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Temi globali

Italia, rischio concreto di azioni terroristiche

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E' "sempre più concreto" il rischio che alcuni soggetti "radicalizzati in casa" decidano di non partire verso Siria ed Iraq determinandosi "a compiere il jihad direttamente in territorio italiano". Lo segnala la relazione annuale dell'intelligence inviata in Parlamento, che parla di "pronunciata esposizione dell'Italia alle sfide rappresentate dal terrorismo jihadista". Alle minacce alla sicurezza "non si risponde chiudendosi ma accettando la sfida. Più sicurezza non vuol dire meno libertà", dice il premier Paolo Gentiloni, presentando con il direttore del Dis Pansa la relazione annuale sull'intelligence. "I cittadini italiani possono essere certi, non della mancanza di minacce perché sarebbe un'illusione ma della la qualità molto alta di chi lavora per contrastarle". La relazione annuale sulla politica dell'informazione per la sicurezza "racconta pur tra mille contraddizioni la capacità che c'è stata di conoscere, prevenire e contrastare sfide e minacce di vario tipo anche relativamente nuove per noi. E' motivo di soddisfazione", ha detto Gentiloni. "L'Italia deve difendersi e difendere la propria sovranità. Non è nessuna concessione a strane idee di voler riportare in Ue dinamiche conflittuali nei singoli paesi, noi crediamo nell'Europa ma difendiamo tuttavia i nostri interessi tecnologici e strategici", ha detto ancora il premier alla presentazione, a Palazzo Chigi, della Relazione annuale sulla politica dell'informazione per la sicurezza, a cura del Dis.

fonte Ansa

L'attentato di Istanbul e il nuovo scenario turco

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Nella notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio alla discoteca Reina di Istanbul, nel quartiere Besiktas situato nella zona est, è andato in scena un cruento attentato in cui hanno perso la vita 39 persone. Sin da subito la polizia è partita alla ricerca del killer che era partito da Zeytinburnu nella parte sud di Istanbul, luogo in cui si annida da diverso tempo una cellula dell’Isis e teatro nei giorni precedenti la strage di numerosi arresti. La situazione è allarmante per diversi motivi in quanto la Turchia è al confine con l’Europa e costituisce una porta d’ingresso per i terroristi diretti in Siria. Come se non bastasse si aggiunge anche l’altalenante politica estera di Erdoğan. Sebbene lo stato turco fino a poco mesi fa non conduceva una lotta serrata al Daesh e appariva abbastanza permissivo nei confronti del terrorismo, ora i nuovi accordi stipulati con Mosca e Teheran hanno cambiato radicalmente la politica estera. Inoltre il colpo di stato dello scorso luglio ha trasformato definitivamente la regione anatolica in una sorta di regime islamico sempre più lontano dall’Unione Europea. Non si percepisce la portata dei futuri cambiamenti, non sappiamo se nascerà una nuova organizzazione che si opporrà alle Nazioni Unite, di sicuro la Turchia è al centro di questo scenario e imporrà con fermezza la sua linea, considerando che è dotata di uno tra i più potenti eserciti al mondo. Non dobbiamo fermarci all’attentato in sé, oppure a ipotizzare ciò che accadrà, ma per il momento abbiamo soltanto questi dati su cui riflettere e le prime impressioni appaiono negative. In questo gioco tra le parti non è tanto la minaccia terroristica a tenere banco, perché esso è possibile ostacolarlo al momento opportuno con una solida strategia (almeno questo pensa chi scrive), ma ciò che spaventa davvero sono le scelte politiche dei singoli stati. Nel caso di Istanbul, che è soltanto l’ultimo di una serie abbastanza ravvicinata di attentati, la vendita di armi da parte del regime di Erdoğan agli jihadisti ha comportato un notevole spargimento di sangue. Questo l’abbiamo capito soltanto alcuni mesi dopo, quando ormai era troppo tardi per rimediare, e ora gli attacchi dell’aviazione turca in Siria contro l’Isis risultano inefficaci. Il terrorismo 2.0 ha cambiato le modalità, miete vittime nei luoghi di aggregazione come bar, ristoranti, discoteche e teatri (si pensi al Bataclan). La strategia dei lupi solitari, cioè di singoli che compiono attacchi, almeno per ora sembra inarrestabile. Così nello stato di terrore aumenta l’insicurezza, le decisioni intraprese risolvono nell’immediato e appaiono come una toppa che chiude provvisoriamente un buco. È necessario trovare soluzioni durature, ma questa è proprio la difficoltà del momento, perché sono presenti una moltitudine di interessi economici e politici che non facilitano il compito degli organismi sovranazionali.

di Daniele Altina

L'Isis in crisi di bilancio

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Secondo uno studio di IHS Jane’s emerge che nel marzo 2016 le entrate mensili dello Stato islamico sono scese a 56 milioni di dollari. A metà 2015, l’insieme dei ricavi su base mensile era in media di 80 milioni di dollari. Il rapporto aggiunge inoltre che la produzione di petrolio nelle zone sotto il controllo jihadista è anch’essa diminuita, passando da 33mila a 22mila barili al giorno. Almeno la metà dei soldi che confluiscono nelle casse di Daesh provengono dalle tasse e dalla confisca di imprese e beni. Il petrolio costituisce il 43%, mentre la parte restante è frutto del traffico di droga, vendita di energia elettrica, cui si aggiungono donazioni. Per sopperire alle perdite, i leader del movimento ultra-fondamentalista islamico sunnita hanno aumentato i balzelli nei servizi di base: fra questi vi sono le tasse agli autisti di camion, imposte per chi vuole installare o riparare antenne paraboliche e “dazi sull’uscita” per chi vuole lasciare una città o un villaggio nelle mani dell’Isis. Secondo invece il Centre on Religion and Geopolitics la dissoluzione dell’autoproclamato califfato non “porrà fine al jihadismo globale perché per realizzare questo obiettivo bisogna sconfiggere la sua ideologia teologicamente e intellettualmente”. Il rapporto sottolinea come il pericolo più grande per la comunità internazionale non sia rappresentato tanto dagli uomini del “califfo”, ma dai gruppi che condividono la sua stessa visione e che vengono ancora del tutto ignorati. L’Occidente, sostiene l’istituto, si sforza di dividere i gruppi ribelli siriani in “moderati” ed “estremisti”, ma queste distinzioni sono inappropriate perché le stesse formazioni combattenti non sanno farne una distinzione.

Uccisa la mente della strage di Charlie Hebdo

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Un leader del presunto Stato Islamico ritenuto la mente dell'attacco al giornale satirico francese Charlie Hebdo (a Parigi nel gennaio 2015) è stato ucciso in un raid aereo americano in Siria. Lo hanno reso noto stasera fonti militari Usa, precisando che Boubaker el Hakim è morto a Raqqa lo scorso 26 novembre. Franco-tunisino, 33 anni, el Hakim è stato il mentore dei fratelli Said e Sherif Kouachi che fecero strage di giornalisti e disegnatori di Charlie Hebdo

fonte Ansa

L'Italia tra i primi dieci esportatori di armi al Mondo

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In Africa 18 miliardi di dollari all'anno vengono spesi per uccidere migliaia e migliaia di persone, sofferenti per la povertà. Su 500 milioni di Salw (armi piccole e leggere) circolanti nel mondo, ben 100 milioni si trovano clandestinamente nel continente nero. Questo emerge dallo studio, aggiornato dell'Archivio Disarmo. Il report di Maurizio Simoncelli è stato esposto nell'ambito del convegno “Africa, Continente in cammino”, a Roma, presso il Seraficum, Università Pontificia di Roma. “Le spese militari dell'Africa sono andate crescendo costantemente dal 1990 a oggi”. Così Simoncelli, vicepresidente dell'Archivio Disarmo, apre il suo studio sul commercio di armi in Africa. Gli embarghi delle Nazioni Unite, che cercano di bloccare le vendite regolari di armamenti tra stato e stato, vengono aggirati da traffici clandestini. Queste armi provengano dagli arsenali di conflitti conclusi, da quelli di guerre in atto in aree vicine, da forze di sicurezza che le vendono o le noleggiano, da governi simpatizzanti, da importazioni esterne all'Africa stessa. Come ricordato, in Africa i costi connessi ai conflitti armati ammontino a circa 18 miliardi di dollari all'anno, annullando completamente gli effetti positivi degli aiuti allo sviluppo. Armi e munizioni vengono vendute anche attraverso i mezzi di comunicazione come Facebook, il che ha permesso di rilevare la presenza in Libia di munizioni provenienti dalla turca Özkursan, dalla belga FN Herstal, dalla portoghese Fábrica Nacional de Munições de Armas Ligeiras FNMAL, dalla russa Barnaul Cartridge Plant CISC, dalla SNIA italiana, dalla cinese Industria di Stato 31 e così via. Il violento gruppo jihadista nigeriano Boko Haram, che ha dichiarato incondizionata adesione all'Isis, per esempio, si è rifornito non solo al mercato nero nell'Africa centrale, occidentale e settentrionale, ma anche direttamente dai depositi delle forze armate e di sicurezza della Nigeria, che a sua volta le aveva acquistate da Italia, Francia, Cina, Russia, Ucraina, Repubblica Ceca, Israele, Sudafrica e Emirati Arabi Uniti. Secondo il rapporto “Armi leggere, guerre pesanti”, nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Quindi con l'aumentare della crisi economica in Italia sono aumentate anche le esportazioni di armi del nostro paese. Proprio nel momento in cui si parla di un intervento in Libia di cui l'Italia dovrebbe assumere il comando, vengono esportate in tale paese proprio le armi. Oltre alla Libia, anche nel resto del Maghreb sono andati molto bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole. L'incremento maggiore è nell'area nordafricana, dove si è passati dai 3,8 ai 18, mentre nell'Africa subsahariana la crescita è dai 14,1 ai 24,7. Pistole, fucili e proiettili prodotti in Val Trompia, verso inviate in territori martoriati dell'Africa da cui fuggono i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Per cui si può ipotizzare che contribuiscano all'aumento del numero dei rifugiati nel nostro paese. L'Italia, tra i primi 10 esportatori di armi al mondo, grazie alla centralità nel Mediterraneo da un lato e all'elevata qualità e affidabilità dei prodotti nostrani, è stata in grado di sviluppare un florido commercio di armi con i paesi del Nord Africa i quali, poi, hanno fatto circolare le nostre armi per l'intero continente, facendo sì che oggi ne esportiamo anche in Sud Africa. Il 6% delle maggiori armi convenzionali esportate in Africa sono italiane e solo Ucraina, Russia, Cina e Francia ne hanno esportate di più. Per quanto riguarda le Salw e relative munizioni, tra i paesi dell'Ecowas che l'Italia ha rifornito ci sono Ghana, Mali, Nigeria e il Senegal,per un valore di poco inferiore ai 2 milioni di dollari. Considerato ciò, è lecito pensare che molte armi made in Italy siano finite in mano a ribelli, terroristi o semplici civili dei paesi confinanti, così come è già accaduto per le armi russe e statunitensi. Clamorosa la classifica mediorientale. Dopo Emirati Arabi Uniti e Israele, Paesi saldamente al comando nella classifica dei compratori regionali di armi bresciane, crescono Kuwait (+286%, per 4 milioni di euro di spesa) e soprattutto il Libano, con 2,1 milioni di euro di acquisti (+72,1% rispetto al 2012) nonostante sia sottoposto a misure di embargo per le armi. I cali più importanti, segnalati da Opal, riguardano Messico e India, quest’ultima a seguito delle recenti restrizioni. Altro Paese che si conferma grande acquirente delle armi bresciane e’ la Turchia con 24 milioni di euro tra armi e munizioni nel 2013. Un dato in diminuzione rispetto ai 36,5 milioni del 2012. Ma il maggior importatore di armi leggere italiane sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono molto apprezzate, soprattutto dopo che nel 1985 l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati la pistola Beretta M9, rimasta in dotazione in tale esercito fino alla fine dell’anno passato, ed ancora molto usata. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Per contro la grande diffusione di esse è da ritenersi causa di numerosi incidenti, conflitti a fuoco e delitti.

di Antonio Frate