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Temi globali

Tagli alle truppe italiane in missione

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Nel corso del 2012, il numero dei militari italiani impegnati nelle missioni estere resterà di circa 6.500, a fronte degli 8.150 attivi lo scorso settembre. La cifra è stata stimata dal ministro della Difesa, Di Paola, in un’audizione davanti alle Commissioni Esteri e Difesa del Senato. Le prime riduzioni del contingente italiano in Afghanistan (oggi 4.200 militari) si avranno a fine anno. In Libano gli effettivi passeranno da 1500 a 1100 mentre 100 militari saranno impiegati in Libia per la sicurezza e sorveglianza del territorio.

 

fonte: Redazione

La guerra dei contractors

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Giampiero Spinelli è un contractor. Ora lavora per l'azienda italiana I-Protego Defense con sedi a Roma e Noci. Dopo essere stato parà della Folgore, in seguito al congedo, ha lavorato con una società israeliana come contractor in Medio Oriente per 3 anni. Poi per conto di imprenditori italiani ha svolto l'attività di contractor per 1 anno in Brasile prima di arrivare in Iraq assoldato da un colosso americano del settore legato al Dipartimento di Stato americano.

Accusato di arruolamento o armamento non autorizzato al servizio di uno stato straniero, processato e poi assolto in merito ai fatti in Iraq cominciati con la vicenda del sequestro il 12 aprile 2004, da parte delle «Brigate verdi», dei quattro addetti alla sicurezza italiani, Salvatore Stefio, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino insieme con Fabrizio Quattrocchi, che fu ucciso dai rapitori, che di Spinelli erano amici e colleghi.

Giampiero Spinelli nel 2009 ha pubblicato un testo edito da Mursia dal titolo “Contractor”.

 

Spinelli, quanti contractors ci sono oggi in Italia?

Siamo diversi, ma quelli buoni sono in tutto una quindicina e lavorano tutti per società estere.

Quanto guadagna mediamente un contractor?

Moltissimo. In Iraq ad esempio ne eravamo in 25.000. La paga era di 1.500-2.000 dollari al giorno. Molti erano legati a Blackwater.

Quali regole avevate in Iraq, o meglio il vostro contratto cosa prevedeva?

Dovevamo assicurare protezione al Vip e alla popolazione civile. In Iraq, come in Afghanistan, per regolamento della forza multinazionale, nessuna compagnia privata e nessun operatore contrattato, sia da parte privata che governativa, può entrare in confronto al seguito delle truppe. È un crimine gravissimo per il quale si rischia l’arresto e il rimpatrio immediato. Tutti i contractors in Iraq potevano esclusivamente agire per difesa, nel caso in cui i convogli o le installazioni fossero state attaccate. Nessuno poteva, per le regole d’ingaggio, partecipare ad alcun confronto bellico. Non si poteva entrare in combattimento a fianco delle forze armate. Cioè se col veicolo nostro passavano su una strada dove stavano combattendo l’esercito della coalizione e quello iracheno, noi dovevamo passare dritto. Una volta capitò ad esempio che insieme a dei contractors iracheni si stava percorrendo un itinerario. Ad un tratto è esploso un IED che ha colpito il mezzo iracheno. Noi dovevamo proseguire, però io e un collega italiano abbiamo fermato un auto e siamo tornati indietro a recuperare gli iracheni. Il mezzo era saltato in aria ma per fortuna loro erano scappati in tempo, malamente feriti ma vivi. Abbiamo compiuto un gesto contrario al nostro protocollo.

Che ne pensa dell’Intelligence Italiana?

Ho una cattiva opinione sull’Intelligence in Italia. Ho degli amici, pochi che sono veramente di livello però non vengono valorizzati. Ad esempio un amico è stato infiltrato per più di 20 anni in Colombia presso una famiglia malavitosa per scoprire dei traffici di droga. Rientrato in Italia ora fa l’autista ad un ministro. Roba dell’altro mondo! In America c’è una vera e propria scuola di formazione per agenti segreti, per non parlare del Mossad o dell’Intelligence cinese adesso davvero all’avanguardia. In Italia mancano i giusti assetti. Spesso sono i poliziotti a svolgere questo ruolo che in realtà dovrebbe essere affidato a delle eccellenze scelte provenienti da scuole di formazione di livello che però in Italia mancano. Molti colleghi mi dicono che gli italiani potrebbero essere i migliori agenti segreti del Mondo per via della nostra cultura e tradizione che ci permette facilmente di dialogare e di infiltrarci, invece risultiamo i peggiori.

Si è parlato e si parla molto di regole di ingaggio soprattutto in Afghanistan? Che ne pensa di quelle italiane?

Io penso che siamo un Paese di ipocriti. Meglio le regole di ingaggio americane. Noi in Afghanistan stiamo a fare i bersagli. Gli italiani cercano sempre di contrattare e di mediare, tanto che molti ci prendono in giro per questo ruolo. L’Italia non ha assetti, è difficile vedere un’operazione in teatro di guerra comandata da un italiano. Siamo il Paese con il maggior numero di generali al Mondo ma che occupano solo poltrone e non fanno la guerra anche perché molti di loro non sanno comandare un plotone!

Spesso in guerra si ricorre ad armi convenzionali per farne armi non convenzionali. E’ il caso del nebbiogeno che in Iraq è stato trasformato in qualcosa di maggiormente crudele ed efficace il cosiddetto “Shake and Bake” cioè agitare e cuocere al forno. Infatti è stata alterata la spoletta cosicché la granata al fosforo bianco una volta agitata e gettata nei rifugi sotterranei degli iracheni, scoppiava e cuoceva al forno le persone rimaste dentro intrappolate. Che ne pensa di tutto ciò?

Penso che spesso le armi convenzionali possono trasformarsi in qualcosa di micidiale di poco pulito però di fronte al nemico c’è una certa inventiva soprattutto quando si rischia la propria pelle.

 

di Roberto Colella

 

 

 

Rivoluzione musulmana: era già tutta scritta

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Guardando a quello che sta succedendo ai paesi bagnati dal mare nostrum, e non solo, viene in mente quanto ancora ha da imparare la scienza sociale e quella politica rispetto ai fenomeni umani. Altrettanto ha da fare la scienza economica che, in via del tutto inaspettata, vede l’esplosione di crisi economiche mondiali. Nell’analizzare certi fenomeni, vengono in mente, ragioni e tentativi di spiegazione della realtà, legati ad antiche nozioni di autori quali economisti, sociologi, filosofi che hanno tracciato, con il loro pensiero, i principi generali per la lettura della società e dei fenomeni umani. Uno di questi concetti, che appare drammaticamente attuale e che è stato approfondito con riferimento alle tematiche sociali ed economiche dall’economista piemontese, scomparso nel 1998, Giovanni Demaria, è quello di ENTELECHIA. Rimarchiamo che, per quanto esista una tendenza ad imbrigliare tutta la materia economica in formule matematiche, l’economia studia i comportamenti umani e, pertanto, resta una scienza sociale. Principio filosofico di aristotelica memoria l’entelechia di Demaria viene sviluppata in un clima culturale (anni trenta) in cui si accentuano le tematiche  epistemologiche anti-meccanicistiche.  Si cerca, in quegli anni, di superare la linearità degli schemi interpretativi della realtà criticando il gradualismo evoluzionistico. Il concetto risulta applicabile alle scienze naturali come a quelle umane e sociali. Alla visione di Demaria di quegli anni contribuisce anche l’idea shumpeteriana dell’evoluzione  dell’economia, e quindi della società, per salti e non secondo una logica progressiva. Si privilegia così l’innovazione radicale, imprevedibile, ricollegabile, per quello che riguarda le scienze sociali, al carattere creativo della mente umana, alla funzione dell’intelligenza, all’iniziativa di uomini dotati di qualità eccezionali. Al pensiero di Demaria concorre anche la visione discontinuistica del reale, diretta espressione della teoria quantistica di Max Planck, l’idea del principio di indeterminazione di Heisemberg  e la visione vitalistica del biologo-filosofo  Hans Driesh che  si richiama esplicitamente al concetto di entelechia. Da quest’ultimo l’entelechia viene definita -spiegazione ripresa dall’economista italiano- come una “energia continuativa e perenne…. Che sospende le energie e le tiene in serbo fino al momento in cui le lascia libere”. Nell’entelechie entrano tutti i fatti storico politici di grande portata: eventi catastrofici (carestie, guerre terremoti) e soprattutto eventi legati alla volontà. Il concetto di entelechia non è dissimile da quello dell’immanenza gramsciana che, intesa in contrapposizione a situazioni di normalità, passività, automatismo,  è un momento in cui le volontà si mettono all’unisono  attivamente e spiritualmente come è successo in Russia con la rivoluzione d’ottobre dietro la spinta della carestia, della guerra, della fame: “immanenze“ per Gramsci , “fatti entelechiani” per Demaria. Quello appena enunciato sembra un ottimo schema interpretativo dei fatti riguardanti i paesi musulmani, solo che sembra non sia stato preso in considerazione da nessuno negli ultimi anni. Da qui la sorpresa per un mondo che inaspettatamente si risveglia e reclama la propria libertà e il proprio benessere. Nel caso specifico le forze tenute a bada dall’energia entelechiana, sono rappresentate dalle stesse energie culturali e sociali che sono state messe in moto da anni in quei paesi. Nei paesi oggi teatro di scontri e guerre civili, la presenza della televisione, di internet, di costumi occidentali  crea forti contrasti con i regimi fondamentalmente chiusi o meglio aperti solo rispetto ai flussi  di petrolio o di gas in cambio di dollari. Appare sufficientemente e storicamente dimostrato che, quando una società di stampo tradizionale si apre alle forze di mercato che rendono sempre più evanescenti vincoli tribali, familiari, religiosi, qualcosa in quelle società cambia. Ce lo insegna la storia economica e lo studio delle istituzioni. Forze dirompenti come internet ed i social network, la televisione che anche nei paesi arabi veicola oltre a stili di musica occidentali, la pornografia, o anche l’importanza dei flussi turistici, hanno un effetto fatale sulle dittature pluridecennali e sui regimi. La gente vuole essere sempre più libera perché i modelli di riferimento non sono più quelli tradizionali, e lo vuole a maggior ragione, se si tratta di giovani che hanno studiato e che hanno aperto i loro orizzonti di vita. Se  a tutto ciò si aggiunge la speculazione internazionale sulle commodities alimentari, occorre solo una scintilla per far esplodere questa miscela esplosiva. Insomma le forze che sono alla base di queste rivoluzioni  hanno già agito profondamente nell’io collettivo di quelle popolazioni. Sono quelle le forze che l’entelechia ha tenuto a bada fino a questi giorni. Non era difficile però da parte degli studiosi prevedere, in questa ottica, questi stravolgimenti epocali. Nel momento in cui cambia il clima culturale, morale ovvero  cambiano le sovrastrutture ideali di stampo marxiano  non è difficile immaginare che fatti entelechiani  si possano verificare. Non è difficile prevedere che un giovane a contatto con il mondo che guarda da lontano ai più opulenti stili di vita degli occidentali, si ribelli alla chiusura e alla penuria di benessere della propria società. Per dirla tutta e fare un esempio, sarà difficile, anche con il pugno di ferro, tenere a bada la gioventù iraniana che è già abituata (in parte) alle vacanze in montagna. Una società, quella degli ayatollah, in cui le donne chiaramente discriminate (almeno secondo noi occidentali) costituiscono la maggior parte dei laureati del paese. E’ ovvio che in una società che tende ad evolversi quelle stesse donne, cerchino un ruolo più consono alle proprie aspirazioni. Non è difficile prevedere, questione di tempo, che anche in Cina del tutto aperta agli eccessi del più selvaggio capitalismo vi sarà una rivoluzione. Solo una mano  inamovibile può tenere a bada queste energie di rinnovamento, una mano che non a caso, all’occorrenza censura, il massimo strumento di conoscenza al mondo e cioè internet. Un paese, la Cina, che pur di mantenere lo status quo non esita a usare le armi ed a spargere sangue contro ogni forma di dissenso. Un mare di sangue che gli occidentali fanno finta di non vedere, nel nome degli accordi commerciali e dei vincoli finanziari. Salvo poi indignarsi per il sangue sparso dall’ultimo dei colonnelli del Mediterraneo.

 

di Antonio Mascolo

 

 

 

I bambini e la guerra

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L’impatto della guerra sui bambini è terribile. Essi escono ammalati nell’anima dall’esperienza di quell’atrocità, di quella deformità del comportamento umano che è la guerra.
Vedono gli adulti braccarsi vicendevolmente, senza pietà, per dare morte e riceverla; assistono a distruzioni inutili ed ingiustificate di costruzioni (le case della loro vita, le radici abitative della loro infanzia; i quartieri, i giardini dove sono cresciuti, le strade dove hanno giocato); di coltivazioni (la terra che genera vita, che consente di alimentarsi; il bestiame ecc.); di luoghi di lavoro, di studio, di culto (nei quali hanno imparato a pregare e ad aprirsi ai misteri e alle speranze della trascendenza).
I bambini che non muoiono in guerra o che non escono dalla guerra fisicamente menomati muoiono, assai spesso, psichicamente o vengono, comunque, menomati nell’anima e nell’immaginario perchè derubati del loro presente e condannati ad una solitudine del cuore alla quale il comportamento degli adulti li costringe.
Essi, infatti, non possono più sperare nell’equilibrio, nella soluzione dei problemi attraverso il gioco o il dialogo; non possono più credere alla pace se non come un bene che sarà, forse, possibile "riconquistare" alla fine del conflitto e a costo di tante delusioni e compromessi, di tante perdite, di tante insanabili ferite. Vero è che i bambini, con la flessibilità, con la creatività, con la disponibilità a fare esperienze e ricercare che li contraddistingue, riescono ad adattarsi anche alla guerra e alle atrocità che ad essa si accompagnano. Il bambino si "organizza" anche "dentro la guerra". Imita gli adulti, diventa guerriero nei modi, nei pensieri, nelle fantasie. Piega la mente all’orrore di veder ferire, uccidere, morire.
I bambini giocano alla guerra mentre la guerra infuria. Così la esorcizzano, la mettono in scena, la rappresentano e, nel gioco che, in tempo di pace, era loro utile a misurarsi con l’altro, a sfidarlo, a sperimentare le strategie del confronto, ad educarsi ed accettare l’alternanza del vincere e del perdere, essi riescono a far entrare l’orrore della guerra "vera", della distruzione che li circonda e che può colpirli e colpire le loro famiglie da un momento all’altro. Durante la guerra, poi, i bambini scoprono anche la capacità -necessità di salvarsi da soli.

 

 

di Maria Rita Parsi (rappresentante dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza)

 

 

 

Libia: Costi quel che Costi

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Mentre gran parte della comunità internazionale denuncia a gran voce le consistenti violazioni del Colonnello Gheddafi che hanno provocato migliaia di vittime tra ribelli e civili, buona parte dell’intellighenzia si appresta a definire gli scenari per un possibile intervento delle forze occidentali in Libia.

Questo, allo stato delle cose attuali, non solo sarebbe sbagliato, ma comporterebbe anche delle ripercussioni a livello economico, politico e militare per i paesi coinvolti –Libia in primis- non poco rilevanti. E’ per questo motivo, dunque, che il supporto occidentale in Nord Africa dovrebbe essere incessante e perentorio, pur limitandosi però ad un piano prettamente umanitario.

Vi sono una serie di fattori che rendono sconsigliabile un intervento militare in Libia. Anzitutto, l’idea che una forza esterna, qualsiasi essa sia, possa essere in grado di porre rimedio alle problematiche ben radicate nella società libica è fondamentalmente sbagliata. Un ipotetico intervento non risolverebbe granché; rimanderebbe al futuro, se mai, la necessaria risoluzione delle incertezze di un paese stanco e provato dalle follie di un regime dittatoriale. Alle quali solo la popolazione libica può e deve trovar risposta.

Non sono gli occidentali a dover deporre il Colonnello ma i libici stessi. Con il fronte afgano ancora più che mai aperto, inoltre, il Mondo non può permettersi ulteriori fallimenti – senza considerare le conseguenze a catena che ne deriverebbero in ogni settore dell’economia. L’America non può sostenere un altro piccolo Iraq, l’Occidente nemmeno.

Il quadro geografico e politico della Libia è piuttosto complesso. La spettacolare onda rivoluzionaria che la ha attraversata di recente, alla ricerca di pace e libertà, ha diviso il Paese, ma quanto avviene in questi giorni, è talvolta ingigantito in maniera impropria dai media. La situazione è assai diversa dai precedenti casi di Tunisia ed Egitto.

Buona parte dei ribelli libici è in attesa di un intervento da parte dell’Occidente, o direttamente di una risoluzione da parte delle Nazioni Unite, per mettere fine alla lunga dittatura di Gheddafi, ma tra questi non sono pochi quelli che nutrono più di qualche dubbio circa la paventata ipotesi d’azione da parte delle forze occidentali. Proprio questi ultimi sembrano aver compreso il problema di fondo.

Una intromissione straniera nelle dinamiche interne di un paese culturalmente incardinato su una forte tradizione religiosa, nazionalista e tribale, equivarrebbe ad accrescere considerevolmente il disordine e le possibili ripercussioni militari da parte di altri paesi non solo limitrofi. Di qui l’esigenza ed il compromesso, forse più realistico ma certamente non più facile da attuare, di una “no-fly zone”.

Che smorzerebbe drasticamente l’assedio aereo da parte del Colonnello nei confronti della popolazione. Ma l’adozione della suddetta misura implicherebbe ugualmente dei rischi non da poco e, sopra ogni cosa, l’incertezza della sua funzionalità. Non è detto infatti che la “no-fly zone”, qualora dovesse essere implementata, riesca a far cessare il bagno di sangue che il Colonnello perpetua ormai da giorni dall’alto dei cieli libici; né che tutti i membri del Consiglio di Sicurezza ONU siano d’accordo nell’approvarla.

Russia e Cina, contrariamente a quanto dichiarato da Lega araba e dall’Organizzazione della Conferenza islamica, hanno già espresso il loro dissenso. E’ dunque l’Italia (e non solo lei) realmente pronta all’attuazione di una presunta “no-fly zone”, che comporterebbe, tra le altre cose, l’uso delle basi navali americani in Sicilia? Difficile dirlo, ma è certo che la condizione attuale del Belpaese verrebbe messa ulteriormente a dura prova.

Ma non solo. Nelle diverse aree occupate dai ribelli, che oggi chiedono di essere riconosciuti come unica entità libica, l’idea di un nuovo e stabile governo rimane ancora un lontano miraggio, specialmente dopo che Mustafa Abdel Jalil, l’ex ministro della giustizia passato al fianco dei rivoltosi, si è dichiarato provvisoriamente leader del Consiglio Nazionale Libico, alimentando incertezza e perplessità.

Bengasi, centro strategico nodale per la sua posizione sul Mediterraneo, rimane dunque la roccaforte in mano alle forze contro Gheddafi. Del resto, non è difficile intuire cosa abbia fatto scaturire una tale resistenza nella città che il Colonnello usava chiamare “vecchia strega”. Gheddafi è comunque convinto di poter riprendere Zawiya e Misurata, due delle città occupate vicine alla capitale, Tripoli.

La potente tribù di Warfalla, che comprende circa un milione di libici (su una popolazione totale di 7 milioni), rimane fedele ad un coacervo di clan e gruppi vicini a Gheddafi. Il che ha anche permesso alla famiglia del Colonnello di contare sull’appoggio di almeno 20,000 uomini pronti a lottare e a schierarsi contro i ribelli in suo nome. Il rischio è che la rivolta si trasformi in una guerra civile e questi dati testimoniano con evidenza le difficoltà che si avrebbero qualora il Colonnello dovesse essere deposto dalle forze occidentali con un intervento militare.

Il futuro della Libia dipenderà anzitutto dai suoi stessi cittadini. L’ideale sarebbe che avvenisse l’improbabile: e cioè che Gheddafi rinunciasse al potere in nome della libertà dei 7 milioni di libici. In questo senso, quindi, è opportuno che avvengano quattro cose fondamentali.

Per prima cosa, è necessaria una forte e continua pressione internazionale, appoggiata a ragion veduta dal Mondo Arabo. L’istituzione di una “no-fly zone”, che limiti al minimo l’uso della forza e che al tempo stesso impedisca la repressione dei cittadini da parte del Colonnello, dovrebbe essere la seconda. Inoltre, un costante supporto umanitario da parte delle forze occidentali è d’obbligo. Ma solo a fronte di un consenso politico incondizionato sia dell’ONU che della Nato e di una posizione comune nell’ambito dell’Ue.

Infine, sopra ogni cosa, è cruciale che si riscontri una totale presa di posizione, di responsabilità e di fiducia da parte dell’intera popolazione libica contro Gheddafi, in modo che possa lei stessa trattare univocamente ed indistintamente la deposizione del Colonnello e l’istituzione di un nuovo governo. Solo a quel punto la Libia potrà conoscere la sua vera libertà.

Se andrà bene, il nuovo governo stabilirà liberamente ed equamente i limiti entro i quali il concetto di democrazia occidentale potrà essere applicato; se andrà male il potere sarà ripreso da quei pochi che avranno l’accesso diretto alle preziose risorse petrolifere del Paese. Ma questo lo si potrà capire solo tra qualche anno.

 

 

di Giulio Gambino

(The Post Internazionale)