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Storia militare

Il mistero delle spie naziste

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Nel giugno del 1942 gli U-Bot nazisti erano giunti fino alla rada di New York, qualunque nave salpasse dal porto della grande mela correva il rischio di essere silurata, in tantissime furono affondate, la maggior parte delle quali erano imbarcazioni militari o comunque utilizzate per il trasporto di uomini e mezzi negli scenari della seconda guerra mondiale. In questo stesso periodo i sommergibili tedeschi compirono un’azione di spionaggio eroica i cui particolari, in parte svelati, sono coperti da un fitto strato di nebbia che ancora settant’anni dopo meritano un approfondimento dato che la piena comprensione di questo evento, è la chiave di volta per comprendere alcuni scenari di guerra riguardanti gli Stati Uniti e tutto il corollario dell’attività segreta svolta dagli impavidi uomini dell’ O.S.S. prima e della C.I.A. dopo, attività che avrebbero pesato enormemente sullo svolgimento del conflitto mondiale e soprattutto sugli equilibri planetari del trentennio successivo, col mondo diviso in due blocchi contrapposti nella guerra fredda. Non è facile seguire il filo logico degli avvenimenti, la verità corre su un filo, eppure vale la pena provare a capire. A quei tempi Il presidente Franklin Delano Roosevelt non riusciva a chiudere occhio, i sommergibili nazisti erano appostati da qualche parte poco fuori le coste americane, ora la guerra il cui teatro principale era l’Europa toccava anche il paese stelle e strisce; questo non doveva accadere. Gli uomini della Casa Bianca lo informarono di una realtà sconvolgente, gli U-Bot non solo erano una minaccia per tutti i convogli della Marina Americana*, ma si erano permessi di sbarcare clandestinamente due diverse squadre di spie sabotatrici per un totale di otto uomini che erano riuscite ad eludere il sistema di sorveglianza della Guardia Costiera e si erano intrufolate nell’entroterra facendo perdere le proprie tracce. Incredibile, delle spie naziste pronte all’azione, quattro dalle parti di New York, altrettante in Florida. La falla nelle difese militari statunitensi mise in imbarazzo il presidente, qualcuno molto vicino al suo staff propose una possibile soluzione. Un ufficiale della marina, tale Haffenden, sostenne che le spie naziste godevano dell’appoggio incondizionato della mafia siciliana che spadroneggiava al porto di New York, da quelle parti non si muoveva foglia senza l’avallo dei mammasantissima; i malavitosi siciliani erano irretiti  dalle misure restrittive esercitate dal governo, per questo motivo decisero di appoggiare per ripicca le forze dell’Asse. Il pool di esperti che affiancò Roosevelt in quei delicati momenti propose un compromesso al presidente, occorreva contattare il capo dei capi Lucky Luciano leader indiscusso della mafia detenuto nel carcere di Dannemora e chiedere la collaborazione delle famiglie; Roosevelt accettò, così anche Luciano. Immediatamente l’esercito della mafia si mise in movimento, pescatori, commercianti, scaricatori e tutto il resto della consorteria siciliana col passaparola coinvolsero le famiglie di New York e furono coinvolte a catena anche i parenti e gli amici degli amici delle altre città con gli italo americani di prima e seconda generazione in prima fila, alcuni di essi, natii d’America, già facenti parte delle forze armate americane. Le spie furono immediatamente scovate, Roosevelt ne fu contento ed ancor di più gli uomini dei servizi segreti; passò alla storia questa versione, quella della mafia collaborazionista che determinò la cattura delle spie dando un contributo determinante al ribaltamento delle sorti della guerra. Questo fu solo l’inizio di una lunga stagione amorosa tra le due parti, si doveva pianificare lo sbarco  in Europa ed agli uomini dell’O.S.S. non parve vero di avere un alleato fresco ed efficiente proprio su uno dei possibili scenari di guerra: la Sicilia. Le famiglie mafiose italoamericane e siciliane bramavano all’idea del riscatto, le prime volevano compiere il salto, agganciare i palazzi del potere alla Casa Bianca e fuoriuscire dall’alone di disprezzo con cui i mangiaspaghetti venivano ghettizzati negli States per ripulirsi ed inserirsi in affari sporchi di più alto livello; le seconde volevano sbarazzarsi dell’ingombrante Mussolini che un po’ di fastidio aveva dato e seguire il vento buono incuneandosi come al solito nei palazzi del potere. I siciliani d’America scrissero ai parenti sull’isola i quali si attivarono preparando il terreno allo sbarco, ma non era gente qualsiasi, erano gli accoliti di Luciano e la sua banda, capimafia e relative famiglie, gente di potere che all’ombra del Duce si era nascosta e che ora tornava all’assalto; i funzionari americani erano stati chiari, quando il regime fascista sarà annientato, a guerra vinta, chi avrà collaborato alla buona riuscita dello sbarco otterrà i posti di governo nei ruoli chiave dell’amministrazione pubblica. Gli analisti della Casa Bianca avevano la vista lunga, sapevano già dall’Intelligence che Stalin mirava con interesse alla Sicilia poiché le condizioni dei lavoratori isolani erano un terreno di coltura ideale per fare della Trinacria una terra rossa. (CONTINUA)

di Giuseppe Barcellona

Gabrielli un ingegnere sui generis

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Nato a Caltanissetta nel 1903, all’etá di sette anni si trasferisce con le famiglia a Torino. Si laurea brillantemente al Politecnico in Ingegneria Industriale Meccanica all’etá di 22 anni. Consegue un dottorato in Germania all’Univerisitá di Aquisgrana e dopo vari impieghi nell’industria aeronautica viene assunto in Fiat, apprezzato da Giovanni Agnelli. Gli aeromobili progettati da lui vengono contraddistinti da una “G”, nel marchio. Nel 1943 é il Fiat G 55 Centauro che viene dichiarato, da una squadra di collaudatori della Luftwaffe, agli ordini del Tenente Colonnello Oberst Petersen, “il miglior caccia dell’asse”, in un telegramma inviato dall’Italia al Maresciallo del Reich Göering. Il velívolo fu dichiarato superiore sia al Bf 109 G-4, sia al Fw 190 A, sia agli italiani Re 2005 e Mc 205. Nel 1970 una nuova creazione di Gabrielli é destinata a stupire, questa volta per le sue capacitá di decollo corto: é nato l’Aeritalia G. 222. Tale velívolo presenta numerose qualitá rispetto alla concorrenza. Tuttavia col tempo gli vengono riscontrati costi operativi pari a ¾ rispetto ad un C 130, che peró trasporta il doppio del carico. Il G. 222 viene sperimentato dalle forze armate americane col nome di Lookhead C 27 A. Nella sua seconda evoluzione, il velivolo viene modificato in maniera tale da utilizzare il piú alto numero possibile di componenti del suo fratello maggiore americano. L’aereo utiliza due dei quattro motori del moderno C 130 J, i rotori esagonali dotati del caratteristico profilo “a scimitarra” l’avionica in comune. In questa versione, ben il 65% dei componenti del mezzo é in comune col C 130 J. Puó trasportare 60 soldati o 46 paracadutisti; si caratterizza per un portellone di coda ampio, che unito al pavimento resistente consente l’imbarco anche di mezzi cingolati; il carrello é ad assetto variabile per facilitare le operazioni di carico. Il successo commerciale del velívolo é enorme, essendo adottato da ben nove paesi. Bulgaria, Ghana, Grecia, Italia,Lituania, Marocco, Messico, Romania, Slovacchia. L’aereo é destinato a costituire il fulcro della línea di trasporto militare di tanti paesi; l’Afghanistan utilizzerá i G222 acquistati usati dagli Usa (originari italiani) col compito di distribuirli al paese asiático. Anche gli Usa hanno ordinato un numero consistente di tali velivoli: 55, con possibilitá di espansione a 78, da distribuirsi all’Aeronautica e all’Esercito. Per fare un paragone, l’Italia ne ha finora acquistati dodici. Tra le versioni del velívolo, non é certo se verrá riproposta la versione Radiomisure (utilizzata col G. 222, ancora in servicio nell’Ami), mentre si discute sulla possibilitá di adottare la versione Pretorian, la cannoniera volante, che potrebbe avere una capacitá operativa migliore dell’A C 130 Spectre, grazie alla dispiegabilitá e all’agilitá del mezzo, che puó effettuare in volo spettacolari tunneau. A seguito della crisi económica, l’amministrazione Obama decide di tagliare l’ordine a 38 esemplari. E’ recentissima la notizia che é toccato ad un ministro italo-americano, Leon Panetta, annunciare il ritiro del Paese dal programma di acquisto dell’aereo italiano. Secondo i piani del Pentagono, le operazioni di trasporto da destinare ai C 27 J possono essere svolte dai C 130 J, peraltro anch’essi in via di riduzione. Ma probabilmente il C 27 é considerato un mezzo che puó creare sovrapposizioni operative anche col V 22 Osprey. E’ ancora in forse la destinazione dei 13 mezzi giá adottati dalle Forze Armate statunitensi. Ultimamente l’Australia sembrava interessata a tali macchine, ma nulla é sicuro per ora. Anche il Canada puó essere un probabile cliente. Sta di fatto che la notizia della cancellazione del programa americano rappresenta un freno per l’industria nazionale; giá con la cancellazione del programma dell’elicottero presidenziale US 101 le azioni della Finmeccanica erano calate. Nonostante l’abbandono di tale programma i vertici italiani non arretrano dagli impegni presi col programma JSF (F 35). Ora l’unico mezzo italiano da valutarsi oltre oceano rimane l’Iveco SuperAV, a seguito della cancellazione del programma americano Expeditionary Fighting Vehicle, che presentava una serie di inconvenienti operativi.

 

 

di Antonio Frate

 

 

I sorci verdi

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Prendendo spunto da questo pittoresco modo di dire, gli aviatori del 12mo stormo verso la metà degli anni trenta, adottarono come distintivo i tre sorci destinati ad entrare nella storia dell’aviazione.

In particolare i tre sorcetti verdi ornavano uno dei più celebri velivoli della Regia Aeronautica: il Savoia Marchetti S79, temuto bombardiere trimotore durante il conflitto ma eccellente ed elegantissima macchina da primato quando impegnato in competizioni internazionali.

Progettato dall’Ing. Marchetti per concorrere alla coppa McRobetson sul percorso Londra –Melbourne, il SM79 si aggiudicò vari primati tra il 1935 ed il 1938 imponendosi all’attenzione globale con due imprese che suscitarono moltissima ammirazione; nell’estate del 1937, l’Aero Club francese indisse una competizione velocistica senza scalo  sul percorso Istres-Damasco-Parigi, competizione che andava a sostituire la precedente gara di velocità Parigi-NewYork organizzata per commemorare la trasvolata di Lindbergh del 1927.

Le poche nazioni partecipanti curarono ogni dettaglio, compresa l’Italia, presentatasi ai nastri di partenza con otto velivoli, sei SM79 e due Fiat BR20; I SM79 furono adattati in particolare nella versione “C” (corsa) privati delle installazioni da combattimento presenti sulle versioni militari, comprese la famosa gobba e la gondola ventrale.

Le partenze ebbero luogo il 20 agosto del 1937, nell’ordine partirono gli equipaggi francesi, inglesi, italiani.

Al termine della prima tappa, gli italiani erano in vantaggio con una media di 400 km/h; il mattino seguente la partenza della seconda tappa: Damasco-Parigi; all’aeroporto parigino di Burget, giunsero per primi tre SM79: l’I-11 dell’equipaggio Cupini-Paradisi, seguito dall’I-13 di Fiori-Lucchini e dall’I-5 di Biseo-Mussolini.

La bella prestazione franco/siriana era, nei progetti della Regia Aeronautica, solo una tappa verso la realizzazione di un’impresa ben più importante: il collegamento Roma-Rio de Janeiro, per dimostrare come l’industria italiana fosse all’avanguardia nella realizzazione di velivoli commerciali in grado di dominare le nuove rotte atlantiche, aperte in modo leggendario da Lindbergh e spettacolarizzate dalle imprese di Balbo e i suoi eccezionali equipaggi.

Tre dei velivoli impiegati per il trofeo dell’anno precedente vennero aggiornati e reimmatricolati con le sigle I-BISE (Biseo Paradini) I-MONI (Moscatelli-Castellani) e I-BRUN (Mussolini-Mancinelli).

La partenza si ebbe alle 07,28 del 24 gennaio 1938 da Guidonia; gli equipaggi incontrarono forti turbolenze sul percorso che li fecero dirottare verso occidente ( Dakar), tappa raggiunta comunque con una media di 420km/h.

La trasvolata atlantica ebbe inizio il mattino seguente alle 09,10 e dopo otto ore e mezza gli equipaggi I-BISE e I-BRUN avvistavano la costa brasiliana giungendo a Rio de janeiro alle 22,45 del 25 gennaio 1938, coprendo i 5350 Km del percorso ad una velocità media di 393km/h.

L’ I-MONI ebbe durante la trasvolata problemi ad un’elica ma riuscì ad attraversare l’Atlantico con i due motori rimanenti atterrando a Natal, dimostrando l’affidabilità eccezionale dei Savoia Marchetti.

Le tre macchine rimasero in Brasile,una regalata, le altre due acquistate dal governo brasiliano.

Moscatelli rimase come istruttore. L’impresa suscitò una grande eco e fu abilmente strumentalizzata per finalità politiche e propagandistiche anche se in realtà l’obiettivo primario era quello ben più concreto di mettere a punto obiettivi industriali e tecnologici.

I tre sorcetti verdi rimasero l’emblema del 12mo stormo fino all’inizio del secondo conflitto mondiale.

L’antagonismo che questo stormo creava negli altri reparti della Regia Aeronautica, diede vita ad un simpatico episodio: sembra che dopo uno scambio di battute tra equipaggi del  12mo e 51mo stormo, nacque in questi ultimi l’idea di fregiare i propri velivoli con un nuovo stemma: il famoso gatto nero intento a lavorarsi tre sorcetti verdi.

 

 

di Umberto Zezza

 

 

 

 

Il mezzo militare che ha rivoluzionato il concetto di mobilità fuoristrada: la Jeep

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La Jeep, abbreviazione di “General purpose Utility Truck ¼ t 4x4” fu il veicolo costruito nel maggior numero di esemplari nel corso della seconda guerra mondiale.

Fu usato dalle forze armate degli Stati Uniti su tutti i teatri di guerra e fu ceduto in quantità notevoli a tutti gli alleati, diventando quindi il principale veicolo di collegamento anche per gli eserciti britannico, sovietico e francese. Fu utilizzato anche dalle forze dell'Asse, quando ebbero occasione di catturare veicoli ancora funzionanti.

Il nome "jeep", come detto, è dato dalla pronuncia dell'acronimo GP che sta per “General Purpose” (Impiego Generico).

Successivamente alla seconda guerra mondiale il termine jeep indicò genericamente qualsiasi veicolo militare leggero non blindato con un aspetto simile alla Jeep originale.

La necessità di veicoli militari leggeri con quattro ruote motrici fu riconosciuta nell'ambito dell'US Army fin dal 1935, quando Arthur W. Herrington (che era stato ingegnere nel Quartermaster Corps) realizzò un veicolo con carico utile di mezza tonnellata, chiamato "Darling" per l'artiglieria, dove fu utilizzato in numero limitato di esemplari come "contact team vehicle".

Le necessità della fanteria tuttavia erano orientate verso veicoli di dimensioni minori, dato che un veicolo come il Darling pesava circa 1800 kg (4000 lbs) , mentre erano richiesti veicoli del peso di circa 700 kg (1500 lb) per poter essere spinti a mano in caso di guasto. In base a queste considerazioni nel giugno del 1940 il Quartermaster Corps emise le specifiche per un veicolo da ricognizione 4x4 del peso di 585 kg, richiedendo ai fabbricanti di autoveicoli di predisporre un prototipo per la fine di luglio. L' unica compagnia che fu in grado di soddisfare le richieste dell'esercito fu la American-Bantam che produsse un veicolo che, tuttavia, non rientrava nei limiti di peso, non realistici per la tecnologia dell'epoca, previsti.

L'esercito statunitense aveva fornito i disegni costruttivi del veicolo anche alla Willys ed alla Ford, senza l'autorizzazione della Bantam, quindi, nel novembre dello stesso anno, la Willys e la Ford presentarono i loro prototipi (chiamati rispettivamente Quad e Pygmy), molto simili a quello della Bantam. Quando finalmente l'esercito emise gli ordini definitivi per i primi 8000 veicoli, i veicoli di serie avevano modificato il loro aspetto ed il loro nome: la Jeep Bantam era il 40 BRC, il veicolo Willys era il modello MA ed il veicolo Ford il GPW.

Tuttavia nel luglio 1941 l'esercito si orientò definitivamente sul progetto Willys ed emanò contratti per questa ditta e per la Ford, eliminando totalmente la Bantam dalla produzione del veicolo, dandole solo un contratto per la produzione dei rimorchi.

La jeep era un veicolo esteriormente estremamente rustico, praticamente solo una piattaforma su quattro ruote con un cofano a forma di parallelepipedo, con l'abitacolo appena protetto da barriere laterali che non superavano in altezza il cofano. Il parabrezza, costituito da due vetri sostenuti da un telaio, generalmente era abbattibile. L'uso principale, come veicolo da collegamento e, secondariamente, da ricognizione, non prevedeva particolari cure per la carrozzeria, tanto che furono studiate modifiche per realizzare la carrozzeria in compensato, per ridurre il consumo di acciaio (più utile all'industria pesante), comunque, considerando che la jeep aveva anche funzioni di trasporto fuoristrada per ufficiali superiori furono effettuati diversi tentativi, talvolta con modifiche direttamente nei reparti, per fornirla di una carrozzeria chiusa.

Tipico della jeep, nella versione finale, era il radiatore in lamiera stampata con i fari incorporati.

Il motore di serie della jeep era il Willys Mod 442, detto anche “Go Devil” un motore alimentato a benzina (come quelli di tutti i veicoli dell'esercito statunitense), un quattro cilindri con testata a "L" a valvole laterali. La cilindrata era di 2196 cm3, ed il motore erogava 40 kW (54 HP) a 3700 rpm, la coppia massima era di 123 N·m (98 ft-lb) a 2000 rpm.

La trasmissione, con giunti a “U”, era con un cambio a tre marce e retromarcia, con riduttore a due posizioni. La trazione era su tutte e quattro le ruote.

Gli ammortizzatori erano idraulici, indipendenti sulle quattro ruote e le sospensioni erano a balestra.

I primi modelli di Willys MB avevano la griglia del radiatore fatta di barre di acciaio sagomate e saldate, i fari erano montati sulla barra superiore, ed erano mobili, in modo tale da poter essere rovesciati per illuminare il motore in caso di riparazioni. Questa soluzione fu scartata molto presto, sia perché i fari in quella posizione erano più esposti a danneggiamenti rispetto ai fari inglobati nella parte anteriore della vettura, sia perché gli utilizzatori del veicolo non ritenevano opportuno illuminare il veicolo fermo di notte mentre stavano riparando il motore, esponendosi così al fuoco nemico.

Per l'uso in zone desertiche le jeep erano modificate con pozzetto piezometrico per il radiatore, compressore e manometro per la gestione della pressione degli pneumatici e filtro del carburante esterno.

Talvolta in Europa le jeep furono adattate per il movimento ferroviario, sostituendo le ruote in dotazione con ruote ferroviarie di piccolo diametro su assali allungati. Le ruote standard generalmente erano portate sui fianchi del veicolo per poter essere sostituite a quelle ferroviarie. Un'altra soluzione era ottenuta utilizzando un kit di modifica della Evans Autotrailer Company che permetteva di aggiungere due carrelli ferroviari di due ruote ciascuno, uno anteriore ed uno posteriore, alla jeep normale, quindi senza dover cambiare le ruote, almeno 7 esemplari furono equipaggiati con questi mezzi.

Fra gli accessori era previsto anche l'utilizzo di uno snorkel per l'utilizzo da LCM, permettendo quindi alla Jeep di fare gli ultimi metri fino alla spiaggia parzialmente, o anche totalmente, dato che la profondità massima di guado era di 1,83 m, immersa.

Jeep costruite alla fine della seconda guerra mondiale: 634569, 2642 Bantam, 350349 Willys e 281578 Ford.

 

 

fonte: Historia – Storia & Militaria

 

Libia 1911-2011. Cento anni fa le prime bombe dal cielo

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L’interesse verso i territori libici per i colonialisti italiani vi era già ad inizio Novecento, in quanto:

vitale e di primissimo ordine a cagione della vicinanza di quelle regioni alle coste italiane”.

La guerra dell’Italia contro la Turchia per il possesso della Tripolitania e della Cirenaica (controllate allora dall’Impero Ottomano) cominciò il 28 settembre 1911, in modo alquanto singolare, quando l’incaricato italiano a Costantinopoli consegnò l’ultimatum ad Hakki Pascià, capo del governo turco, mentre questi era impegnato in una partita di bridge in casa di una signora della buona società.

Alla lettura del documento l’uomo esclamò: “E’ uno scherzo, vero?”

Purtroppo non lo era, ed in quello stesso giorno, nel quadro dei preparativi militari, il comando del Battaglione Specialisti (antesignano dell’arma aerea italiana) diramò l’ordine n.1 RISERVATISSIMO inerente la costituzione di una flottiglia aerea da mettere a disposizione del Corpo d’Armata mobilitato per la conquista della Libia.

La flottiglia era composta da undici piloti e nove aeromobili: i cinque piloti titolari erano il capitano di artiglieria Carlo Maria Piazza, comandante del reparto aerei, il capitano d’artiglieria Riccardo Moizo, il tenente De Rada ed i sottotenenti marchese Giulio Gavotti e Ugo de Rossi.

Gli aerei consistevano in due Bleriot, due Farman, due Etrich e tre Nieuport , tutti con motorizzazioni di 50 Cv.

Malgrado l’ordine RISERVATISSIMO, spedire la flottiglia in Libia non fu facile: l’arma aerea non era ancora conosciuta e tantomeno era immaginabile il suo potenziale.

La precedenza era data alle truppe di terra e fu solo grazie all’intervento di Pietro Badoglio, allora giovane capitano, che la situazione si sbloccò, permettendo al capitano Piazza di ricevere gli aeromobili in Libia il 15 ottobre del 1911. Alle 16:15 del 23 ottobre, Piazza decollava per il primo volo di guerra della storia: una ricognizione sull’oasi di Zanzur per conoscere i movimenti delle truppe nemiche.

Un paio d’ore più tardi la missione veniva ripetuta dal capitano Moizo, e risultò un tale successo, da convincere gli alti comandi dell’importanza dell’arma aerea; Moizo aveva individuato dall’alto i movimenti di circa 2000 soldati nemici, scoprendo inoltre che la località di Azizia era a 60 km da Tripoli e non ad 80, come indicato erroneamente sulle imprecise carte dell’epoca.

Ma è il 1 novembre del 1911 la data da segnare in rosso sul calendario dell’aviazione militare: quel giorno infatti il tenente Gavotti lanciava  sull’oasi di Ain-Zara una bomba Cipelli dal peso di due kg e tre bombe dello stesso tipo sull’oasi di Tagiura: era il primo bombardamento della storia.

Le bombe venivano così descritte dall’ “Illustrazione italiana”:

“Queste bombe piene di picrato di potassio (alto esplosivo) sono di tipo studiato per l’aviazione della marina e sono state costruite a Spezia. Ne fu primo inventore il tenente di vascello Carlo Cipelli del silurificio di San Bartolomeo. Il Cipelli , tre anni or sono mentre costruiva tali bombe al balipedio di Viareggio, rimase vittima di uno scoppio nel quale perirono con lui il tenente Mazzuoli ed un operaio del balipedio. Tali bombe consistono in un involucro sferico d’acciaio poco più grande di un’arancia, pieno di picrato. Una pallina di ferro, che viene lasciata libera nell’interno al momento opportuno, urta, quando la bomba tocca il suolo, contro il fulminante provocando l’esplosione. La pallina normalmente è tenuta ferma da una molla che bisogna estrarre dalla bomba all’istante del getto, mentre la pressione della mano stringe un piccolo cerchio che mantiene la pallina immobile nel breve attimo che passa tra l’estrazione della molla e il getto”

L’aviazione italiana in Libia, intanto, continuava il suo percorso formativo.

Il 15 dicembre il tenente Roberti veniva bersagliato da cannoni turchi usati in funzione di contraerea; il 15 gennaio del 1912 ci fu il primo lancio di volantini propagandistici su colonne nemiche, e tre giorni dopo Gavotti atterrava al fianco delle truppe italiane nel deserto per riferire in tempo reale degli spostamenti nemici.

Dal 28 novembre del 1911 era anche entrata in attività, in Cirenaica, una flottiglia aerea di aviatori volontari civili costituita per iniziativa dell’onorevole capitano Carlo Montù e dell’AeroClub d’Italia.

Il reparto era stato creato sull’onda dell’entusiasmo derivante dalle imprese tripolitane e volava con tre aerei posti al comando del capitano di artiglieria Cuzzo-Crea. A questi tre aerei di base a Bengasi (un Farman un Bleriot ed un Asteria) se ne aggiunsero altri su nuove basi a Derna e Tobruk, e tra gli aviatori volontari militarizzati figuravano nomi noti del pionierismo aviatorio, come quelli di Umberto Cagno e Mario Cobianchi.

Nel gennaio del 1912, in Cirenaica, cominciarono i primi voli della storia di aerei biposto da osservazione, pratica ripresa in seguito massicciamente da tedeschi, inglesi e francesi nel corso della Prima Guerra; fu durante uno di questi voli che il 31 gennaio si ebbe il primo ferito dal fuoco contraereo: il capitano Montù fu ferito infatti ad un fianco da una scarica di Mauser proveniente da terra, durante un tentativo di bombardamento sul campo di Emme-Dauer.

Nel febbraio del 1912, il capitano Piazza scattò dal suo aereo la prima foto nella storia della ricognizione aerea; solo a bordo e con una rudimentale macchina, non poté scattarne più d’una ma segnò l’avvio di una specialità che già in quello stesso 1912 registrò numerosi progressi.

Nel marzo dello stesso anno Piazza e Gavotti effettuarono il primo volo notturno ed il 12 agosto le cronache registravano il primo aviatore caduto della storia: il sottotenente Piero Manzini, precipitato durante una missione di guerra nella zona di Tripoli.

Il 10 settembre del 1912, infine, si registrò il primo aviatore caduto prigioniero: il capitano Moizo, costretto ad atterrare entro le linee nemiche da un’avaria del motore; fatto prigioniero con tutti gli onori, venne liberato il 28 ottobre dopo la firma del trattato di pace tra Italia e Turchia.

Così “L’Illustrazione Italiana” nel novembre del 1911 apriva un breve articolo dedicato alle imprese militari aviatorie in Libia: “L’aviazione  militare italiana non solo si è segnalata con i suoi servigi di esplorazione dall’alto sul nemico, compiuti dai capitani Piazza e Moito, ma il primo novembre ha eseguito, prima nel mondo, il bombardamento dell’accampamento nemico per opera del tenente Gavotti della brigata specialisti.”

Con il suo bombardamento del 1911 il Tenente Gavotti inaugurò sulla Libia l’età della guerra aerea.

Il caso ha voluto che, cento anni dopo, l’uso dell’arma aerea contribuisse in maniera decisiva, ancora in Libia, alla definizione degli equilibri geo-politici di una parte del mondo.

 

 

di Umberto Zezza