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Temi globali

Il fronte parallelo digitale

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La legge sulle “fake news” decisa dal governo russo prevede 15 anni di carcere e una multa da un milione e mezzo di rubli. Ciò ha provocato il ritiro degli inviati da parte delle testate straniere e ha limitato (e fermato) il lavoro delle poche testate giornalistiche indipendenti. Restano quindi solo i media affiliati a Putin: Il National Media Group, che muove i fili della macchina della menzogna in Russia, è guidato da quella che sembrerebbe l’amante di Putin, Alina Kabaeva. I giovani, però, hanno uno strumento prezioso: la rete. Non è un caso che Aleksej Naval'nyj, il principale oppositore interno di Putin, ha costruito la sua figura in rete, in particolare su YouTube. Naval'nyj è la dimostrazione che un’altra comunicazione, anche in Russia, è possibile. Sono tanti i ragazzi russi che stanno provando a dissuadere i genitori dalle convinzioni generate dalla propaganda del Cremlino. Nell’opinione pubblica russa è nato uno scontro generazionale tra genitori e figli dovuto proprio al diverso modo di reperire le notizie su quello che sta accadendo in Ucraina. Mentre le emittenti controllate dal Cremlino fanno da cassa di risonanza alle fake news del governo, molti giovani usano i social network e VPN per cercare fonti di informazione alternative ed affidabili. Le VPN sono servizi di reti private virtuali, grazie alla quali è possibile geolocalizzarsi in un altro stato per riuscire ad aggirare le restrizioni. Il sito top10vpn.com, che registra i flussi di accesso e di download delle VPN nei singoli paesi, afferma che la domanda per le reti privati virtuali in Russia nel periodo che va dal 24 febbraio al 10 marzo 2022 è aumentata del 1.092%. Il picco è stato registrato quando le autorità russe hanno bloccato l’accesso a Facebook e Twitter il 4 marzo scorso. Internet sembra essere l’unico modo per contrastare il potere dei media controllato dai governi. Le tv sono di parte, così come le radio ed i giornali. Internet, invece, è un insieme di reti troppo grande per essere controllato, che supera i confini nazionali, seppur i social network siano il frutto delle scelte di aziende private che dettano le loro regole. 
Elon Musk ha messo a disposizione i suoi satelliti (SpaceX) per permettere la connessione all’Ucraina. Anche il collettivo di hacker Anonymous è sceso in prima linea dichiarando guerra (cibernetica) alla Russia. Esiste, quindi, uno scontro su un fronte parallelo digitale, in cui Anonymous ha lanciato “Operation Russia”, una campagna contro il governo Mosca finché la Russia non deciderà di ritirarsi dall’invasione. Una delle mosse del collettivo di hacker è stata quella di interrompere, per una decina di minuti, la programmazione regolare di diversi canali televisivi russi, mostrando immagini della guerra in Ucraina e messaggi nei quali veniva spiegato che il governo russo stava mentendo ai propri cittadini sulle ragioni del conflitto. Una guerra che si sta combattendo nel cyberspazio, tra attacchi informatici, propaganda e strategia della paura. Anonymous ha violato oltre 2500 siti Web di governi russi e bielorussi, organi di stampa statali, banche, ospedali, aeroporti, impianti nucleari, aziende e "gruppi di hacker" filorussi. La rete è la vera protagonista di questa guerra. Essa rappresenta un nuovo modo di combatterla e di documentarla. Un modo per evadere dalla comunicazione di regime, per chiedere aiuto, per cercare la verità. 
 
di Daniele Leonardi
 

Libertà di stampa, fino a che punto?

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Il 3 maggio, in occasione della giornata mondiale della libertà di stampa, il World Press Freedom Index ha pubblicato i dati relativi all’analisi realizzata dal Reporter Sans Frontieres, il quale ha studiato la libertà di stampa a livello globale e l’ha classificata rispetto a cinque diversi parametri: contesto politico, legale, economico, socioculturale e di sicurezza. Il nostro Paese ha perso, in un solo anno, 17 posizioni, scendendo dalla quarantunesima alla cinquantottesima posizione. Il nord Europa apre la classifica con Norvegia, Danimarca e Svezia. L’Italia, superata anche da Gambia e Suriname, si inserisce tra la Macedonia del Nord e il Niger. Un cambio di rotta che inverte una tendenza positiva iniziata nel 2016, che vedeva l’Italia risalire dalla settantasettesima posizione fino alla quarantunesima. Si legge nel report che la motivazione di questo crollo è legata all’autocensura: “i giornalisti (italiani, ndr) a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”. Sarebbero infatti 44 le intimidazioni ai giornalisti italiani nei primi tre mesi del 2022. I giornalisti in Italia incontrano tanti limiti nell’esercizio del loro lavoro e poca tutela legislativa. Inoltre, pesano le problematiche economiche che costringono i giornali ad avere una dipendenza dagli introiti pubblicitari. E poi c’è la pandemia, che ha reso più complesso per i media nazionali l’accesso ai dati. Ma dove finisce la libertà di stampa e inizia la censura? L’Unione Europea ha acceso i riflettori sulla tendenza italiana a dare grande spazio ai giornalisti russi nei talk show. “Le emittenti in Italia e negli altri Stati membri non devono permettere l’incitamento alla violenza, l’odio e la propaganda russa nei loro programmi, come previsto dalla direttiva UE”, ha avvertito il portavoce della Commissione per il Digitale, Johannes Bahrke. Quanto puntualizzato dalla Commissione Europea arriva sull’onda lunga delle polemiche per l’invito del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al programma Zona Bianca su Rete 4, in cui si è verificato un intervento senza contraddittorio, con annesso “buon lavoro” pronunciato in chiusa finale dal conduttore a favore del ministro russo. Anche il premier Draghi ha speso un breve intervento in conferenza stampa per sottolineare come quello andato in onda su Mediaset sia stato uno spettacolo poco gradevole, ma che in Italia è possibile perché vi è la libertà di espressione a differenza della Russia. Infatti, da quando Putin è salito al potere (1999) sarebbero 31 i giornalisti uccisi in Russia, secondo i dati documentati dal Comitato per la protezione dei giornalisti. Un capitolo iniziato con l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya (alla cui memoria è oggi intitolata la sala stampa del Parlamento Europeo in Bruxelles). Politkovskaya aveva accusava Putin di aver fatto della Russia uno stato di polizia. L’ultima vittima avrebbe potuto essere Aleksej Naval'nyj, il principale oppositore politico di Putin in Russia, se non fosse stato salvato dai medici del Charité Hospital di Berlino. Naval'nyj perde conoscenza e cade sulla moquette del corridoio di un aereo low-cost nel cielo della Siberia. La televisione di stato russa ha dato una visione diversa, parlando di intossicazione. Oggi l’attivista e blogger russo, accusato e condannato per appropriazione indebita e di oltraggio alla Corte, sconta la sua pena in un carcere di massima sicurezza, dopo un processo farsa. 
Inutile dire che la Russia occupi una delle ultime posizioni, è al 155º posto, su 180. Il quadro completo emerso dall’analisi annuale è critico: nel mondo si registra un aumento del 20% degli arresti di giornalisti rispetto allo scorso anno. Solo nel 2021 sono stati imprigionati in tutto il mondo 488 giornalisti e operatori dell’informazione mentre svolgevano il loro lavoro. Le situazioni più gravi si riscontrano in Bielorussia, Myanmar e Cina. 
 
di Daniele Leonardi
 

Nessuno vuole la pace

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Da Roma Papa Francesco è tornato a invocare la pace: due donne, Irina e Albina, una russa e una ucraina, hanno portato insieme la Croce nel giorno del Venerdì Santo. La scelta, però, è stata ampiamente criticata sia da parte dell'ambasciata ucraina nella Santa Sede, sia dalla Chiesa cattolica di Kiev. Per protesta, i media cattolici ucraini non hanno trasmesso la Via Crucis del Pontefice al Colosseo. La stessa scelta è stata fatta dai canali televisivi nazionali. Sul sito della Risu, l’agenzia ucraina di informazione religiosa, si legge: “Gli ucraini ritengono che gesti di riconciliazione siano possibili solo dopo la fine della guerra e il pentimento dei russi". 
Dunque, se anche la Chiesa di Kiev ha in mano l’ascia di guerra, chi lotta per la pace? 
La parola ‘negoziato’ non è mai stata pronunciata né dal presidente degli Usa Biden, né dal segretario della Nato Stoltenberg, né dal segretario di Stato americano Blinken, tantomeno dal primo ministro britannico Johnson. L’Europa ha deciso di sostenere l’Ucraina, aiutare un Paese aggredito sul suolo europeo, affinché esso potesse essere in grado di negoziare un compromesso, per arrivare ad un cessate il fuoco. O almeno questo era l’idea iniziale che si aveva in Occidente. Tuttavia, sulla bocca di tutti i leader occidentali continuiamo a sentire solo la parola guerra; non abbiamo ancora udito qualcuno che abbia pronunciato la parola pace.
L'abbraccio simbolico dell'Unione europea all'Ucraina è arrivato con la visita della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e l'Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, a Kiev per incontrare il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Una missione che è servita anche per avviare il negoziato di adesione all'Ue dell’Ucraina. Anche in questa occasione, Ursula von der Leyen non ha parlato di possibile soluzione, di evitare altri spargimenti di sangue, ma solo di sostegno con armi e sanzioni. Citando le parole del Corriere della Sera, “Biden non ha intenzione di affondare il colpo contro Putin ma si prepara, invece, a uno scontro sul lungo periodo”. La sensazione è che gli Usa non vogliano che la guerra finisca nel breve periodo. Il giornalista e Premio Pulitzer Glenn Greenwald, ha parlato degli Stati Uniti in questi termini: “Stanno conducendo una guerra per procura contro la Russia, usando gli ucraini come loro strumento”. Gli Usa vogliono che l’Ucraina sia il Vietnam di Putin. L’obiettivo di Washington, attualmente, non è quello di portare le due parti al tavolo dei negoziati, ma trasformare l’Ucraina in un pantano per la Russia, letale per la sua economia. Ecco, quindi, il motivo della scelta politica occidentale di continuare ad inviare armi a Kiev, in quanto ciò non contribuirà al successo militare dell’esercito ucraino nell’immediato, ma prolungherà una guerra che indebolirà la Russia nel lungo periodo. Entrambe le parti vogliono proseguire il conflitto fino alla vittoria.  La pace invocata (solo) dall’opinione pubblica occidentale ha bisogno di una riflessione che metta al centro le vittime per essere ascoltata. Ma chi sceglie la guerra come risoluzione dei non ne vuole una fine, ma solo arrivare ad uno scontro che produca un vinto e un vincitore.
 
di Daniele Leonardi
 
 

L'indifferenza è il peso morto della storia

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L’Anniversario della Liberazione d'Italia avvenuto pochi giorni fa ci offre lo spunto per ricordare le parole di un partigiano, Antonio Gramsci, il quale diceva che vivere è prendere posizione. Nello specifico, nel testo “11 febbraio 1917” egli scrive che il male non lo fanno solo i pochi che lo vogliono ma anche coloro che consentono, con il silenzio omertoso, che esso vada avanti. Egli diceva che “l’indifferenza opera potentemente nella storia”. Parlava di indifferenza ma anche di ipocrisia, quella che spesso circonda l’uso e la vendita delle armi. In questi due mesi di guerra in Ucraina abbiamo sentito dalla diplomazia occidentale parlare solo di armi. Le stesse, alla cui fabbricazione, lo Stato italiano non ha rinunciato, nemmeno durante il lockdown. Gli stabilimenti, infatti, sono rimasti aperti in quanto ritenuti attività di prima necessità. Come se non bastasse, l’Italia si è impegnata a portare le spese militari al 2 per cento del PIL (ora siamo all’1,41 per cento), dapprima entro il 2024 e poi in una più graduale crescita entro il 2028. In realtà, i paesi della NATO cominciarono a parlare della necessità di destinare il 2 per cento del PIL di ciascun paese alle spese militari già nel lontano 2006, al vertice NATO di Riga, in Lettonia. In questo modo, in Italia, le spese annuali dovrebbero passare dagli attuali 25 miliardi di euro a 38 milioni. Tuttavia, non vi è ancora un piano sulla ridistribuzione di queste nuove risorse. La speranza è che un aumento delle spese per la difesa non rappresenti una nuova corsa agli armamenti. Le armi uccidono e distruggono, per la semplice ragione che nascono per questo. Sapere che l’Italia vende gli strumenti necessari affinché ci possa essere una guerra fa male al nostro senso di colpa. Tutto quello che non vogliamo vedere va nascosto. E così, mentre lo Stato vende armi di distruzione, noi siamo persi nelle armi mediatiche di distrazione, perché l’opinione pubblica deve sopire, non essere partecipe. E allora tornano in mente le parole di Antonio Gramsci: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa”. Ragione per cui va bene anche il segreto di Stato sulle armi che inviamo all’Ucraina. Il governo italiano ha deciso di schierarsi con l’Ucraina, ma questa non è l’unica guerra in cui abbiamo preso posizione. Decidendo a chi vendere le armi, decidiamo da che parte del conflitto stare. Il principale acquirente degli armamenti italiani è l’Egitto. Non dobbiamo dimenticare però anche Qatar, Turchia e Kuwait, solo per citarne alcuni. Negli anni scorsi, l’Italia ha venduto armi e sistemi militari alla colazione saudita nella guerra contro lo Yemen, salvo poi, tornare indietro sui suoi passi per l’indignazione dell’opinione pubblica e dell’organizzazione per i diritti umani. Se ciò non fosse avvenuto, altri bambini e civili yemeniti sarebbero morti sotto le bombe che portavano il codice A4447, riconducibili alla fabbrica di armi in Sardegna. E quindi, si, “l’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera”. 
La produzione di armi è un business. E l’Italia ama questo tipo di business. 
La legge n. 185 del 1990 stabilisce infatti che le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia” e che “le operazioni devono essere regolamentate dallo Stato secondo i princìpi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. 
La produzione militare italiana, secondo quanto specificato pocanzi, dovrebbe essere indirizzata alla sola difesa e sicurezza del nostro Paese. Eppure, l’Italia è presente nelle aree di maggior tensione del mondo. Quella del business degli armamenti non può più essere un tema marginale. Non in una democrazia. Un’opinione pubblica che ripudia la guerra, deve farlo in ogni suo aspetto, perché l’indifferenza permette e alimenta le ingiustizie. Perché la storia va avanti per il male voluto da pochi e il silenzio omertoso dei tanti. 
 
di Daniele Leonardi
 

Dietro Guernica c’è Mariupol

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La terra trema, la gente scappa. Il terremoto a Mariupol si è abbattuto dall’alto. 
Quel bombardamento civile di cui raccontava Picasso in Guernica ha trovato nuova vita in Ucraina. A Mariupol c’è la storia che si ripete. 
Sulla capitale religiosa e storica dei paesi baschi si abbatterono aerei tedeschi e italiani nell’aprile 1937. Anche italiani, perché nessun popolo è sottratto da responsabilità, tantomeno noi. Perché l’indignazione che proviamo verso le morti innocenti ucraine deve essere la stessa dei bambini colpiti dai bombardamenti in Siria o in Yemen, perché non esistono vittime di serie A o di serie B. Perché le guerre sono tutte uguali: Guernica è Mariupol, ma anche Vietnam, Afghanistan, Yemen, Palestina, Bosnia, Siria, Cecenia. 
Vittorio Arrigoni, attivista filopalestinese, oltreché giornalista e scrittore italiano, diceva che “il silenzio del «mondo civile» è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte”. Egli parlava di silenzio, lo stesso che ha dipinto Picasso, perché nel silenzio c’è l’ipocrisia. Quell’ipocrisia che ha visto, negli stessi minuti, gli aerei russi bombardare l’ospedale pediatrico di Mariupol e Putin discutere di diritti dell’infanzia dei bambini delle Repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Questa triste verità, che conosceva bene Picasso, è da lui rappresentata nel dipinto dal cavallo centrale raffigurato con una texture che ricorda le pagine dei giornali: quella stampa di regime, che, nel negare l’accaduto, ha ucciso al pari delle bombe. Quell’ipocrisia che ha visto il riconoscimento dei bombardamenti di Guernica solo nel processo di Norimberga, in cui, tra l’altro, si è anche appurato che si trattava di un test: “Guernica fu per la Lutwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”. Queste le parole di Hermann Goering, allora generale tedesco.
Forse perché la storia è ciclica, la Russia ha fatto lo stesso a Mariupol. Perché se bombardi un ospedale è un test. Un messaggio rivolto all’occidente, visto indebolito dalla democrazia, per testare la sua capacità di sopportare l’orrore. Ma se è vero che ci si abitua a tutto, a tutto non ci si può abituare. Infatti, secondo la filosofa Susan Sontag, “la nostra capacità di sopportare il crescente grottesco delle immagini e delle parole scritte ha un prezzo oneroso. Alla lunga non è una liberazione ma una riduzione dell’io: una pseudo-familiarità con l’orribile rafforza l’alienazione e diminuisce la nostra capacità di reagire ad esso nella realtà”. Ci siamo abituati a vedere nella nostra quotidianità le immagini della guerra facendo finta di nulla, perché in fondo la guerra era fisicamente e culturalmente lontana e, quindi, «giustificabile». Ora è caduta una bomba sull’Europa, che ci ha svegliato da un sonno apparente. 
Nel Donbass e nel mondo si combatte per dei confini, ma Vittorio Arrigoni ci ha insegnato che quest’ultimi non esistono, che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, quella umana. La guerra non è scoppiata oggi, è solo più vicina.
 
Daniele Leonardi