Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Sabato, 23 Settembre 2023 15:32
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:31
-
Pubblicato Sabato, 23 Settembre 2023 15:32
-
Visite: 194
I flussi migratori sono molto variabili perché tante e diverse sono le condizioni che favoriscono la crescita di questi fenomeni. Nel 2015 ha avuto un boom l’immigrazione irregolare, ma gli sbarchi seguono flussi regolari nella maggior parte dei casi. Infatti, seppur viene propagandata una situazione radicalmente opposta, la maggior parte degli immigrati che arriva in U.E. ogni anno, entra in maniera regolare. Nel 2021 sono entrate in UE in modo irregolare 123.318 persone, a fronte di 2.260.000 persone entrate in maniera regolare. Forte è anche il dato sull’emigrazione dall’UE: 1.120.000 persone. La maggior parte dei migranti irregolari sbarcati nel 2023 sulle nostre coste proviene dalla Tunisia, nonostante sia l'Italia che l'Unione Europea abbiano firmato degli accordi con il Paese nordafricano per fermare buona parte di questi flussi.
Per comprendere la natura degli sbarchi, bisogna andare all’origine di questi flussi: la rotta più frequentata per i migranti è quella del Mediterraneo centrale, in cui le principali aree di partenza sono l'Africa settentrionale e subsahariana. I principali Paesi di imbarco di questa tratta sono la Libia e la Tunisia, i luoghi di approdo sono l'isola di Malta e l'Italia, in particolare l'isola di Lampedusa.
Per i Paesi appartenenti alla Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS), viaggiare all'interno di quest'area fino il confine libico non richiede particolari complessità. Al contrario, entrare in Algeria non è così semplice. Gli unici che non hanno bisogno di dimostrare un visto sono gli abitanti del Mali. Per questo, dalla città di Gao, in Mali, attraverso la statale 18, i migranti vengono trasportati attraverso il deserto algerino in una tratta molto pericolosa fino all'oasi meridionale di Tamanrasset, hub principale dello smercio migratorio dell’Algeria. Da qui i migranti attraversano la N55, la cosiddetta autostrada del contrabbando. Per attraversare i confini tra Niger e Libia, o tra Mali e Algeria, i migranti hanno bisogno dell'aiuto di un trasportatore: molti sfruttano i passaggi che i trafficanti organizzano con un pickup lungo le strade del Sahara. Famose sono le immagini scattate dai fotoreporter con questi convogli con almeno 30 persone, perché più persone significa più profitti. I migranti si trovano così schiacciati in una carovana della morte. il viaggio attraverso il deserto può durare fino a tre giorni. Ma non finisce qui: in Libia poi inizia un contrabbando di migranti che porta alla vendita di organi umani.
Le altre due rotte più frequentate sono: la rotta del Mediterraneo occidentale, che interessa soprattutto la Spagna ed è percorsa da migranti che provengono principalmente da Algeria e Marocco ma anche dall'Africa subsahariana, e la rotta del Mediterraneo orientale. I migranti di questa rotta arrivano dalla Siria e più in generale dal Medio Oriente, viaggiano verso Grecia, l'isola di Cipro e la Bulgaria. Ci sono poi intrecci tra i vari percorsi che danno vita ad ulteriori rotte: quella dell'Africa occidentale che si lega a quella del Mediterraneo occidentale, lungo la quale transitano persone dirette verso le Isole Canarie, e quella dell'Africa orientale, legata sia alla rotta del Mediterraneo centrale e orientale, con partenze da Corno d'Africa e Medio Oriente. Senza dimenticare poi, che dal febbraio 2022 si è innescata una nuova ondata migratoria dall'ucraina verso gli Stati dell'Unione Europea, soprattutto verso la Germania e la Polonia, a causa dello scoppio della guerra russo-ucraina.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Lunedì, 18 Settembre 2023 15:38
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:31
-
Pubblicato Lunedì, 18 Settembre 2023 15:38
-
Visite: 176
Nuovi attori si sono imposti sullo scenario geopolitico mondiale a danno delle vecchie potenze occidentali. Una rivoluzione economica antioccidentale che ha cambiato l’equilibrio geopolitico mondiale. Nel 2009 a Ekaterinburg, in Russia, si tiene il primo summit ufficiale dei BRIC a cui parteciparono Brasile, Russia, India e Cina. Fu proprio in quell’occasione che il termine venne introdotto per la prima volta. In realtà, il termine nasce qualche anno prima, nel 2002, a seguito di una definizione dell'economista della Goldman Sachs, Jim O’Neil, il quale raccontava in un report le economie emergenti di questi cinque Paesi racchiudendole nell'acronimo BRIC. Secondo lo studio, dell’analista britannico, entro il 2050 i BRIC sarebbero diventati le principali economie mondiali; Argomenti e dati realizzati in un report al fine di giustificare gli investimenti della Goldman Sachs in queste nazioni. Dal 2009 in poi, i quattro Paesi fondatori sono diventati un gruppo abbastanza compatto intento a riformare le istituzioni economiche mondiali e costruire un sistema internazionale più democratico, non più limitato a pochi Paesi. Per la prima volta, quattro principali nazioni ed economie emergenti denunciavano pubblicamente il loro malumore verso un mondo sbilanciato verso un Occidente che non rispecchiava più i rapporti di forza globali, a cominciare dalle sue istituzioni decisionali e dalla sua linea di politica estera. L’obiettivo non era quello distruggere il sistema internazionale (G7 e fondo monetario), ma di riformarlo a vantaggio di un maggior riconoscimento delle proprie economie. Il primo atto di queste quattro potenze che iniziavano a fare fronte comune fu già nel G20 del 2010, occasione nella quale fu introdotta una riforma proprio su iniziativa dei Paesi BRIC. La proposta prevedeva una ridefinizione delle quote che modificò la composizione del Consiglio direttivo del Fondo Monetario Internazionale. I dieci maggiori azionisti risultavano così essere: USA, Giappone, BRIC (Brasile Russia, India, Cina), più quattro economie europee (Francia, Germania, Italia e Regno Unito). Una decisione storica che affermava un nuovo principio secondo il quale non vi era più una nazione che partecipava per diritto al Consiglio, ma era il quadro in evoluzione a determinare gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti, tuttavia, non ratificarono la riforma. Da BRIC divennero BRICS con l’ingresso del Sudafrica, iniziando ad espandersi e creare una vera e propria alternativa al G7 e al FMI. Nel summit del 2013 tenutosi a Durban, in Sudafrica, venne istituito il New Developmnet Bank e lo stanziamento di un fondo di riserva, il Contingence Reserve Arrangement, con lo scopo di proteggere le economie dei Paesi membri. Ciò nonostante, anche se i BRICS rappresentano un fronte unico nei tavoli internazionali (come in occasione dell’astensione di tutti i Paesi membri sul voto per le sanzioni alla Russia), non mancano le contraddizioni: la loro unione non è sancita da vincoli e trattati internazionali. Per questo, le loro riunioni, per ora si tratta solo di questo, non sono minimamente paragonabili ad un’organizzazione strutturata come l’Unione Europea. Inoltre, le politiche estere dei Paesi membri sono spesso contrastanti, motivo per il quale la loro unione internazionale su alcuni fronti non sembra nemmeno troppo coesa.
L’obiettivo dei Brics di ridurre la sfera di influenza occidentale e successivamente di creare un polo antioccidentale prende sempre più forza: nel corso della conferenza stampa finale dell’ultimo summit dei BRICS, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha annunciato l’ingresso di Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Con l'ingresso dei nuovi membri, i Paesi Brics rappresenteranno il 36% del PIL mondiale e il 47% della popolazione dell'intero pianeta. Il presidente brasiliano Lula da Silva ha inoltre dichiarato che dopo questa prima fase se ne aggiungerà una seconda di ulteriore ampliamento.
Oggi nel mondo c’è un forte polo occidentale, ma l’altro polo non può (ancora) essere rappresentato dai Brics, perché ad oggi non costituiscono apparati strutturati ma sono una serie di incontri con alcuni progetti messi in comune da Paesi diametralmente opposti tra loro. Ad esempio, la Shanghai Operation Organization, un’organizzazione politica e di sicurezza (non una vera alleanza militare) nella quale Russia, Cina e India hanno dialoghi ed effettuano test con altri Paesi, tra cui la Turchia, che è però un’importante alleato della NATO sia per posizione strategica ma anche per esercito. Una contrapposizione per cui il Paese, che è il secondo esercito più grosso della NATO, discute con i nemici ideologici delle sue stesse alleanze. L'India, ad esempio, sebbene sia un Paese dei Brics, è anche in un'alleanza militare quale la NATO che si oppone alla Cina. Questi esempi ci raccontano come le logiche tra i Paesi sono governati solo dagli interessi.
I Brics vogliono rappresentare un'alternativa alla collettività occidentale alle sue organizzazioni monopolizzate, quali il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, o la Banca Mondiale. Per realizzare questi progetti vi è bisogno di un’economia forte, motivo per il quale questi Paesi si sono messi insieme: creare un fondo comune. Tuttavia, Sudafrica e Russia non sono in uno stato economico entusiasmante, e sebbene l'India sia in fase di incremento, è la Cina porta avanti da sola la crescita economica dei Brics. In futuro potrebbero rappresentare davvero un polo opposto a quello occidentale, ma per ora non ne rappresentano una vera alternativa.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Martedì, 12 Settembre 2023 15:36
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:28
-
Pubblicato Martedì, 12 Settembre 2023 15:36
-
Visite: 173
Dietro le ambizioni imperiali coltivate da Ankara, si celano sia ragioni storico-culturali che opportunità scaturite dal presente. La Turchia si pone al centro di un’unità economica, culturale e militare. La Turchia non rivendica una razza turca ma una madre lingua comune, quella turcofona, da cui, secondo i turchi, deriverebbe anche il latino. D’altra parte, i parametri con i quali i turchi misurano la potenza del loro Paese non sono solo quelli economici usati da noi occidentali, ma soprattutto i connotati storico-culturali e religiosi: non bisogna dimenticare che la Turchia dispone non solo del vettore turco ma anche di quello islamico. Il presidente turco ha promosso un’idea di nazionalismo che enfatizza l’identità musulmana come elemento distintivo dell’identità turca. La politica estera turca, quindi, è conseguenza di un’ideologia e di un’ambizione di grande potenza che viene dal passato. Sono molti i Paesi che cercano di legittimare le loro mire espansionistiche ricorrendo alla storia. Che di questo passato si faccia un uso piuttosto manipolatorio è un’altra questione, ma non c'è alcun dubbio che la geopolitica sia mossa anche da queste dinamiche, cioè dalla costruzione di rappresentazioni condivise e dalla veicolazione di queste nell’opinione pubblica, al fine poi di essere usate come leva al momento giusto, ad esempio per motivare un’aggressione. In politica estera, il governo di Ankara continua a muoversi in maniera su diversi scenari, in cui alla base vi sono molto spesso rivendicazioni di carattere storico, come ad esempio quella nel Mediterraneo orientale. La disputa per le isole Egeo risale al conflitto cipriota del 1974 e alla conseguente spaccatura dell'isola in due aree di interesse: la Repubblica turca di Cipro del Nord, (non riconosciuta dalla comunità internazionale ma unicamente dalla Turchia) e la Repubblica di Cipro, membro dell'unione europea dal 2004, sostenuta dal governo di Atene e dall’ONU. Come abbiamo detto, le ragioni storico culturali diventano rivendicazioni quando abbracciano opportunità del presente: la scoperta di giacimenti al largo delle coste di Cipro ha permesso ai governi coinvolti di cavalcare l’onda delle rivendicazioni in una corsa all’oro nero. La spartizione delle acque territoriali dovrebbe seguire quanto indicato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma la Turchia non ha mai firmato il trattato. Le questioni marittime della Turchia coinvolgono anche i rapporti con la Libia, firmando accordi bilaterali con il governo libico: in cambio del sostegno militare turco nella crisi libica, l’accordo preveda un’estensione delle delimitazioni marittime turche. In questo modo, la Turchia si è auto-legittimata la proprietà di queste acque, iniziando le attività di ricerche in mare, sotto però il controllo turco secondo l’ONU (la quale aveva imposto l’embargo al sostegno militare in Libia per i Paesi Nato, e la Turchia è una di questi).Uno degli Stati interessati al controllo delle acque che si è opposta alle manovre turche è l’Egitto, il quale ha a sua volta firmato accordi sulla zona economica esclusiva (ZEE) con la Grecia. Di carattere storico è anche la questione curda, la quale ha motivato l’incursione dell’esercito turco nei conflitti in Siria e Iraq. La Turchia ha assunto un ruolo fondamentale nella guerra in Siria, bombardando i ribelli e i curdi, opponendosi agli Stati Uniti che sostengono l’esercito siriano. Erdogan ha strizzato l’occhio anche ai Brics, nonostante quello di Ankara è un Paese fondamentale della Nato. La Turchia continua a muoversi su entrambi i poli: con un piede alleata occidentale, dall’altro detiene rapporti sempre più proficui con la Russi: il commercio tra i due Paesi è raddoppiato nei primi nove mesi del 2022 rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 47 miliardi di dollari. La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia, principalmente attraverso il gasdotto sottomarino Blue Stream. Anche se, ad oggi, non fa parte dei Brics, ha assunto una posizione neutrale, come i Paesi BRICS, sul voto per le sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina. Nel Caucaso, Turchia e Russia cercano di manovrare le politiche azere con un unico scopo: il profitto economico delle preziose risorse energetiche (gas e petrolio), così da accrescere la propria influenza nell'area. La relazione tra Turchia e Azerbaijan è speciale fin dall'indipendenza azera: da ormai tre decenni si definiscono come due Stati ma un’unica nazione. Questo grazie al sostegno decisivo della Turchia nella vittoria dell'Azerbaijan nella Seconda guerra della Nagorno Karabakh. C'è una fortissima cooperazione a livello militare tra i due Paesi tanto che molti in Turchia parlano della possibile nascita di un esercito unico, che porrebbe la base per la nascita di una confederazione turca, utile anche all’Azerbaijan per non tornare sotto l’influenza russa.Sotto la presidenza Erdoğan, il governo di Ankara si è posto alla guida di un mondo turco che comprende l’Azerbaijan e le repubbliche indipendenti dell'Asia centrale senza minacciare i propri vicini cioè senza cercare di conquistarli, ma addirittura attraverso il sostegno militare, come nel caso dell’Azerbaigian, rappresenta un fatto senza precedenti. Se troverà un riscontro concreto nei prossimi anni, questo potrà appunto essere il vero marchio di Erdogan sulla storia turca: una politica assertiva nei confronti dei propri vicini allo scopo di portare alla nascita il grande progetto degli “Stati Uniti di Turchia”.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Domenica, 23 Luglio 2023 14:42
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:30
-
Pubblicato Domenica, 23 Luglio 2023 14:42
-
Visite: 280
“Steel rain” o “pioggia d'acciaio”, questo è l’appellativo con cui viene definito l'effetto delle “cluster bomb” in grado di rilasciare al suolo fino a cento submunizioni. Le bombe a grappolo, più comunemente definite, sono munizioni che esplodono a mezz'aria, disseminando piccoli esplosivi su una vasta area. Queste bombe, prima di arrivare sul bersaglio, si aprono e rilasciano nell'aria decine o centinaia di quelle che vengono definite submunizioni. Se è vero che la quasi totalità di queste esplodono, il problema è che non tutte lo fanno. Il tasso di munizioni inesplose, cioè non esplose dove e quando prestabilito, oscilla tra una percentuale che va dal 10 al 14%, secondo quanto affermato da Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo.
Le bombe a grappolo sono arrivate in Ucraina da pochi giorni, senza, tra l’altro, una richiesta esplicita ucraina. La decisione del presidente Joe Biden ha spiazzato gli alleati europei, molti dei quali sono Paesi che hanno aderito ad una convenzione per bandire le bombe a grappolo da qualunque conflitto. Nel 2022 il numero di persone uccise o ferite da queste tipologie di bombe è aumentato notevolmente. L'ultimo report del “Cluster Munition Monitor” ha rilevato la cifra più alta mai registrata dal 2010, anno in cui l'organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Basti pensare che nel 2021 non si era registrata nemmeno una vittima da attacchi con bombe a grappolo. Il lavoro del Cluster Munition Monitor si basa sulla Convenzione di Dublino del 2008, sottoscritta da 123 Stati: un trattato per bandire queste bombe: tra i paesi che non ha firmato ci sono però gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l'India, l’Arabia Saudita e il Brasile. In Europa non hanno aderito la Polonia, la Bielorussia, la Finlandia e, ovviamente, l’Ucraina che le sta utilizzando. Il sottosegretario degli Stati Uniti ha dichiarato che si farà il possibile per mitigare gli effetti di queste bombe sui civili. Il Pentagono ha ribadito di aver ricevuto rassicurazioni scritte dal governo ucraino su un uso responsabile delle “cluster bomb”: per esempio, sul fatto che queste armi non saranno utilizzate in zone densamente abitate dai civili, oppure che saranno registrate le aree in cui saranno usate, in modo da facilitare le operazioni di sminamento. Queste rassicurazioni, però, sembrano un buco nell’acqua, poiché non rendono meno devastanti le conseguenze del loro utilizzo, mettendo in pericolo le vite dei civili anche nel post-conflitto, in virtù del fatto che risulta davvero difficile registrare le aree di utilizzo, essendo zone molto vaste, per cui le operazioni di messa in sicurezza della zona risultano molto complesse. Se da una parte, come abbiamo anzitempo detto, nel 2021 non si è registrata nemmeno una vittima da attacchi con bombe a grappolo, 149 sono invece state le vittime causate dai loro resti.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Mercoledì, 28 Giugno 2023 13:48
-
Ultima modifica il Mercoledì, 31 Gennaio 2024 13:49
-
Pubblicato Mercoledì, 28 Giugno 2023 13:48
-
Visite: 689
Una guerra mediatica, quella alle ong, che serve al governo italiano per creare una narrazione. Creare una storia in cui c'è un nemico da combattere per alimentare il proprio consenso. Le ONG, secondo il ministro dell’Interno Piantedosi attraggono i migranti (nella sua informativa al Senato dello scorso novembre ha dichiarato: "La presenza di navi Ong continua a rappresentare un fattore di attrazione). Non è questa la sede per discutere la veridicità o meno di queste dichiarazioni, anche se è evidente che i migranti non vedano nel mare un porto sicuro e che nessuna accusa di collusione tra ong e trafficanti si è rivelata fondata finora, ma queste parole ci offrono soprattutto lo spunto per intraprendere una riflessione più ampia: strumentalizzare un tema complesso come quello dell'immigrazione significa abbassare il livello della questione. Quella che si combatte in mare è una vera e propria guerra e merita di essere trattata come tale. A certificarlo sono i numeri impietosi delle vittime: secondo l'Oim (l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nei primi sei mesi del 2023 sono morti o dispersi circa 1.300 migranti nel tentativo di raggiungere l'Europa attraverso il Mar Mediterraneo: è il dato più alto dal 2017 ed è una sottostima del numero reale.
Il tema della gestione dei flussi migratori è tornato prepotentemente ad essere motivo di tensione tra Francia e Italia. L’arrivo al potere di Giorgia Meloni ha riacceso una crisi bilaterale che va avanti da tempo. Entrambi i Paesi stanno vivendo tensioni interne sulle questioni migratorie, ma il problema è ad un livello diverso. La vera questione è la personalizzazione della politica e politicizzazione dei temi che inasprisce le relazioni bilaterali. Prima era il leader Macron vs il sovranista Salvini nel 2018-19, ora è un nuovo scontro con la destra impersonificata dalla Meloni. La personalizzazione della politica, che ha visto il suo avvento con la figura di Berlusconi, ha abbassato il livello del dibattuto politico. Da un linguaggio argomentativo la politica si è spostata ad un linguaggio assertivo, abbassando il livello del dibattito, riempendo la politica di superficialità e slogan. Il giornalismo ha il compito di smontare questa narrazione e riportare il livello dell’agenda politica ad un gradino più alto. Le norme del diritto internazionale dicono che i naufraghi vanno salvati sempre, qualsiasi sia la loro condizione. la Commissione europea ha dichiarato che il primo obbligo dei paesi è salvare vite in mare senza fare differenze tra navi delle ong e altre navi. Uno studio sugli sbarchi tra il 2014 e il 2019 ha dimostrato che i migranti ignorando la possibilità di essere soccorsi: su 650.000 persone partite in questi anni e solo 115.000 sono state soccorse dalle ong, cioè il 18%. La Commissione europea ha detto che il meccanismo di solidarietà tra i paesi europei rimarrà attivo, nonostante Parigi abbia rifiutato di ricollocare 3.500 richiedenti asilo dall’Italia, dopo che Roma a sua volta ha negato un porto di sbarco alla nave umanitaria Ocean Viking, la quale aveva portato in salvo 234 persone. La Francia ha contemporaneamente annunciato che non parteciperà più al meccanismo di ricollocamento, approvato nel giugno 2022 per emendare il regolamento di Dublino, secondo il quale a prendere in carico le domande di asilo devono essere i primi paesi di ingresso in Europa, motivo per il quale l’Italia soffre più delle altre nazioni la questione migratoria. Ma il resto dell’Europa non resta a guardare: nel 2021 la Svezia ha accolto un numero di migranti pari al 2.3% della sua popolazione e la Germania l'1.5%, l’Italia lo 0,2%. Il tema dell’immigrazione serve a creare una guerra mediatica, dimenticando la vera guerra è in mare e ha prodotto il dato più alto di morti dal 2017.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Venerdì, 16 Giugno 2023 13:47
-
Ultima modifica il Mercoledì, 31 Gennaio 2024 13:50
-
Pubblicato Venerdì, 16 Giugno 2023 13:47
-
Visite: 651
Le nuove generazioni tendono ad affidarsi più agli influencer e in generale alle personalità che abitano i social media, piuttosto che ai cosiddetti giornalisti tradizionali. A sottolinearlo è il Digital News Report dell'Istituto Reuters, giunto alla sua dodicesima edizione, pubblicato pochi giorni fa. Ogni anno, dal 2012, il Reuters Institute pubblica il "Digital News report", un dossier sul mondo dell'informazione che racconta come oggi ci informiamo. Premettendo che i dati devono essere contestualizzati e che uno studio è un’analisi su un campione e non la verità oggettiva, questi numeri qualcosa ci dicono: lo studio certifica un calo mondiale della fiducia nelle notizie: si attesta al 40%, rispetto al 42% del 2022. “Le ragioni non sono del tutto chiare”, si legge nel report: “Dalla ricerca dello scorso anno sappiamo che molti giovani si sentono sopraffatti dalla negatività che percepiscono nei loro feed social”. La Finlandia, in controtendenza, è il Paese con i livelli di fiducia più alta nelle notizie (69%). Non è un caso che il paese nordico sia in cima anche alla classifica del World Happiness Report. Notizie e salute mentale sono collegate tra loro, si legge nel report: “I have to consciously make the effort to turn away for the sake of my own mental health” (devo fare consapevolmente lo sforzo di allontanarmi per il bene della mia salute mentale). Nessuna novità, basta riprendere le parole di Charlie Skinner, personaggio della serie tv “The Newsroom” del regista Aaron Sorkin, molto attento al mondo del giornalismo: «Gli organi di informazione sono al servizio della comunità e hanno il compito di informare la gente, ma anche l'immenso potere di condizionarla». La conseguenza è che la partecipazione attiva è in declino (22%), mentre cresce la percentuale di persone che sostiene di evitare le notizie, allontanandosi da ogni fonte di news o selezionando solo alcune tematiche. Scappare dalle notizie a favore dell’intrattenimento. Su Facebook e Twitter le testate giornalistiche restano quelle più seguite se si cercano notizie su questi due social, quando ci spostiamo su YouTube, Instagram e TikTok la risposta degli utenti è diversa. Ci si sofferma di più su ciò che raccontano gli influencer e in generale i personaggi più noti. Su TikTok c’è un elemento in più: anche le persone comuni sono considerate una fonte di informazione. Nell’analisi condotta in 46 Paesi, il 56% degli utenti afferma di essere preoccupato perché non riesce a distinguere la differenza tra notizie reali e false su Internet. Solo il 30% pensa che la selezione delle notizie degli algoritmi dei social sia buona, ma è comunque una percentuale più alta di chi preferisce una selezione guidata dalle testate giornalistiche (27%). La direzione intrapresa dai media è quella di una spettacolarizzazione delle news. Sempre più informazione unita all’intrattenimento, che non può non abbassare il livello di informazione, poiché maggiore è l’intrattenimento minore è l’approfondimento. Il rischio è di una superficialità che porti a non risolvere le questioni che il giornalismo porta alla luce, ma che l’informazione diventi solo una forma di intrattenimento, perdendo la sua funzione di gatekeeper della società.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Domenica, 21 Maggio 2023 13:44
-
Ultima modifica il Mercoledì, 31 Gennaio 2024 13:51
-
Pubblicato Domenica, 21 Maggio 2023 13:45
-
Visite: 771
Nella storia dell'umanità è la prima volta che le forze armate di uno Stato sono così tanto presenti nel mondo come quelle degli USA. Al momento ci sono soldati americani operativi in almeno 170 Paesi e gli Stati Uniti hanno almeno 642 basi in 76 Stati. Una presenza così diffusa permette di controllare anche il commercio globale attraverso il controllo dei "choke points" (gli stretti e i canali marini strategici). In Italia ci sono 49 basi, 129 se si considerano tutti i presidi, anche semplici installazioni. Ciò non basta per dare il primato all’Italia: infatti, la nostra penisola è solo il quarto Stato per presenza di basi USA: ne vantano di più solo Germania (123), Giappone (113), Corea del Sud (79). Le basi garantiscono la capacità di reagire in tempo rapido ed efficiente a qualunque minaccia possa sorgere, oltre a tenere sotto controllo gli alleati, impedendo una indipendenza economica e militare di queste nazioni. Le basi europee, che sono vere e proprie isole nelle quali viene ricreato un sistema americano all’interno, non servono nel quotidiano ad esercitare il predominio americano in Europa, ma come piattaforme di lancio per andare nei territori di conflitto. In cambio questi Stati hanno protezione americana, anche se si tratta più di accettare la presenza americana che scegliere di averla. Piccole basi che creano una grande rete di controllo.
Guardando all’intero globo, più di 100.000 militari nel Pacifico, quasi 90.000 in Europa e più di 20.000 in Medio Oriente. Unendo i presidi militari nelle zone strategiche del mondo si ottiene una linea denominata “collana di perle”, la quale indica la strategia degli Stati Uniti di controllare eventuali avanzate delle forze non alleate, come la Cina, che preoccupa gli Stati Uniti tanto da voler aumentare i presidi nell’Indopacifico. La strategia americana è quella non solo di aumentare le basi ma di redistribuirle, poiché concentrate in poco spazio (Giappone, Guam, Filippine, Corea del Sud, Singapore, Tailandia, Singapore). La vicinanza territoriale rischia di farle diventare un bersaglio facilmente attaccabile. Aumentando i presidi militari nelle Filippine, ad esempio, toglierebbe altro spazio al mare cinese. È difficile però aumentare le basi nell’Indopacifico poiché sono molto gli Stati che non si sentono minacciati dalla Cina, né tantomeno vogliono schierarsi contro la potenza asiatica. Lo scacchiere geopolitico Cina-Usa continua a muovere le sue pedine.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Martedì, 25 Aprile 2023 13:40
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:29
-
Pubblicato Martedì, 25 Aprile 2023 13:40
-
Visite: 698
Negli ultimi mesi in Iran si sono verificate violente proteste che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni economiche per i cittadini, ma l’Iran non è sempre stato così. Le foto che ci arrivano dagli anni Settanta mostrano un ambiente molto diverso da quello che siamo abituati ad associare allo stato persiano. Gli anni Settanta erano figli di una stagione di riforme nota come “rivoluzione bianca”, la quale ebbe molti effetti sulle donne: diritto di voto, divorzio e il divideto della poligamia. Il regime fece sempre maggior uso della forza sugli oppositori per portare avanti le sue difficili riforme. Così, a questa rivoluzione ne seguì un’altra a partire dal 1978. Il re, chiamato “scià”, esercitava il potere con metodi dittatoriali, eliminando ogni oppositore politico. La rivoluzione durò un anno e portò nel febbraio del 1979 all’odierna repubblica islamica. Le donne furono protagoniste di questa rivoluzione, anche grazie all’esperienza della Women’s Organization of Iran. Dopo un referendum, lo stato venne suddiviso in due autorità: una civile costituita da un parlamento e da un presidente con funzioni unicamente amministrative, e una religiosa guidata da Ruhollah Khomeyni, il quale deteneva il potere politico, poiché controllava gli organi amministrativi e suggeriva le indicazioni in ambito giudiziario basandosi sui comandamenti del Corano. La rivoluzione fece crollare la monarchia dello scià Reza Pahlavi dando vita a una repubblica definita islamica, poiché basata sulla sharia, la legge islamica, la quale prevede l’obbligo di indossare il velo, il divieto di divorziare e di consumare alcolici. In realtà la “sharia” non è propriamente la legge islamica, come comunemente tradotta in occidente, ma si tratta di una parola che in arabo significa “sentiero”, la “retta via”. Oggi, tutto questo non è più accettabile e il popolo rivendica maggiore libertà. L’omicidio da parte della polizia iraniana ai danni di Masha Amini, la ragazza di 22 anni uccisa perché indossava il velo, è stata la scintilla che ha scatenato una ondata di proteste che aspettava solo di sfociare. Le proteste sono state esasperate anche dalla crisi economica, aggravata dalle sanzioni europee, la cui linea politica estera non aiuta. La guida suprema Ali Khamenei, che non esercita il potere da solo ma è suddiviso in gruppi di potere, segue una linea di politica estera di vicinanza alla Russia e alla Cina. Il 26 febbraio 1979 prima ancora che venisse proclamata la Repubblica islamica, Khomeini annunciò che le riforme della rivoluzione bianca sarebbero state abrogate il prima possibile. Il 7 marzo fu annunciato che tutte le donne avrebbero dovuto indossare il velo, per lavorare o semplicemente per uscire di casa. Fu così che il giorno dopo in occasione proprio della Festa della Donna dell’8 marzo 1979, 100.000 donne scesero in piazza a Teheran per protestare. Alla manifestazione parteciparono anche tantissime donne velate, le stesse che durante la rivoluzione avevano fatto del cedro un simbolo, ma che non si aspettavano che questa legge fosse imposta su tutte le donne senza possibilità di scegliere. Negli anni 80 furono tanti i diritti che vennero nuovamente negati alle donne, come l'aborto. Furono abolite le leggi sul matrimonio, il divorzio tornò a essere una scelta esclusiva dell'uomo, mentre la poligamia divenne una prassi; gli uomini potevano e possono tuttora avere fino a quattro mogli e un numero illimitato di maglie temporanee. Nel 1982 l'adulterio fu punibile con la pena di morte, l'età legale in cui le ragazze potevano sposarsi venne ribassata 13 anni. Le donne, ancora oggi, non possono vestirsi come vogliono, poiché devono sottostare alla sorveglianza della polizia morale, la stessa che il 13 settembre scorso ha fermato per strada Masha Amini, ragazza di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, colpevole di avere una ciocca di capelli che spuntava fuori dal velo; portata in prigione, la ragazza è stata dichiarata morta tre giorni dopo. La famiglia sostiene che a ucciderla sia stata la polizia, la quale dopo l’arresto l’avrebbe colpita a morte. Le donne, che in passato furono protagoniste nelle piazze contro regimi autocratici, ora sono in quelle piazze ma non sono più sole perché anche gli uomini si ribellano a tale crudeltà: anche nel resto del mondo tante donne hanno espresso solidarietà tagliando una ciocca di capelli e condividendo il tutto in rete. Oggi la stampa internazionale sembra meno interessata alle più le proteste in Iran, ma questo non significa che vi è stata un’attenuazione, anzi: centinaia di ragazze sono state avvelenate nelle scuole.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Lunedì, 10 Aprile 2023 10:43
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:27
-
Pubblicato Lunedì, 10 Aprile 2023 10:43
-
Visite: 1413
Durante una manifestazione a Londonderry alcuni uomini a volto coperto hanno attaccato la polizia lanciando molotov, alla vigilia dell'arrivo a Belfast di Joe Biden, il più irlandese e cattolico dei presidenti americani dai tempi di John F. Kennedy. Le origini irlandesi della famiglia di Biden sono in realtà lontane, ma rivendicare i suoi avi rappresenta un segno di vicinanza all’elettorato americano poiché si stimano che circa 30 milioni di persone negli Stati Uniti, ovvero un decimo della popolazione, rivendichi origini irlandesi. La storia d’Irlanda è segnata dagli accordi del Venerdì Santo, nei quali hanno avuto un ruolo centrale gli Stati Uniti e la presenza di Joe Biden ne è una prova: il negoziato avvenne grazie all’intervento degli Stati Uniti, al tempo il presidente era Bill Clinton, Biden era senatore. Era Venerdì Santo il 10 aprile 1998, giorno in cui fu firmato il Good Friday Agreement a Belfast, il quale pose fine a circa trent'anni di conflitto a bassa intensità in Irlanda del nord tra unionisti e indipendentisti. Gli accordi del Venerdì Santo vennero firmati tra il Regno Unito, nella persona del premier Tony Blair, e l'Irlanda, rappresentata dal Taoiseach, cioè dal primo ministro, Bertie Ahern, che ponevano fine ai cosiddetti Troubles, che avevano causano la morte di almeno 3600 persone. Belfast è stata devastata dagli scontri tra l'esercito inglese, gli Unionisti e i militanti dell'IRA, l'Irish Republican Army. L’Accordo, in cui Dublino riconosceva la sovranità britannica sull’Ulster e Londra non chiudeva la porta a una potenziale riunificazione dell’isola, fu poi ampiamente confermato dal referendum in cui il SÌ vinse con il 71.12% dei voti in Irlanda del Nord e il 94% nella Repubblica d’Irlanda. Gli accordi non segnarono l'inizio della pace ma di un processo di pace che va avanti fino ad oggi. L’IRA ha deposto ufficialmente le armi nel 2005, definendo cessata la lotta, ma Belfast è ancora oggi divisa da muri e cancelli denominati linee di pace: lunghi fino a 4 km e alti fino a 8, separano le zone in cui risiedono i cattolici e i protestanti. L’Irlanda del Nord ancora non riesce a fare pace con il suo passato e parlare di IRA è tutt’ora attuale. Ad aggravare la questione è stata la Brexit. l’Irlanda del Nord ha votato per il 55,8% per rimanere nell’Unione Europea. Infatti, un elemento determinante nel facilitare la pacificazione è stata la comune appartenenza di Irlanda e Regno Unito all’Unione europea. Lo stesso Biden, durante il suo intervento all’Università di Belfast ha definito la Brexit “una minaccia per gli accordi del Venerdì Santo”. A tale proposito è stato firmato un protocollo che prevede controlli doganali per le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna, in modo che siano conformi alle regole Ue e possano circolare liberamente anche in Irlanda. Lo scorso 27 febbraio, il premier britannico Rishi Sunak e la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, hanno concordato la Cornice di Windsor, una nuova intesa che prevede un corridoio verde per le merci destinate alla sola Irlanda del Nord e uno rosso, con controlli doganali, per quelle destinate all’Irlanda. Il Dup, principale partito protestante nordirlandese, intransigente sulla questione, ha boicottato la formazione di un governo condiviso, senza il quale l’amministrazione locale non può esistere, prolungando così uno stallo che va avanti dalle elezioni del maggio 2022. La questione Brexit potrebbe aprire uno spiraglio di un referendum per unificare l’isola, già ipotizzato al tempo degli accordi e sempre più probabile in futuro ma ancora poco realistico oggi.
di Daniele Leonardi
Valutazione attuale: / 0
- Dettagli
-
Creato Lunedì, 27 Marzo 2023 19:05
-
Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:26
-
Pubblicato Lunedì, 27 Marzo 2023 19:05
-
Visite: 1596
Da novembre 2022 a oggi, 230 scuole iraniane sono state prese di mira e migliaia di studentesse sono state esposte a sostanze irritanti e nocive per la loro salute. I primi casi sono stati registrati nella città Santa di Qom, nonché il maggior centro di studi religiosi sciiti dell’Iran. Le studentesse colpite hanno sofferto di svenimenti, nausea, senso di soffocamento e altri sintomi nell’istante seguente la propagazione di odori ritenuti sgradevoli e anormali; quindi, si tratta di avvelenamenti attraverso la propagazione area di sostanze tossiche. Alcune di loro sono state ricoverate in ospedale e hanno rischiato di perdere la vita.
Ad oggi, non vi sono prove evidenti che possano evidenziare un legame tra i suddetti fatti e il governo “dittatoriale” iraniano. Tuttavia, non è sicuramente una coincidenza che questi casi si siano registrati in un contesto già fragile e poco dopo le proteste pubbliche sviluppatosi a seguito della morte di Mahsa Amini, donna simbolo della condizione femminile e della violenza esercitata contro le donne sotto la Repubblica islamica dell'Iran. La condizione femminile è sempre stata un tema fragile in questo Paese dove le donne risultano totalmente sottomesse all’uomo.
Tutta questa situazione ha causato un dibattito globale riguardo l’attribuzione di responsabilità. Un'ipotesi molto diffusa va ad attribuire la colpa dell’attacco a gruppi religiosi radicali che vorrebbero negare alle donne il diritto all'istruzione, come avvenne nel vicino Afghanistan talebano.
Secondo l’agenzia statale iraniana Irna, il 14 febbraio 2022 le associazioni dei genitori si sono riunite davanti al governatorato della città di Qom per chiedere spiegazioni, ma è stata un’operazione senza risultati. Dieci giorni dopo, il viceministro della salute Youness Panahi ha confermato che «l’avvelenamento è stato intenzionale».
A inizio marzo ci sono stati i primi arresti dei sospettati ed è stato proprio il governo di Teheran a darne comunicazione. Nonostante queste brevi notizie, non c’è chiarezza sulla reale situazione. Rimane il fatto che i presidi delle scuole hanno vivamente consigliato ai genitori di tenere a casa le figlie per non rischiare altri avvelenamenti.
Potrebbe trattarsi di un avvelenamento selettivo da parte del governo per bloccare nuove proteste e ridurre i diritti femminili o di un complotto bottom-up (dal basso verso l’alto) perpetrato da gruppi radicali per scatenare disordini e poter tentare un colpo di Stato. Le ipotesi rimangono in sospeso fino a quando le agenzie di Intelligence non riusciranno a fare luce sui fatti.
di Elena Pinton