell’uomo. Che vuol ricreare ciò che fu il primo sentire al momento della nostra nascita quando rifiutammo il mondo disumano per cercare in quello umano il rapporto e la vita. Ed è per questo che, come conclude l’autore, “la storia non si cancella attraverso la sepoltura né la follia umana con la vendetta sui colpevoli”. (p. 825)

Una riflessione, questa, che ci accosta al pensiero nuovo teorizzato dalla moderna psichiatria, che con la scoperta della “teoria della nascita” di Massimo Fagioli ha restituito alla realtà umana il sentire originario dell’immagine interna che è sempre stata dei poeti e degli scrittori. Un pensiero qualitativamente superiore che passivizza la razionalità filosofica caratterizzata dal logos del  pensiero occidentale e rende protagonista la storia nel suo farsi realtà umana uguale e al contempo diversa.

di Giovanna Bruco

GiovannaBruco è una pedagogista relazionale nata in Grecia da padre pugliese e madre slava. Ha vissuto per anni a New York dove ha sudiato la psicologia sociale e quella clinica. Si è laureata in pedagogia con indirizzo psicologico a Firenze nel  1975 dove vive e opera. Da allora la sua formazione è legata alla scuola romana di psicoterapia e psichiatria che si ispira all’opera teorica di Massimo Fagioli. Interessata alla metafora letteraria e a quella interattiva nell’intervento pedagogico-relazionale, nel 1998 ha conseguito la relativa qualifica con corso di specializzazione regionale. Ha esordito nella narrativa nel 1997, per Manni Editori, con il romanzo Assemblaggi imperfetti. Nel 2005 ottiene il secondo premio narrativa al Concorso Nazionale Ibiskos con il romanzo La nettarina, e nel 2006 vince il primo premio per la saggistica Onlus Belmoro col testo scientifico La zucca di Cenerentola, (sott.L’errore pedagogico). Il racconto in appendice Pensa la notte condensa la cifra del libro come  metafora della trasformazione del pensiero nel passaggio dalla  veglia al linguaggio dei sogni. Oltre che con articoli su  giornali di pedagogia  collabora con saggi e interventi alla rivista psichiatrica “Il sogno della farfalla”, a quella filosofica “Segni e comprensione” e a quella letteraria “L’immaginazione”.