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L'ultimo muro ad Est

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La Nord Corea o Repubblica Popolare e Democratica di Corea è l’unico paese al mondo ad essere governato da una sorta di monarchia di stampo totalitario e comunista. Il paese dove vige l’ideologia Juge si è chiuso ancor più in se stesso dopo il crollo dei regimi del patto di Varsavia. Il paese fondato dopo la fine della seconda guerra mondiale da Kim Il Sung, negli anni 50 vive una guerra con il gemello occidentale il Sud-Corea conclusasi con le risoluzioni del 38 parallelo. Da allora la sua popolazione vive in uno “stato-carcere”. Le comunicazioni con il mondo sono bandite, è severamente vietato lasciare lo Stato, buona parte della popolazione presenta gravi condizioni di malnutrizione,vige una legge denominata “Punizione delle Tre generazioni” in cui si è condannati anche per i reati commessi da un proprio avo. Al vertice di questo macabro Stato vi è Kim Jong-Un salito al potere nel 2011, figlio del precedente dittatore Kim-Jong Il e nipote del fondatore dello stato Kim-Il Sung. L’accessibilità alla nazione è quasi impossibile. Per gli occidentali innanzitutto è necessario un visto da parte dell’ambasciata nord coreana. Il In seguito dopo essersi imbarcati per la Cina all’aereoporto di Pechino, prima della partenza per Pyongyang, si viene privati del passaporto che sarà poi riconsegnato soltanto al ritorno. Arrivati nel paese, i turisti sono scortati da una guida che parla la loro lingua. E’ vietato lasciare la guida ed il gruppo, le fotografie vengono controllate da funzionari del regime e se necessario cancellate.

di Michelangelo Fanelli

Le nuove guerre ambientali

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Da oltre 70 anni, da quel famoso 2 settembre 1945, la parola guerra mondiale non sembra più caratterizzare i nostri giorni, o meglio, non fa più parte del nostro immaginario collettivo. Tuttavia questa teoria resta solo una nostra percezione, dal momento che ad essere terminati non sono i conflitti, ma solo le antiche strategie belliche. Non scendere più in trincea con l’elmetto non significa vivere in un’epoca di pace. Alla base dei recenti conflitti vi è la lotta per le risorse: Il petrolio alimenta le ricchezze di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar. Più in generale il petrolio, e la rincorsa alle risorse limitate, sono il male dei nostri giorni. Il fenomeno delle guerre ambientali insieme alla tecnologia militare si arricchisce in diversi frangenti del cosiddetto “denial of information”, ossia la negazione delle informazioni o la mancata condivisione. «Negare l’informazione è un atto di guerra fondamentale» denuncia il generale Fabio Mini. Un esempio pratico è il devastante terremoto e maremoto di Sumatra del 2004, nel quale persero la vita oltre 100.000 persone. Si parla di uno dei più catastrofici disastri naturali dell’epoca moderna, ma possiamo davvero parlare di disastro naturale? Restano molti dubbi sul mancato avvertimento dell'imminente arrivo dell'onda mortale, soprattutto in India e Sri Lanka, dove ha provocato 55.000 morti. Se le popolazioni costiere fossero state avvertite in tempo sarebbe bastato uno spostamento di cinquecento metri verso l'interno per non cadere vittime dello tsunami, dal momento che l'onda ha impiegato circa tre ore ad attraversare il Golfo del Bengala prima di infrangersi violentemente contro le coste indiane e singalesi. Oggi parliamo di guerre ambientali, ma quali sono le nuove strategie adoperate nei nuovi conflitti? Innanzitutto l’intenzionale modifica all’ambiente, il possesso dell’ambiente, del meteo, il condizionamento dell’economia e dei cicli politici. Quella che caratterizza i giorni nostri è una guerra asimmetrica, preventiva, che si combatte nei mercati finanziari. Non siamo più nel Novecento, ed oggi “Europa” non significa più 5 potenze mondiali, ma l’Europa è una e sola, e la pace che contraddistingue da 70 anni l’Europa non è da sottovalutare, ma non bisogna credere di vivere in un’isola felice, perché viviamo nel tempo della guerra, anche se non la stiamo combattendo direttamente in casa nostra.

di Daniele Leonardi

Renzi - Gentiloni e la crescita dell'export di armi

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L’Italia sotto la guida del ministro Gentiloni ha triplicato le licenze d’esportazione d’armi. In altre parole, nessun diniego e poche restrizioni pur di far cassa. Di fronte a tutto ciò, le risposte giunte da Paolo Gentiloni si sono dimostrate del tutto insufficienti, se non addirittura approssimative. L’ex ministro degli Esteri ora attuale premier Gentiloni, di fatto, ha ammesso il traffico di armi tra Italia e Arabia Saudita tra il 2011 e il 2015, sostenendo che tutto ciò sia stato legale. Nonostante la legge, sono innumerevoli i carichi di armamenti partiti dalla Sardegna e diretti verso l’Arabia Saudita. Già nel 2015 l’Arabia attaccava lo Yemen con bombe prodotte nell’isola italiana. Una guerra, quella tra Arabia e Yemen, di cui nessuno si occupa e che sta causando migliaia di morti. Non sono solo le bombe ad uccidere, ma anche l’indifferenza, l’omertà e la poca trasparenza. A nulla sono dunque valse le reiterate richieste all’ex governo Renzi delle associazioni della Rete italiana per il disarmo presentate. Di questa mancanza di trasparenza stanno approfittando, oltre che le aziende del gruppo Finmeccanica, soprattutto le banche estere. “E tra queste in modo particolare quelle banche, come Deutsche Bank e BNP Paribas, che non hanno mai emanato delle direttive per il controllo delle operazioni finanziarie sugli armamenti convenzionali e sulle armi leggere” così come dichiarato da Giorgio Beretta dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia. Sono 5.000 le bombe partite dalla Sardegna e inviate in Arabia Saudita e utilizzate dalla Royal Saudi Air Force per bombardare lo Yemen. Per non parlare degli oltre 3.600 fucili della Benelli inviati lo scorso anno alle forze di sicurezza del regime di Al Sisi in Egitto. Infine dalla “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” nel 2015 i valori come anticipato all’inizio sono più che triplicati ed hanno raggiunto la cifra record dal dopoguerra di oltre 8,2 miliardi di euro.

A cura degli allievi della Scuola di Giornalismo per Ragazzi sezione di Riccia (Benedetta Rubbio, Cristiana Basilone, Daniele Leonardi, Alice Di Domenico)

Roma nel mirino dell'Isis

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Il 27 febbraio è stata presentata al Parlamento la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza. I dati riportati riguardo la minaccia terroristica in Europa non lasciano ben sperare per l’Italia, che è chiaramente al centro del mirino del presunto Stato Islamico. Il 26 luglio 2016 si è verificato il primo attacco diretto alla cristianità: due cittadini francesi, Adel Kermiche e Abdel Malik Petitjean, dopo aver giurato fedeltà all’ISIS, hanno fatto irruzione in una chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray vicini Rouen in Francia uccidendo un parroco e prendendo 5 ostaggi. A settembre è stato pubblicato il primo numero della rivista Rumiyah (“Roma” in arabo) che pone la capitale italiana come meta di DAESH e contenente una rubrica dedicata alle tattiche terroristiche, in cui si indicano gli obiettivi da prediligere e i diversi mezzi offensivi da utilizzare: “…se si decide di investire le vittime con un veicolo, è bene sceglierne di grandi dimensioni per massimizzare gli effetti…” La tattica qui citata è stata utilizzata pochi mesi dopo, il 19 dicembre, a Berlino, dal tunisino Anis Amri, che ha ucciso 12 persone investendole appunto con un autoarticolato nell’area pedonale destinata al mercatino di Natale: un attacco alla festività più sentita da tutti i cristiani. L’attentatore è poi fuggito proprio in Italia dove è deceduto, a Milano, in seguito a uno scontro a fuoco con due agenti di polizia. “Tutte le strade portano a Roma” recita un vecchio proverbio ed è ormai ovvio che anche la strada dell’ISIS arriva all’Urbe.

di Adele Di Lullo

Cina-Usa e la geopolitica dei mercati

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A partire dal gennaio 2016 tutti i titoli del settore bancario del vecchio continente crollarono per via delle proprie sofferenze sui crediti, facendo segnare minimi storici ai più grossi istituti bancari italiani e non. Di conseguenza gli indici europei passarono un periodo di depressione segnando i nuovi minimi dell’anno, seguiti dai principali indici americani e asiatici. Nonostante tutto però,c’è stata una lenta ripresa sui mercati europei; i principali titoli, esclusi quelli bancari, hanno riacquistato il loro valore sul mercato, ed i listini americani hanno addirittura segnato nuovi massimi storici. A cosa è dovuto questo periodo di trend altamente positivo visto soprattutto sui mercati americani? C’è un vero motivo di fondo? Anche in questo caso, la fonte più credibile al quale possiamo attingere è il passato. La storia infatti insegna che nelle recenti crisi, il mercato è crollato verso ottobre-novembre, o comunque in vista di eventi particolarmente importanti come le elezioni presidenziali o la chiusura del terzo trimestre USA, di conseguenza quest’anno potrebbe risultare molto delicato ed il momento di grande positività, sui mercati americani, a cui abbiamo assistito, altro potrebbe non essere che il punto di arrivo di un’enorme bolla finanziaria in procinto di esplodere. Quella di cui stiamo parlando è una bolla colossale che ha alla base il mercato del debito statunitense. Si tratta di un processo innescato diversi decenni fa, ma che sta venendo a galla solamente da poco. Il primo segno è stato dato dal crollo dei mercati cinesi nel 24 agosto del 2015, giornata rinominata “lunedì nero”. Durante il mese di agosto ci furono le prime debolezze, ma quel lunedì fu la giornata più negativa, con crolli significativi su tutte le principali piazze mondiali, lasciatesi trascinare dal mercato asiatico. Secondo il parere degli economisti, il mercato cinese cadde per l’esigenza di sgonfiare le quotazioni dei titoli azionari che in precedenza erano altamente sovraprezzate, fino a sessanta volte il loro reale valore. Nonostante questa spiegazione apparentemente logica, il vero motivo è molto più grande. Negli ultimi anni la Cina ha avuto aumenti del PIL esponenziali, addirittura numeri a doppie cifre, a cui erano ormai abituati sia il governo cinese che gli investitori. Nel 2015 questo non accadde, o meglio, ci fu comunque un aumento elevato, ma non abbastanza da soddisfare le aspettative del mercato ed i piani del governo. Quest’ultimo allora, non ritrovandosi con i conti fatti ad inizio anno, ha dovuto metter mano alle proprie riserve, ovvero un tesoretto di 3,8 milioni di dollari, da far invidia anche agli Stati Uniti. Cifra accumulata in tanti anni e più che dimezzata in appena un mese. A questo punto si può dedurre che l’amministrazione cinese avesse già previsto di arrivare ad una tale situazione, mettendo preventivamente un’ingente somma da parte per farvi fronte. Ricordiamo che la Cina è uno dei paesi che importa la più grande quantità di materie prime in tutto il mondo: ferro, zinco, oro, argento, metalli vari, gas naturale ma soprattutto petrolio ed acciaio, infatti tutte le più grandi e principali società del settore sono cinesi oppure operano direttamente con la Cina che ne è il maggior acquirente su scala globale. Ma la materia prima allo stato puro proviene dai Paesi emergenti, come ad esempio l’Arabia Saudita con il petrolio, e la maggior parte delle entrate di questi paesi in via di sviluppo proviene proprio dalla vendita di queste materie ad altri paesi, in primis la Cina. Questo vuol dire che se lo stato asiatico in questione non ha più soldi per acquistare le materie prime dai paesi produttori, questi avranno economie più deboli perché private del commercio che rappresenta quasi interamente il loro sistema economico, e ciò sarà la conseguenza di meno introiti che a sua volta porterà a non avere più soldi per pagare i debiti, un vero e proprio collasso che nel peggiore dei casi potrebbe concludersi con un default. Ma debiti nei confronti di chi e, soprattutto, perché stiamo parlando dei paesi emergenti e cosa hanno in rapporto con l’America? Perché proprio i paesi emergenti sono i maggiori detentori del debito nei confronti degli Stati Uniti, si tratta di cifre stratosferiche: 117 miliardi di dollari da parte dell’ Arabia Saudita, per non parlare dei 1000 miliardi di dollari ciascuno in mano a Cina e Giappone. E questo è il vero fattore principale, perché l’America è un Paese che di fatto non produce nulla e la sua economia è basata quasi interamente sul mercato del debito, se questi paesi non hanno più entrate, allora non saranno in grado di pagare le loro passività, con il conseguente crollo del mercato americano. Ma non finisce qui, perché a questo punto gli Stati Uniti potrebbero stampare più carta moneta a cui succederà una grossa inflazione seguita dalla svalutazione del dollaro. Quindi meno sussidi alle banche da parte del governo ed una moneta che vale molto meno. Inutile dire come tutto questo avrebbe effetti devastanti sull’intera economia globale. Lo scenario di cui abbiamo appena parlato è plausibile dato che le riserve cinesi prima o poi saranno destinate a finire. E se i mutui subprime, nel 2008, costituivano una piccola parte del mercato statunitense, la fetta del mercato del debito è molto più ampia, il tutto amplificato da un imminente aumento dei tassi che costituirebbe solo un brusco acceleratore di un sistema corrotto avuto inizio già decenni fa e destinato ad esplodere.

di Gabriele Calabrese