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Temi globali

Rotte migratorie, autostrade del contrabbando e carovane dalla morte

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I flussi migratori sono molto variabili perché tante e diverse sono le condizioni che favoriscono la crescita di questi fenomeni. Nel 2015 ha avuto un boom l’immigrazione irregolare, ma gli sbarchi seguono flussi regolari nella maggior parte dei casi. Infatti, seppur viene propagandata una situazione radicalmente opposta, la maggior parte degli immigrati che arriva in U.E. ogni anno, entra in maniera regolare. Nel 2021 sono entrate in UE in modo irregolare 123.318 persone, a fronte di 2.260.000 persone entrate in maniera regolare. Forte è anche il dato sull’emigrazione dall’UE: 1.120.000 persone. La maggior parte dei migranti irregolari sbarcati nel 2023 sulle nostre coste proviene dalla Tunisia, nonostante sia l'Italia che l'Unione Europea abbiano firmato degli accordi con il Paese nordafricano per fermare buona parte di questi flussi. 
Per comprendere la natura degli sbarchi, bisogna andare all’origine di questi flussi: la rotta più frequentata per i migranti è quella del Mediterraneo centrale, in cui le principali aree di partenza sono l'Africa settentrionale e subsahariana. I principali Paesi di imbarco di questa tratta sono la Libia e la Tunisia, i luoghi di approdo sono l'isola di Malta e l'Italia, in particolare l'isola di Lampedusa.  
Per i Paesi appartenenti alla Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS), viaggiare all'interno di quest'area fino il confine libico non richiede particolari complessità. Al contrario, entrare in Algeria non è così semplice. Gli unici che non hanno bisogno di dimostrare un visto sono gli abitanti del Mali. Per questo, dalla città di Gao, in Mali, attraverso la statale 18, i migranti vengono trasportati attraverso il deserto algerino in una tratta molto pericolosa fino all'oasi meridionale di Tamanrasset, hub principale dello smercio migratorio dell’Algeria. Da qui i migranti attraversano la N55, la cosiddetta autostrada del contrabbando. Per attraversare i confini tra Niger e Libia, o tra Mali e Algeria, i migranti hanno bisogno dell'aiuto di un trasportatore: molti sfruttano i passaggi che i trafficanti organizzano con un pickup lungo le strade del Sahara. Famose sono le immagini scattate dai fotoreporter con questi convogli con almeno 30 persone, perché più persone significa più profitti. I migranti si trovano così schiacciati in una carovana della morte. il viaggio attraverso il deserto può durare fino a tre giorni. Ma non finisce qui: in Libia poi inizia un contrabbando di migranti che porta alla vendita di organi umani. 
Le altre due rotte più frequentate sono: la rotta del Mediterraneo occidentale, che interessa soprattutto la Spagna ed è percorsa da migranti che provengono principalmente da Algeria e Marocco ma anche dall'Africa subsahariana, e la rotta del Mediterraneo orientale. I migranti di questa rotta arrivano dalla Siria e più in generale dal Medio Oriente, viaggiano verso Grecia, l'isola di Cipro e la Bulgaria. Ci sono poi intrecci tra i vari percorsi che danno vita ad ulteriori rotte: quella dell'Africa occidentale che si lega a quella del Mediterraneo occidentale, lungo la quale transitano persone dirette verso le Isole Canarie, e quella dell'Africa orientale, legata sia alla rotta del Mediterraneo centrale e orientale, con partenze da Corno d'Africa e Medio Oriente. Senza dimenticare poi, che dal febbraio 2022 si è innescata una nuova ondata migratoria dall'ucraina verso gli Stati dell'Unione Europea, soprattutto verso la Germania e la Polonia, a causa dello scoppio della guerra russo-ucraina.  
 
di Daniele Leonardi
 
 

I Brics (ancora) non rappresentano un’alternativa all’Occidente

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Nuovi attori si sono imposti sullo scenario geopolitico mondiale a danno delle vecchie potenze occidentali. Una rivoluzione economica antioccidentale che ha cambiato l’equilibrio geopolitico mondiale. Nel 2009 a Ekaterinburg, in Russia, si tiene il primo summit ufficiale dei BRIC a cui parteciparono Brasile, Russia, India e Cina. Fu proprio in quell’occasione che il termine venne introdotto per la prima volta. In realtà, il termine nasce qualche anno prima, nel 2002, a seguito di una definizione dell'economista della Goldman Sachs, Jim O’Neil, il quale raccontava in un report le economie emergenti di questi cinque Paesi racchiudendole nell'acronimo BRIC. Secondo lo studio, dell’analista britannico, entro il 2050 i BRIC sarebbero diventati le principali economie mondiali; Argomenti e dati realizzati in un report al fine di giustificare gli investimenti della Goldman Sachs in queste nazioni. Dal 2009 in poi, i quattro Paesi fondatori sono diventati un gruppo abbastanza compatto intento a riformare le istituzioni economiche mondiali e costruire un sistema internazionale più democratico, non più limitato a pochi Paesi. Per la prima volta, quattro principali nazioni ed economie emergenti denunciavano pubblicamente il loro malumore verso un mondo sbilanciato verso un Occidente che non rispecchiava più i rapporti di forza globali, a cominciare dalle sue istituzioni decisionali e dalla sua linea di politica estera. L’obiettivo non era quello distruggere il sistema internazionale (G7 e fondo monetario), ma di riformarlo a vantaggio di un maggior riconoscimento delle proprie economie. Il primo atto di queste quattro potenze che iniziavano a fare fronte comune fu già nel G20 del 2010, occasione nella quale fu introdotta una riforma proprio su iniziativa dei Paesi BRIC. La proposta prevedeva una ridefinizione delle quote che modificò la composizione del Consiglio direttivo del Fondo Monetario Internazionale. I dieci maggiori azionisti risultavano così essere: USA, Giappone, BRIC (Brasile Russia, India, Cina), più quattro economie europee (Francia, Germania, Italia e Regno Unito). Una decisione storica che affermava un nuovo principio secondo il quale non vi era più una nazione che partecipava per diritto al Consiglio, ma era il quadro in evoluzione a determinare gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti, tuttavia, non ratificarono la riforma. Da BRIC divennero BRICS con l’ingresso del Sudafrica, iniziando ad espandersi e creare una vera e propria alternativa al G7 e al FMI. Nel summit del 2013 tenutosi a Durban, in Sudafrica, venne istituito il New Developmnet Bank e lo stanziamento di un fondo di riserva, il Contingence Reserve Arrangement, con lo scopo di proteggere le economie dei Paesi membri. Ciò nonostante, anche se i BRICS rappresentano un fronte unico nei tavoli internazionali (come in occasione dell’astensione di tutti i Paesi membri sul voto per le sanzioni alla Russia), non mancano le contraddizioni: la loro unione non è sancita da vincoli e trattati internazionali. Per questo, le loro riunioni, per ora si tratta solo di questo, non sono minimamente paragonabili ad un’organizzazione strutturata come l’Unione Europea. Inoltre, le politiche estere dei Paesi membri sono spesso contrastanti, motivo per il quale la loro unione internazionale su alcuni fronti non sembra nemmeno troppo coesa. 
L’obiettivo dei Brics di ridurre la sfera di influenza occidentale e successivamente di creare un polo antioccidentale prende sempre più forza: nel corso della conferenza stampa finale dell’ultimo summit dei BRICS, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha annunciato l’ingresso di Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Con l'ingresso dei nuovi membri, i Paesi Brics rappresenteranno il 36% del PIL mondiale e il 47% della popolazione dell'intero pianeta. Il presidente brasiliano Lula da Silva ha inoltre dichiarato che dopo questa prima fase se ne aggiungerà una seconda di ulteriore ampliamento.
Oggi nel mondo c’è un forte polo occidentale, ma l’altro polo non può (ancora) essere rappresentato dai Brics, perché ad oggi non costituiscono apparati strutturati ma sono una serie di incontri con alcuni progetti messi in comune da Paesi diametralmente opposti tra loro. Ad esempio, la Shanghai Operation Organization, un’organizzazione politica e di sicurezza (non una vera alleanza militare) nella quale Russia, Cina e India hanno dialoghi ed effettuano test con altri Paesi, tra cui la Turchia, che è però un’importante alleato della NATO sia per posizione strategica ma anche per esercito. Una contrapposizione per cui il Paese, che è il secondo esercito più grosso della NATO, discute con i nemici ideologici delle sue stesse alleanze. L'India, ad esempio, sebbene sia un Paese dei Brics, è anche in un'alleanza militare quale la NATO che si oppone alla Cina. Questi esempi ci raccontano come le logiche tra i Paesi sono governati solo dagli interessi.
I Brics vogliono rappresentare un'alternativa alla collettività occidentale alle sue organizzazioni monopolizzate, quali il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, o la Banca Mondiale. Per realizzare questi progetti vi è bisogno di un’economia forte, motivo per il quale questi Paesi si sono messi insieme: creare un fondo comune. Tuttavia, Sudafrica e Russia non sono in uno stato economico entusiasmante, e sebbene l'India sia in fase di incremento, è la Cina porta avanti da sola la crescita economica dei Brics. In futuro potrebbero rappresentare davvero un polo opposto a quello occidentale, ma per ora non ne rappresentano una vera alternativa. 
 
di Daniele Leonardi
 
 

Stati Uniti di Turchia

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Dietro le ambizioni imperiali coltivate da Ankara, si celano sia ragioni storico-culturali che opportunità scaturite dal presente. La Turchia si pone al centro di un’unità economica, culturale e militare. La Turchia non rivendica una razza turca ma una madre lingua comune, quella turcofona, da cui, secondo i turchi, deriverebbe anche il latino. D’altra parte, i parametri con i quali i turchi misurano la potenza del loro Paese non sono solo quelli economici usati da noi occidentali, ma soprattutto i connotati storico-culturali e religiosi: non bisogna dimenticare che la Turchia dispone non solo del vettore turco ma anche di quello islamico. Il presidente turco ha promosso un’idea di nazionalismo che enfatizza l’identità musulmana come elemento distintivo dell’identità turca. La politica estera turca, quindi, è conseguenza di un’ideologia e di un’ambizione di grande potenza che viene dal passato. Sono molti i Paesi che cercano di legittimare le loro mire espansionistiche ricorrendo alla storia. Che di questo passato si faccia un uso piuttosto manipolatorio è un’altra questione, ma non c'è alcun dubbio che la geopolitica sia mossa anche da queste dinamiche, cioè dalla costruzione di rappresentazioni condivise e dalla veicolazione di queste nell’opinione pubblica, al fine poi di essere usate come leva al momento giusto, ad esempio per motivare un’aggressione. In politica estera, il governo di Ankara continua a muoversi in maniera su diversi scenari, in cui alla base vi sono molto spesso rivendicazioni di carattere storico, come ad esempio quella nel Mediterraneo orientale. La disputa per le isole Egeo risale al conflitto cipriota del 1974 e alla conseguente spaccatura dell'isola in due aree di interesse: la Repubblica turca di Cipro del Nord, (non riconosciuta dalla comunità internazionale ma unicamente dalla Turchia) e la Repubblica di Cipro, membro dell'unione europea dal 2004, sostenuta dal governo di Atene e dall’ONU. Come abbiamo detto, le ragioni storico culturali diventano rivendicazioni quando abbracciano opportunità del presente: la scoperta di giacimenti al largo delle coste di Cipro ha permesso ai governi coinvolti di cavalcare l’onda delle rivendicazioni in una corsa all’oro nero. La spartizione delle acque territoriali dovrebbe seguire quanto indicato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma la Turchia non ha mai firmato il trattato. Le questioni marittime della Turchia coinvolgono anche i rapporti con la Libia, firmando accordi bilaterali con il governo libico: in cambio del sostegno militare turco nella crisi libica, l’accordo preveda un’estensione delle delimitazioni marittime turche. In questo modo, la Turchia si è auto-legittimata la proprietà di queste acque, iniziando le attività di ricerche in mare, sotto però il controllo turco secondo l’ONU (la quale aveva imposto l’embargo al sostegno militare in Libia per i Paesi Nato, e la Turchia è una di questi).Uno degli Stati interessati al controllo delle acque che si è opposta alle manovre turche è l’Egitto, il quale ha a sua volta firmato accordi sulla zona economica esclusiva (ZEE) con la Grecia. Di carattere storico è anche la questione curda, la quale ha motivato l’incursione dell’esercito turco nei conflitti in Siria e Iraq. La Turchia ha assunto un ruolo fondamentale nella guerra in Siria, bombardando i ribelli e i curdi, opponendosi agli Stati Uniti che sostengono l’esercito siriano. Erdogan ha strizzato l’occhio anche ai Brics, nonostante quello di Ankara è un Paese fondamentale della Nato. La Turchia continua a muoversi su entrambi i poli: con un piede alleata occidentale, dall’altro detiene rapporti sempre più proficui con la Russi: il commercio tra i due Paesi è raddoppiato nei primi nove mesi del 2022 rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 47 miliardi di dollari. La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia, principalmente attraverso il gasdotto sottomarino Blue Stream. Anche se, ad oggi, non fa parte dei Brics, ha assunto una posizione neutrale, come i Paesi BRICS, sul voto per le sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina. Nel Caucaso, Turchia e Russia cercano di manovrare le politiche azere con un unico scopo: il profitto economico delle preziose risorse energetiche (gas e petrolio), così da accrescere la propria influenza nell'area. La relazione tra Turchia e Azerbaijan è speciale fin dall'indipendenza azera: da ormai tre decenni si definiscono come due Stati ma un’unica nazione. Questo grazie al sostegno decisivo della Turchia nella vittoria dell'Azerbaijan nella Seconda guerra della Nagorno Karabakh. C'è una fortissima cooperazione a livello militare tra i due Paesi tanto che molti in Turchia parlano della possibile nascita di un esercito unico, che porrebbe la base per la nascita di una confederazione turca, utile anche all’Azerbaijan per non tornare sotto l’influenza russa.Sotto la presidenza Erdoğan, il governo di Ankara si è posto alla guida di un mondo turco che comprende l’Azerbaijan e le repubbliche indipendenti dell'Asia centrale senza minacciare i propri vicini cioè senza cercare di conquistarli, ma addirittura attraverso il sostegno militare, come nel caso dell’Azerbaigian, rappresenta un fatto senza precedenti. Se troverà un riscontro concreto nei prossimi anni, questo potrà appunto essere il vero marchio di Erdogan sulla storia turca: una politica assertiva nei confronti dei propri vicini allo scopo di portare alla nascita il grande progetto degli “Stati Uniti di Turchia”. 
 
di Daniele Leonardi
 

Pioggia d'acciaio dagli States

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“Steel rain” o “pioggia d'acciaio”, questo è l’appellativo con cui viene definito l'effetto delle “cluster bomb” in grado di rilasciare al suolo fino a cento submunizioni. Le bombe a grappolo, più comunemente definite, sono munizioni che esplodono a mezz'aria, disseminando piccoli esplosivi su una vasta area. Queste bombe, prima di arrivare sul bersaglio, si aprono e rilasciano nell'aria decine o centinaia di quelle che vengono definite submunizioni. Se è vero che la quasi totalità di queste esplodono, il problema è che non tutte lo fanno. Il tasso di munizioni inesplose, cioè non esplose dove e quando prestabilito, oscilla tra una percentuale che va dal 10 al 14%, secondo quanto affermato da Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo.
Le bombe a grappolo sono arrivate in Ucraina da pochi giorni, senza, tra l’altro, una richiesta esplicita ucraina. La decisione del presidente Joe Biden ha spiazzato gli alleati europei, molti dei quali sono Paesi che hanno aderito ad una convenzione per bandire le bombe a grappolo da qualunque conflitto. Nel 2022 il numero di persone uccise o ferite da queste tipologie di bombe è aumentato notevolmente. L'ultimo report del “Cluster Munition Monitor” ha rilevato la cifra più alta mai registrata dal 2010, anno in cui l'organizzazione ha iniziato a raccogliere i dati. Basti pensare che nel 2021 non si era registrata nemmeno una vittima da attacchi con bombe a grappolo. Il lavoro del Cluster Munition Monitor si basa sulla Convenzione di Dublino del 2008, sottoscritta da 123 Stati: un trattato per bandire queste bombe: tra i paesi che non ha firmato ci sono però gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l'India, l’Arabia Saudita e il Brasile. In Europa non hanno aderito la Polonia, la Bielorussia, la Finlandia e, ovviamente, l’Ucraina che le sta utilizzando. Il sottosegretario degli Stati Uniti ha dichiarato che si farà il possibile per mitigare gli effetti di queste bombe sui civili. Il Pentagono ha ribadito di aver ricevuto rassicurazioni scritte dal governo ucraino su un uso responsabile delle “cluster bomb”: per esempio, sul fatto che queste armi non saranno utilizzate in zone densamente abitate dai civili, oppure che saranno registrate le aree in cui saranno usate, in modo da facilitare le operazioni di sminamento. Queste rassicurazioni, però, sembrano un buco nell’acqua, poiché non rendono meno devastanti le conseguenze del loro utilizzo, mettendo in pericolo le vite dei civili anche nel post-conflitto, in virtù del fatto che risulta davvero difficile registrare le aree di utilizzo, essendo zone molto vaste, per cui le operazioni di messa in sicurezza della zona risultano molto complesse. Se da una parte, come abbiamo anzitempo detto, nel 2021 non si è registrata nemmeno una vittima da attacchi con bombe a grappolo, 149 sono invece state le vittime causate dai loro resti.
 
di Daniele Leonardi
 
 

Guerra alle Ong: il giornalismo che smonta la narrazione

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Una guerra mediatica, quella alle ong, che serve al governo italiano per creare una narrazione. Creare una storia in cui c'è un nemico da combattere per alimentare il proprio consenso. Le ONG, secondo il ministro dell’Interno Piantedosi attraggono i migranti (nella sua informativa al Senato dello scorso novembre ha dichiarato: "La presenza di navi Ong continua a rappresentare un fattore di attrazione). Non è questa la sede per discutere la veridicità o meno di queste dichiarazioni, anche se è evidente che i migranti non vedano nel mare un porto sicuro e che nessuna accusa di collusione tra ong e trafficanti si è rivelata fondata finora, ma queste parole ci offrono soprattutto lo spunto per intraprendere una riflessione più ampia: strumentalizzare un tema complesso come quello dell'immigrazione significa abbassare il livello della questione. Quella che si combatte in mare è una vera e propria guerra e merita di essere trattata come tale. A certificarlo sono i numeri impietosi delle vittime: secondo l'Oim (l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nei primi sei mesi del 2023 sono morti o dispersi circa 1.300 migranti nel tentativo di raggiungere l'Europa attraverso il Mar Mediterraneo: è il dato più alto dal 2017 ed è una sottostima del numero reale. 
Il tema della gestione dei flussi migratori è tornato prepotentemente ad essere motivo di tensione tra Francia e Italia. L’arrivo al potere di Giorgia Meloni ha riacceso una crisi bilaterale che va avanti da tempo. Entrambi i Paesi stanno vivendo tensioni interne sulle questioni migratorie, ma il problema è ad un livello diverso. La vera questione è la personalizzazione della politica e politicizzazione dei temi che inasprisce le relazioni bilaterali. Prima era il leader Macron vs il sovranista Salvini nel 2018-19, ora è un nuovo scontro con la destra impersonificata dalla Meloni. La personalizzazione della politica, che ha visto il suo avvento con la figura di Berlusconi, ha abbassato il livello del dibattuto politico. Da un linguaggio argomentativo la politica si è spostata ad un linguaggio assertivo, abbassando il livello del dibattito, riempendo la politica di superficialità e slogan. Il giornalismo ha il compito di smontare questa narrazione e riportare il livello dell’agenda politica ad un gradino più alto. Le norme del diritto internazionale dicono che i naufraghi vanno salvati sempre, qualsiasi sia la loro condizione. la Commissione europea ha dichiarato che il primo obbligo dei paesi è salvare vite in mare senza fare differenze tra navi delle ong e altre navi. Uno studio sugli sbarchi tra il 2014 e il 2019 ha dimostrato che i migranti ignorando la possibilità di essere soccorsi: su 650.000 persone partite in questi anni e solo 115.000 sono state soccorse dalle ong, cioè il 18%.  La Commissione europea ha detto che il meccanismo di solidarietà tra i paesi europei rimarrà attivo, nonostante Parigi abbia rifiutato di ricollocare 3.500 richiedenti asilo dall’Italia, dopo che Roma a sua volta ha negato un porto di sbarco alla nave umanitaria Ocean Viking, la quale aveva portato in salvo 234 persone. La Francia ha contemporaneamente annunciato che non parteciperà più al meccanismo di ricollocamento, approvato nel giugno 2022 per emendare il regolamento di Dublino, secondo il quale a prendere in carico le domande di asilo devono essere i primi paesi di ingresso in Europa, motivo per il quale l’Italia soffre più delle altre nazioni la questione migratoria. Ma il resto dell’Europa non resta a guardare: nel 2021 la Svezia ha accolto un numero di migranti pari al 2.3% della sua popolazione e la Germania l'1.5%, l’Italia lo 0,2%. Il tema dell’immigrazione serve a creare una guerra mediatica, dimenticando la vera guerra è in mare e ha prodotto il dato più alto di morti dal 2017.  
 
di Daniele Leonardi
 

Notizie e salute mentale: il report dell'Istituto Reuters

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Le nuove generazioni tendono ad affidarsi più agli influencer e in generale alle personalità che abitano i social media, piuttosto che ai cosiddetti giornalisti tradizionali. A sottolinearlo è il Digital News Report dell'Istituto Reuters, giunto alla sua dodicesima edizione, pubblicato pochi giorni fa. Ogni anno, dal 2012, il Reuters Institute pubblica il "Digital News report", un dossier sul mondo dell'informazione che racconta come oggi ci informiamo. Premettendo che i dati devono essere contestualizzati e che uno studio è un’analisi su un campione e non la verità oggettiva, questi numeri qualcosa ci dicono: lo studio certifica un calo mondiale della fiducia nelle notizie: si attesta al 40%, rispetto al 42% del 2022. “Le ragioni non sono del tutto chiare”, si legge nel report: “Dalla ricerca dello scorso anno sappiamo che molti giovani si sentono sopraffatti dalla negatività che percepiscono nei loro feed social”. La Finlandia, in controtendenza, è il Paese con i livelli di fiducia più alta nelle notizie (69%). Non è un caso che il paese nordico sia in cima anche alla classifica del World Happiness Report. Notizie e salute mentale sono collegate tra loro, si legge nel report: “I have to consciously make the effort to turn away for the sake of my own mental health” (devo fare consapevolmente lo sforzo di allontanarmi per il bene della mia salute mentale). Nessuna novità, basta riprendere le parole di Charlie Skinner, personaggio della serie tv “The Newsroom” del regista Aaron Sorkin, molto attento al mondo del giornalismo: «Gli organi di informazione sono al servizio della comunità e hanno il compito di informare la gente, ma anche l'immenso potere di condizionarla». La conseguenza è che la partecipazione attiva è in declino (22%), mentre cresce la percentuale di persone che sostiene di evitare le notizie, allontanandosi da ogni fonte di news o selezionando solo alcune tematiche. Scappare dalle notizie a favore dell’intrattenimento. Su Facebook e Twitter le testate giornalistiche restano quelle più seguite se si cercano notizie su questi due social, quando ci spostiamo su YouTube, Instagram e TikTok la risposta degli utenti è diversa. Ci si sofferma di più su ciò che raccontano gli influencer e in generale i personaggi più noti. Su TikTok c’è un elemento in più: anche le persone comuni sono considerate una fonte di informazione. Nell’analisi condotta in 46 Paesi, il 56% degli utenti afferma di essere preoccupato perché non riesce a distinguere la differenza tra notizie reali e false su Internet. Solo il 30% pensa che la selezione delle notizie degli algoritmi dei social sia buona, ma è comunque una percentuale più alta di chi preferisce una selezione guidata dalle testate giornalistiche (27%). La direzione intrapresa dai media è quella di una spettacolarizzazione delle news. Sempre più informazione unita all’intrattenimento, che non può non abbassare il livello di informazione, poiché maggiore è l’intrattenimento minore è l’approfondimento. Il rischio è di una superficialità che porti a non risolvere le questioni che il giornalismo porta alla luce, ma che l’informazione diventi solo una forma di intrattenimento, perdendo la sua funzione di gatekeeper della società. 
 
di Daniele Leonardi
 

Come gli Stati Uniti controllano il mondo: le basi USA

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Nella storia dell'umanità è la prima volta che le forze armate di uno Stato sono così tanto presenti nel mondo come quelle degli USA. Al momento ci sono soldati americani operativi in almeno 170 Paesi e gli Stati Uniti hanno almeno 642 basi in 76 Stati. Una presenza così diffusa permette di controllare anche il commercio globale attraverso il controllo dei "choke points" (gli stretti e i canali marini strategici). In Italia ci sono 49 basi, 129 se si considerano tutti i presidi, anche semplici installazioni. Ciò non basta per dare il primato all’Italia: infatti, la nostra penisola è solo il quarto Stato per presenza di basi USA: ne vantano di più solo Germania (123), Giappone (113), Corea del Sud (79). Le basi garantiscono la capacità di reagire in tempo rapido ed efficiente a qualunque minaccia possa sorgere, oltre a tenere sotto controllo gli alleati, impedendo una indipendenza economica e militare di queste nazioni. Le basi europee, che sono vere e proprie isole nelle quali viene ricreato un sistema americano all’interno, non servono nel quotidiano ad esercitare il predominio americano in Europa, ma come piattaforme di lancio per andare nei territori di conflitto. In cambio questi Stati hanno protezione americana, anche se si tratta più di accettare la presenza americana che scegliere di averla. Piccole basi che creano una grande rete di controllo. 
Guardando all’intero globo, più di 100.000 militari nel Pacifico, quasi 90.000 in Europa e più di 20.000 in Medio Oriente. Unendo i presidi militari nelle zone strategiche del mondo si ottiene una linea denominata “collana di perle”, la quale indica la strategia degli Stati Uniti di controllare eventuali avanzate delle forze non alleate, come la Cina, che preoccupa gli Stati Uniti tanto da voler aumentare i presidi nell’Indopacifico. La strategia americana è quella non solo di aumentare le basi ma di redistribuirle, poiché concentrate in poco spazio (Giappone, Guam, Filippine, Corea del Sud, Singapore, Tailandia, Singapore). La vicinanza territoriale rischia di farle diventare un bersaglio facilmente attaccabile. Aumentando i presidi militari nelle Filippine, ad esempio, toglierebbe altro spazio al mare cinese. È difficile però aumentare le basi nell’Indopacifico poiché sono molto gli Stati che non si sentono minacciati dalla Cina, né tantomeno vogliono schierarsi contro la potenza asiatica. Lo scacchiere geopolitico Cina-Usa continua a muovere le sue pedine.  
 
di Daniele Leonardi
 

Iran, donne e rivoluzione

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Negli ultimi mesi in Iran si sono verificate violente proteste che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni economiche per i cittadini, ma l’Iran non è sempre stato così. Le foto che ci arrivano dagli anni Settanta mostrano un ambiente molto diverso da quello che siamo abituati ad associare allo stato persiano. Gli anni Settanta erano figli di una stagione di riforme nota come “rivoluzione bianca”, la quale ebbe molti effetti sulle donne: diritto di voto, divorzio e il divideto della poligamia. Il regime fece sempre maggior uso della forza sugli oppositori per portare avanti le sue difficili riforme. Così, a questa rivoluzione ne seguì un’altra a partire dal 1978. Il re, chiamato “scià”, esercitava il potere con metodi dittatoriali, eliminando ogni oppositore politico. La rivoluzione durò un anno e portò nel febbraio del 1979 all’odierna repubblica islamica. Le donne furono protagoniste di questa rivoluzione, anche grazie all’esperienza della Women’s Organization of Iran. Dopo un referendum, lo stato venne suddiviso in due autorità: una civile costituita da un parlamento e da un presidente con funzioni unicamente amministrative, e una religiosa guidata da Ruhollah Khomeyni, il quale deteneva il potere politico, poiché controllava gli organi amministrativi e suggeriva le indicazioni in ambito giudiziario basandosi sui comandamenti del Corano. La rivoluzione fece crollare la monarchia dello scià Reza Pahlavi dando vita a una repubblica definita islamica, poiché basata sulla sharia, la legge islamica, la quale prevede l’obbligo di indossare il velo, il divieto di divorziare e di consumare alcolici. In realtà la “sharia” non è propriamente la legge islamica, come comunemente tradotta in occidente, ma si tratta di una parola che in arabo significa “sentiero”, la “retta via”. Oggi, tutto questo non è più accettabile e il popolo rivendica maggiore libertà. L’omicidio da parte della polizia iraniana ai danni di Masha Amini, la ragazza di 22 anni uccisa perché indossava il velo, è stata la scintilla che ha scatenato una ondata di proteste che aspettava solo di sfociare. Le proteste sono state esasperate anche dalla crisi economica, aggravata dalle sanzioni europee, la cui linea politica estera non aiuta. La guida suprema Ali Khamenei, che non esercita il potere da solo ma è suddiviso in gruppi di potere, segue una linea di politica estera di vicinanza alla Russia e alla Cina. Il 26 febbraio 1979 prima ancora che venisse proclamata la Repubblica islamica, Khomeini annunciò che le riforme della rivoluzione bianca sarebbero state abrogate il prima possibile. Il 7 marzo fu annunciato che tutte le donne avrebbero dovuto indossare il velo, per lavorare o semplicemente per uscire di casa. Fu così che il giorno dopo in occasione proprio della Festa della Donna dell’8 marzo 1979, 100.000 donne scesero in piazza a Teheran per protestare. Alla manifestazione parteciparono anche tantissime donne velate, le stesse che durante la rivoluzione avevano fatto del cedro un simbolo, ma che non si aspettavano che questa legge fosse imposta su tutte le donne senza possibilità di scegliere. Negli anni 80 furono tanti i diritti che vennero nuovamente negati alle donne, come l'aborto. Furono abolite le leggi sul matrimonio, il divorzio tornò a essere una scelta esclusiva dell'uomo, mentre la poligamia divenne una prassi; gli uomini potevano e possono tuttora avere fino a quattro mogli e un numero illimitato di maglie temporanee. Nel 1982 l'adulterio fu punibile con la pena di morte, l'età legale in cui le ragazze potevano sposarsi venne ribassata 13 anni. Le donne, ancora oggi, non possono vestirsi come vogliono, poiché devono sottostare alla sorveglianza della polizia morale, la stessa che il 13 settembre scorso ha fermato per strada Masha Amini, ragazza di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, colpevole di avere una ciocca di capelli che spuntava fuori dal velo; portata in prigione, la ragazza è stata dichiarata morta tre giorni dopo. La famiglia sostiene che a ucciderla sia stata la polizia, la quale dopo l’arresto l’avrebbe colpita a morte. Le donne, che in passato furono protagoniste nelle piazze contro regimi autocratici, ora sono in quelle piazze ma non sono più sole perché anche gli uomini si ribellano a tale crudeltà: anche nel resto del mondo tante donne hanno espresso solidarietà tagliando una ciocca di capelli e condividendo il tutto in rete. Oggi la stampa internazionale sembra meno interessata alle più le proteste in Iran, ma questo non significa che vi è stata un’attenuazione, anzi: centinaia di ragazze sono state avvelenate nelle scuole. 
 
di Daniele Leonardi
 

La pace in Irlanda del Nord, 25 anni dopo

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Durante una manifestazione a Londonderry alcuni uomini a volto coperto hanno attaccato la polizia lanciando molotov, alla vigilia dell'arrivo a Belfast di Joe Biden, il più irlandese e cattolico dei presidenti americani dai tempi di John F. Kennedy. Le origini irlandesi della famiglia di Biden sono in realtà lontane, ma rivendicare i suoi avi rappresenta un segno di vicinanza all’elettorato americano poiché si stimano che circa 30 milioni di persone negli Stati Uniti, ovvero un decimo della popolazione, rivendichi origini irlandesi. La storia d’Irlanda è segnata dagli accordi del Venerdì Santo, nei quali hanno avuto un ruolo centrale gli Stati Uniti e la presenza di Joe Biden ne è una prova: il negoziato avvenne grazie all’intervento degli Stati Uniti, al tempo il presidente era Bill Clinton, Biden era senatore. Era Venerdì Santo il 10 aprile 1998, giorno in cui fu firmato il Good Friday Agreement a Belfast, il quale pose fine a circa trent'anni di conflitto a bassa intensità in Irlanda del nord tra unionisti e indipendentisti. Gli accordi del Venerdì Santo vennero firmati tra il Regno Unito, nella persona del premier Tony Blair, e l'Irlanda, rappresentata dal Taoiseach, cioè dal primo ministro, Bertie Ahern, che ponevano fine ai cosiddetti Troubles, che avevano causano la morte di almeno 3600 persone. Belfast è stata devastata dagli scontri tra l'esercito inglese, gli Unionisti e i militanti dell'IRA, l'Irish Republican Army. L’Accordo, in cui Dublino riconosceva la sovranità britannica sull’Ulster e Londra non chiudeva la porta a una potenziale riunificazione dell’isola, fu poi ampiamente confermato dal referendum in cui il SÌ vinse con il 71.12% dei voti in Irlanda del Nord e il 94% nella Repubblica d’Irlanda. Gli accordi non segnarono l'inizio della pace ma di un processo di pace che va avanti fino ad oggi. L’IRA ha deposto ufficialmente le armi nel 2005, definendo cessata la lotta, ma Belfast è ancora oggi divisa da muri e cancelli denominati linee di pace: lunghi fino a 4 km e alti fino a 8, separano le zone in cui risiedono i cattolici e i protestanti. L’Irlanda del Nord ancora non riesce a fare pace con il suo passato e parlare di IRA è tutt’ora attuale. Ad aggravare la questione è stata la Brexit. l’Irlanda del Nord ha votato per il 55,8% per rimanere nell’Unione Europea. Infatti, un elemento determinante nel facilitare la pacificazione è stata la comune appartenenza di Irlanda e Regno Unito all’Unione europea. Lo stesso Biden, durante il suo intervento all’Università di Belfast ha definito la Brexit “una minaccia per gli accordi del Venerdì Santo”. A tale proposito è stato firmato un protocollo che prevede controlli doganali per le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna, in modo che siano conformi alle regole Ue e possano circolare liberamente anche in Irlanda. Lo scorso 27 febbraio, il premier britannico Rishi Sunak e la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, hanno concordato la Cornice di Windsor, una nuova intesa che prevede un corridoio verde per le merci destinate alla sola Irlanda del Nord e uno rosso, con controlli doganali, per quelle destinate all’Irlanda. Il Dup, principale partito protestante nordirlandese, intransigente sulla questione, ha boicottato la formazione di un governo condiviso, senza il quale l’amministrazione locale non può esistere, prolungando così uno stallo che va avanti dalle elezioni del maggio 2022. La questione Brexit potrebbe aprire uno spiraglio di un referendum per unificare l’isola, già ipotizzato al tempo degli accordi e sempre più probabile in futuro ma ancora poco realistico oggi. 
 
di Daniele Leonardi
 
 

Iran: avvelenamento selettivo governativo o complotto bottom-up?

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Da novembre 2022 a oggi, 230 scuole iraniane sono state prese di mira e migliaia di studentesse sono state esposte a sostanze irritanti e nocive per la loro salute. I primi casi sono stati registrati nella città Santa di Qom, nonché il maggior centro di studi religiosi sciiti dell’Iran. Le studentesse colpite hanno sofferto di svenimenti, nausea, senso di soffocamento e altri sintomi nell’istante seguente la propagazione di odori ritenuti sgradevoli e anormali; quindi, si tratta di avvelenamenti attraverso la propagazione area di sostanze tossiche. Alcune di loro sono state ricoverate in ospedale e hanno rischiato di perdere la vita. 
Ad oggi, non vi sono prove evidenti che possano evidenziare un legame tra i suddetti fatti e il governo “dittatoriale” iraniano. Tuttavia, non è sicuramente una coincidenza che questi casi si siano registrati in un contesto già fragile e poco dopo le proteste pubbliche sviluppatosi a seguito della morte di Mahsa Amini, donna simbolo della condizione femminile e della violenza esercitata contro le donne sotto la Repubblica islamica dell'Iran. La condizione femminile è sempre stata un tema fragile in questo Paese dove le donne risultano totalmente sottomesse all’uomo. 
Tutta questa situazione ha causato un dibattito globale riguardo l’attribuzione di responsabilità. Un'ipotesi molto diffusa va ad attribuire la colpa dell’attacco a gruppi religiosi radicali che vorrebbero negare alle donne il diritto all'istruzione, come avvenne nel vicino Afghanistan talebano.
Secondo l’agenzia statale iraniana Irna, il 14 febbraio 2022 le associazioni dei genitori si sono riunite davanti al governatorato della città di Qom per chiedere spiegazioni, ma è stata un’operazione senza risultati. Dieci giorni dopo, il viceministro della salute Youness Panahi ha confermato che «l’avvelenamento è stato intenzionale».
A inizio marzo ci sono stati i primi arresti dei sospettati ed è stato proprio il governo di Teheran a darne comunicazione. Nonostante queste brevi notizie, non c’è chiarezza sulla reale situazione. Rimane il fatto che i presidi delle scuole hanno vivamente consigliato ai genitori di tenere a casa le figlie per non rischiare altri avvelenamenti.
Potrebbe trattarsi di un avvelenamento selettivo da parte del governo per bloccare nuove proteste e ridurre i diritti femminili o di un complotto bottom-up (dal basso verso l’alto) perpetrato da gruppi radicali per scatenare disordini e poter tentare un colpo di Stato. Le ipotesi rimangono in sospeso fino a quando le agenzie di Intelligence non riusciranno a fare luce sui fatti.
 
di Elena Pinton
 

L’intelligenza artificiale in guerra

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Il conflitto in Ucraina anticipato l'uso dell'intelligenza artificiale in guerra: la Russia, ad esempio, utilizza le cosiddette "munizioni vaganti" (o "droni kamikaze") contro l'Ucraina: un mix tra un drone "normale" e un razzo in grado di colpire un'area specifica, cercando e determinando autonomamente il bersaglio. il primo caso registrato di un sistema autonomo che ha ucciso una persona senza il coinvolgimento di un operatore, tuttavia, si è verificato nella primavera del 2020 in Libia (secondo le Nazioni Unite). Software come Chat GPT l’ha fatta conoscere al grande pubblico ma l’intelligenza artificiale non è una scoperta recente, anzi la utilizziamo quotidianamente da diverso tempo (quando usiamo Google Maps o quando parliamo con gli assistenti vociali, ad esempio). Il termine stesso di "Intelligenza artificiale" è stato utilizzato in relazione ai vari software sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ma dall'inizio degli anni 2000, l'Ia ha fatto passi da gigante. In 200 anni, gli esperti considerano quattro grandi rivoluzioni: l’introduzione delle macchine meccaniche, poi quelle elettromeccaniche, l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale. Michael Horowitz, professore all’Università della Pennsylvania, paragona l’intelligenza artificiale alla scoperta del motore a combustione interna o dell’elettricità, dividendo le sue applicazioni militari in tre categorie: la prima consiste nel permettere alle macchine di funzionare senza supervisione umana, la seconda nel processare e interpretare ampi volumi di dati, e la terza nel contribuire, o addirittura nel dirigere in prima persona, le attività belliche di comando e controllo. 
Durante il Web Summit sulle tecnologie che si è tenuto a Lisbona, Stephen Hawking ha dichiarato: “Il successo nella creazione di un AI efficace potrebbe essere il più grande evento nella storia della nostra civiltà, o il peggiore, non lo sappiamo; quindi, non possiamo sapere se saremo infinitamente aiutati dall'AI, o distrutti da essa”. Elon Musk, coinvolto inizialmente nel progetto “OpenAI”, un’azienda di intelligenza artificiale fondata nel 2015 a San Francisco, ha definito l’intelligenza artificiale “un rischio per l’umanità”. L’intelligenza artificiale è “pronta a cambiare la natura stessa del campo di battaglia del futuro”, ha dichiarato il dipartimento della difesa degli Stati Uniti nel suo primo documento strategico relativo all’intelligenza artificiale, del febbraio 2019. Nell’estate 2018 il Pentagono ha lanciato il Centro di coordinamento per l’intelligenza artificiale (Jaic) e quest’anno a marzo si è riunita per la prima volta la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale. Ha avuto luogo all’Aia, in Olanda, il primo vertice globale sull'intelligenza artificiale responsabile nel dominio militare (REAIM), che ha visto la partecipazione di rappresentanti di oltre 60 paesi, inclusa la Cina. Non è stata invitata la Russia, mentre l’Ucraina non ha partecipato. Un primo risultato è stato ottenuto con la firma di un accordo per mettere l'uso responsabile dell'IA in cima all'agenda politica, firmato dalla maggior parte dei partecipanti, confermando l’impegno nello sviluppo e utilizzo dell'IA militare in conformità con "obblighi legali internazionali e in un modo che non comprometta la sicurezza, la stabilità e la responsabilità internazionali”. L'amministratore delegato di Palantir, azienda statunitense specializzata nelle nuove tecnologie e nell'analisi di big data che ha partecipato al REAIM, ha parlato del coinvolgimento della propria azienda nel conflitto in Ucraina: “Siamo responsabili della maggior parte degli attacchi” ha detto Alex Karp di Palantir. La sua impresa sfrutta l'intelligenza artificiale per colpire obiettivi russi. Fra i servizi di Palantir la possibilità di analizzare i movimenti satellitari e i feed dei social media per aiutare a visualizzare la posizione di un nemico. Secondo Vincent Boulanin, direttore dello Stockholm Peace Research Institute (SIPRI), vi è sempre rischio teorico che il robot esegua un'azione che non ci si aspetta, noto come il “problema della scatola nera”.  è necessario insegnare ai militari a non affidarsi troppo all'Ia: non è un "robot che non sbaglia mai", ma un ordinario sistema creato dall'uomo che ha i suoi limiti e svantaggi. Vi è poi un rischio potenziale legato alla diffusione di queste tecnologie al di fuori dell’ambito militare e consegnarlo alla criminalità. 
 
di Daniele Leonardi
 

La prima guerra nel cyberspazio: un anno dopo

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Un popolo, quello europeo, abituato a vedere la guerra solo in Call of Duty, si ritrova la crudeltà del conflitto reale nei feed social dei propri smartphone, improvvisamente. Le immagini della guerra irrompono nella nostra quotidianità. I social non sono più solo il luogo di condivisione della nostra quotidianità ma diventano anche uno strumento di informazione, il media con cui Zelensky decide di costruire la sua strategia di comunicazione. La connessione diventa fondamentale non solo da un punto di vista sociale, ma anche all'interno di una strategia di propaganda. La sera del 26 febbraio il ministro della Difesa ucraino chiede aiuto a Elon Musk proprietario di Starlink, un sistema di satelliti che assicura copertura Internet anche in mancanza di infrastrutture sul suolo. Questa contromossa non prevista da Putin spariglia le carte in tavola. In questo modo l'isolamento dell'ucraino non può più avvenire, ciò a cui Putin auspicava. Il presidente russo mirava a distruggere le infrastrutture ucraine. Una svolta che arriva lontano dai campi di battaglia e assicura il racconto della guerra in diretta, al resto del mondo. In questo modo, attraverso le moderne tecnologie, la guerra ci viene restituita e documentata in tempo reale. Oltre alle comunicazioni sull’andamento del conflitto, sui social, in particolare Telegram, si possono trovare indicazioni per raggiungere i rifugi antiaerei o lasciare il paese in sicurezza, istruzioni per costruire bombe molotov, cercare parenti e amici dispersi. Ma anche tanta disinformazione e propaganda russa. La verità è un confine sottile nelle immagini che popolano i nostri feed. Una guerra che fa i conti con la verità e le fake news che circolano in rete. Viene messa in discussione l’oggettività dell’immagine, e la verità che racconta viene messa in discussione. Testate come il New York Times hanno fatto un lavoro di verifica di veridicità delle immagini che circolano in rete. La strategia del presidente russo è di isolare l’ucraina: prima avvertendo nel videomessaggio iniziale che ci sarebbero state conseguenze per chi avesse aiutato l’ucraino, poi cercando di interrompere le loro comunicazioni e successivamente isolando l’ucraina dal punto di vista energetico. Niente luci e niente riscaldamento in pieno inverno. Una guerra, che si combatte con le armi tradizionali ma anche con la comunicazione: quella di Zelensky, moderna e social, di grande impatto emotivo, e quella di Putin, novecentesca, rigida, basata sul terrorismo. Questo anno di guerra in Ucraina ci ha insegnato che una nazione non ha bisogno di possedere satelliti o avere un forte programma spaziale per partecipare e prosperare nelle guerre moderne. Meno di 24 ore dopo l'invasione dell'Ucraina, Anonymous ha dichiarato guerra alla Russia di Putin, dando il via ad una cyber-guerra. In un video postato su Twitter, il collettivo parla al mondo attraverso un uomo incappucciato e col volto coperto dalla celebre maschera di Guy Fowks. Una mobilitazione senza precedenti di hacker e cyberattivisti in ogni parte del mondo, i quali hanno messo a segno diversi colpi ma ridimensionati sempre ad episodi di breve durata. “Il cyberspazio è stato in realtà importante per tutto ciò che era prima del conflitto, tramite la propaganda, o attacchi a siti di informazioni”, ha dichiarato Stefano Mele, avvocato e membro del Comitato atlantico italiano, in un’intervista sul canale YouTube dell'esperto di sicurezza informatica e amministratore delegato di The Fool, Matteo Flora. All’inizio dell’invasione, l’Ucraina non aveva alcuna capacità spaziale nazionale. Ma la disponibilità di servizi satellitari commerciali esistenti e crescenti e di tecnologie avanzate ha drasticamente alterato l’accesso di tutte le nazioni allo spazio e quindi alla guerra moderna. Lo spazio è fondamentale per la condotta della guerra moderna, sia in termini di puntamento di precisione con armi a guida GPS, comunicazioni commerciali o sorveglianza satellitare. 
 
di Daniele Leonardi
 

Taiwan e la trappola di Tucidide

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Per gli Stati Uniti, Pechino è da tempo diventato il primo rivale. Gli Usa hanno spostato il centro della loro strategia geopolitica nell’Asia-Pacifico. Nel settembre 2015, in un discorso tenutosi a Seattle, il presidente cinese Xi Jinping ha evocato la trappola di Tucidide per esortare gli Stati Uniti e la stessa Cina ad evitare il tipico confronto dal prevedibile sbocco violento tra potenza consolidata e potenza emergente, come accadde fra Sparta e Atene. Senza andare a sindacare la bontà di tale metafora, il suo richiamo storico basta ad intendere come la tensione tra Cina e Stati Uniti negli ultimi anni sia sempre più alta. Ad accendere ancora di più la miccia, è stata la recente visita della speaker della camera statunitense Nancy Pelosi in Taiwan. Taiwan, che dà il nome all'isola di Formosa, rappresenta il corpo principale del territorio oggi amministrato dal governo di Taipei. L’isola è abitata da 23 milioni di persone, ha una posizione strategica e un'economia fiorente, tra le prime 20 del pianeta. Taiwan cerca di tutelare una indipendenza molto complessa: la Cina considera Taiwan territorio nazionale dal 1945, e vuole annetterla entro il 2049, come dichiarato da Xi Jinping, per aumentare l'influenza militare sul Pacifico. Una data non casuale, nel 1949 Taiwan si proclamò come Repubblica Popolare Cinese. Ancora oggi la Repubblica di Cina è il nome ufficiale di Taiwan. Da allora entrambe le entità affermano di essere l'unica autorità legittima dell'intera Cina, ma nel corso dei decenni successivi la quasi totalità della comunità internazionale ha riconosciuto il governo di Pechino invece che quello di Taiwan. Due Stati che affermano di rappresentare il popolo cinese. Nel mondo oggi solo 15 stati riconoscano Taiwan come stato indipendente, tra di essi non compaiono gli Stati Uniti. Gli Usa, infatti, riconoscono Pechino come depositario ufficiale della Cina, eppure continuano a sostenere Taipei in chiave anticinese. Mentre il governo taiwanese continua a professare la propria autonomia e indipendenza dalla Cina continentale, la Cina considera l’isola una provincia ribelle da annettere. La volontà cinese provoca l'opposizione degli USA, poiché, se Taiwan dovesse essere assorbita dalla Cina, gli Stati Uniti perderebbero un baluardo piazzato a metà strada tra il Mar Cinese Meridionale e Orientale. Per questo, dopo anni di freddezza Washington è tornata ad avvicinarsi a Taiwan. Con la presidenza di Donald Trump, il governo americano ha rifornito di armi Taipei e rassicurato l’isola di tutto il sostegno militare necessario in caso di possibili minacce da parte di Pechino. Taipei punta sul sostegno militare degli Stati Uniti, i quali difendono i loro interessi economici e geopolitici. Biden ha proseguito la linea intrapresa da Trump e la visita di Nancy Pelosi ha accresciuto la tensione che intercorre tra la Repubblica Popolare cinese e la Repubblica di Cina. Apparentemente sono molti i fattori di correlazione con la situazione Ucraina-Russia, ma in realtà, ci sono profonde differenze: sembra scontato, ma la Cina non è la Russia e Taiwan non è l’Ucraina. Kiev è il sessantasettesimo partner commerciale di Washington, Taipei (capitale di Taiwan) il nono. Taiwan è la ventunesima economia al mondo ed è la patria della produzione dei semiconduttori. Nonostante le tensioni politiche e militari, nel 2021 le esportazioni di Taipei verso Pechino sono cresciute del 24,8%, raggiungendo il loro massimo storico. La questione si poggia su un delicato equilibrio che sembra vacillare sempre più: gli Stati Uniti hanno ribadito di insistere sulla risoluzione pacifica delle divergenze tra le due parti, ma hanno scelto da che parte stare. Joe Biden, nell’ottobre 2021, disse: “Se Taiwan fosse attaccata, certo che interverremmo”. Dichiarazione che va di pari passo con le esercitazioni militari pubbliche dei marines con le forze armate taiwanesi. Se una visita presidenziale costituisce un riconoscimento di fatto della sovranità del paese in cui si è ospiti, Pechino vede la visita di Pelosi, terza carica statunitense, come un tentativo di Washington di oltrepassare i contorni di quella linea rossa invalicabile. il presidente Xi Jinping ha inviato un chiaro messaggio al collega Joe Biden: “chi gioca col fuoco, finisce per bruciarsi”. La Cina tiene molto alta la tensione, ritenendo che solo aumentando la tensione sia possibile far ragionare tutti. Dal 4 agosto la Cina sta svolgendo una grande esercitazione militare con munizioni vere, cominciata non appena Pelosi ha lasciato l’isola. Il richiamo a Tucidide del presidente cinese Xi Jinping, suggerisce che molti ritengano il contesto internazionale attuale, nella sua essenza, non differente da quello di cui Tucidide scriveva, con la politica internazionale che sembra non cambiare mai.

di Daniele Leonardi

Qatargate: uno scandalo mondiale

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Lo scandalo che prende il nome di Qatargate, l’inchiesta che ha travolto la Fifa e il Parlamento Europeo, non è solo una storia di sport e corruzione. A leggere le cronache di molti giornali sembra quasi che lo scandalo sia scoppiato adesso. Le accuse di corruzione e di accordi con il Qatar nel Parlamento europeo, culminate con l'arresto della vicepresidente dell'Europarlamento, la greca Eva Kaili, e il coinvolgimento di diversi esponenti politici, anche italiani, non rappresentano una novità. Basta riprendere l'intervista dell’ex presidente della Fifa Blatter al giornale elvetico «Tagers Ainzeger il quale raccontava come tutti i vertici internazionali si fossero trovati d'accordo sul fatto che i mondiali 2022 avrebbero dovuto svolgersi negli Stati Uniti dopo quelli organizzati quattro prima in Russia: una scelta strategica a livello geopolitico. All'ultimo momento, Platini, numero uno della Uefa, puntò invece sul Qatar. Un paese senza alcuna cultura calcistica e senza infrastrutture adeguate. A far cambiare idea al tre volte pallone d’oro francese fu la pressione esercitata dal presidente transalpino Nicolas Sarkozy che aveva un accordo con il principe ereditario del Qatar, Tamin bin Hamad al-Thani. Gli sceicchi acquistarono jet da combattimento francesi per 14,6 miliardi di dollari, in cambio del voto favorevole di Platini per l’assegnazione dei mondiali in Qatar. Da lì a breve la Qatar Sports Investment che ha acquisito il PSG nel 2011.
Un accordo che andava ben oltre gli aspetti sportivi e commerciali. Il Qatar ha deciso di investire nel calcio per aumentare la sua visibilità e il suo peso all’interno dello scacchiere geopolitico mondiale. L’emirato arabo ha passato gli ultimi 15 anni a creare la nazionale perfetta a suon di oriundi, utilizzando la regola che permette di naturalizzare calciatori (che hanno superato i diciotto anni) che per cinque anni hanno giocato nel Paese e che non hanno giocato mai nella loro nazionale d’origine, selezionando ragazzi da 16 diversi paesi, in particolare dall’Africa, facendoli sfidare tra di loro nelle “Aspire Academy”, in stile reality show. Già nel 2011 alcuni alti funzionari della Fifa iniziarono a sollevare dei dubbi sulla regolare assegnazione del Mondiale del 2022. Nel 2014 la rivista Sunday Times pubblica una serie di mail e di bonifici, i quali sarebbero indirizzati ai dirigenti Fifa per sostenere la candidatura del paese arabo ai Mondiali. Non solo il mondiale più discusso, ma anche il più costoso di sempre: 220 miliardi di euro spesi dal Qatar per costruire gli stadi, ovvero oltre il 10% del PIL italiano. Le condizioni di lavoro eccessive hanno portato alla morte di oltre 6000 operai, quasi tutti di manodopera estera. I mondiali in Medio Oriente avrebbero potuto rappresentare una svolta verso la democratizzazione e invece hanno rappresentato l’espressione del potere autoritario. 
 
di Daniele Leonardi