Embedded Agency >

Embedded Junior

Una nuova leva obbligatoria

Valutazione attuale:  / 1

La novantesima radunata nazionale degli Alpini tenutasi a Treviso ha fatto da scena al dibattito sulle funzionalità di nuovi servizi di leva civili obbligatori. Una leva obbligatoria nel servizio civile, ma che in futuro potrebbe “essere allargata alle forze armate”. È questa la proposta, dai contorni ancora poco chiari, che arriva dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. Impossibile riproporre in Italia la naja, il vecchio servizio militare obbligatorio, archiviata il primo gennaio 2005, ma lo stesso ministro della Difesa Roberta Pinotti, presente alla manifestazione dell'Associazione Nazionale Alpini, ha sottolineato che “la riproposizione di una qualche forma di leva civile declinata in termini di utilizzo dei giovani in ambiti di sicurezza sociale non è un dibattito obsoleto”. Infatti l’argomento è stato toccato da molti candidati in Europa, compreso Macron. Il discorso è stato subito ripreso dal generale Claudio Graziano, per il quale il progetto “potrà essere molto utile” sia come “momento di formazione a servizi come la Protezione Civile” sia come “possibilità in futuro di allargare alle forze armate in caso di bisogno”. Forse però la Pinotti ignora che i giovani prestano già servizio civile gratuito attraverso i vari stage, tirocini, master, specializzazioni negli ospedali, e quant’altro. È davvero il caso di reintrodurre la leva obbligatoria andando ad appesantire una situazione già molto difficile per i giovani nel nostro Paese? “Non ho parlato di leva obbligatoria, ma di un progetto degli Alpini per coinvolgere i giovani al servizio civile universale”, ha poi chiarito successivamente con un tweet la ministra sostenendo di essere stata fraintesa. L’ipotesi di un ritorno a qualche forma di leva obbligatoria è un tema attuale e che vede coinvolti diversi paesi europei come la Francia o la Svezia. In Italia il dibattito continua a suon di cinguettii e di sfuriate politiche come quelle di Salvini spesso utilizzate come mero strumento di propaganda.  

di Daniele Leonardi

Musica e guerra

Valutazione attuale:  / 1

“Se volete conoscere un popolo, dovete ascoltare la sua musica”, così diceva il filosofo greco Platone per indicare il fatto che si può ricostruire la storia politico-militare di un popolo attraverso i suoi canti, la musica, infatti, ha la capacità di unire intere popolazioni sotto un unico stendardo e di contribuire alla formazione di una identità nazionale. Per questo motivo essa è sempre stata fondamentale nelle operazioni militari per spronare i soldati e indurli a aderire totalmente alle cause di un conflitto. Si pensi, ad esempio, alle innumerevoli canzoni e inni nati durante la guerra civile americana, ai canti partigiani o ancora al fatto che durante la seconda guerra i soldati tedeschi dovessero ascoltare la cavalcata delle valchirie per affrontare con impeto il nemico per bombardare una città con adrenalina. Oggi, invece, cosa ascoltano i soldati impegnati sui vari fronti aperti nel mondo? E la musica deve ancora incitare o deve piuttosto aiutare i militari ad evadere dalle brutture della guerra? Purtroppo la musica è ancora il magico strumento grazie al quale un uomo viene spronato a fare carneficine di altri uomini. I testi che prediligono i soldati di oggi sono, infatti, violenti. Si predilige la musica metal, particolarmente aggressiva o il rap di Eminem, energico e veloce.

di Cristiana Basilone

Yemen, una guerra dimenticata

Valutazione attuale:  / 1

La vita oggi in Yemen è impossibile: acqua corrente ed elettricità scarseggiano, il cibo non si trova. È lungo l’elenco dell’orrore in Yemen: l’82 per cento degli yemeniti ha bisogno di assistenza umanitaria per poter sopravvivere. Oltre 1.000 bambini uccisi nei raid e oltre 740 morti nei combattimenti. Dopo due anni di sanguinosa guerra, lo Yemen sta morendo, non solo di bombardamenti, ma anche di fame. Anche prima della guerra, il 90% degli alimenti di base era importato. Da allora, i sauditi hanno bombardato ogni impianto di produzione alimentare. Non c'è più alcun modo di importare cibo a Sana’a ed in altre aree assediate. Secondo le strutture Onu sul Paese incombe “un grave rischio di carestia”: quasi 7,3 milioni di yemeniti avrebbero bisogno di un urgente aiuto alimentare e oltre 430.000 bambini soffrono di malnutrizione grave. Di fronte a questa situazione ormai insostenibile Amnesty International, Oxfam, Movimento dei Focolari, Fondazione Banca Etica, Opal Brescia, Rete Italiana per il Disarmo hanno deciso di scrivere al Ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale Angelino Alfano per sollecitare un ruolo positivo dell'Italia nella guerra che non si limiti solo a lenti quanto inutili passi diplomatici. Occorre porre fine immediatamente al trasferimento di sistemi militari e munizionamento verso la coalizione guidata dall’Arabia Saudita, per prevenire ogni rischio di commettere o facilitare serie violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani in Yemen. Sette giorni fa si è svolta una protesta a Sana’a, capitale dello Yemen, fatta da circa 1 milione di persone contro la guerra che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti stanno conducendo contro di loro da due anni. New York Times e Washington Post non hanno riportato la cosa (tanto meno i giornali e le TV italiane). Gli Stati Uniti forniscono pianificazione, intelligence, spazio aereo e munizioni ai bombardamenti sauditi. Senza il sostegno americano questa guerra non ci sarebbe affatto. Il principale supporto fornito dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita riguarda il materiale militare e le attività di intelligence. Tra il 2011 e il 2015 l’Arabia Saudita è stata il maggior acquirente di armi statunitensi. Questo mercato copre circa il 9,7% delle esportazioni di Washington. Il coinvolgimento degli Usa in Yemen è stato incentivato anche dalla volontà di continuare la guerra al terrore: sul territorio dello Yemen, infatti, sono presenti sia Al-Qaeda che l’Isis.

di Daniele Leonardi

Caso Regeni, la forza dei genitori

Valutazione attuale:  / 1

Quattordici mesi dopo l’assassinio di Giulio Regeni, Paola Deffendi, madre del giovane ricercatore, insieme a suo marito Claudio Regeni non si perdono d’animo. Ad oggi mancano degli elementi importanti come i video di vigilanza della metropolitana del Cairo della sera del 25 Gennaio 2016 e le copie del fascicolo processuale dell'indagine egiziana sulla morte di Giulio, che, il 6 dicembre scorso, il procuratore Sadek, durante un incontro con i Regeni, si era impegnato a consegnare a stretto giro. Nonostante tutto i genitori non si abbattono e a testa alta cercano di andare fino in fondo per scoprire la verità. Nel frattempo però hanno avanzato due richieste in particolare. “Non solo chiediamo che il nostro ambasciatore non torni al Cairo ma ci auspichiamo che altri Paesi, europei e non solo, facciano lo stesso”; inoltre lanciano un appello al Papa affinché si ricordi di Giulio quando il prossimo 28 aprile farà un viaggio in Egitto. “Noi siamo sicuri, proprio perché l’abbiamo incontrato, dichiara la madre -riferendosi al Papa- che non potrà in questo viaggio non ricordarsi di Giulio”. Anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dice la sua riferendo che “l'impegno deve continuare in tutte le forme possibili, giovandosi dell'esemplare rigorosa e sobria sollecitazione e collaborazione dei familiari di Giulio che accrescono così l'autorità morale di ogni ricerca e iniziativa di parte italiana".

di Alice Di Domenico

L'ultimo muro ad Est

Valutazione attuale:  / 0

La Nord Corea o Repubblica Popolare e Democratica di Corea è l’unico paese al mondo ad essere governato da una sorta di monarchia di stampo totalitario e comunista. Il paese dove vige l’ideologia Juge si è chiuso ancor più in se stesso dopo il crollo dei regimi del patto di Varsavia. Il paese fondato dopo la fine della seconda guerra mondiale da Kim Il Sung, negli anni 50 vive una guerra con il gemello occidentale il Sud-Corea conclusasi con le risoluzioni del 38 parallelo. Da allora la sua popolazione vive in uno “stato-carcere”. Le comunicazioni con il mondo sono bandite, è severamente vietato lasciare lo Stato, buona parte della popolazione presenta gravi condizioni di malnutrizione,vige una legge denominata “Punizione delle Tre generazioni” in cui si è condannati anche per i reati commessi da un proprio avo. Al vertice di questo macabro Stato vi è Kim Jong-Un salito al potere nel 2011, figlio del precedente dittatore Kim-Jong Il e nipote del fondatore dello stato Kim-Il Sung. L’accessibilità alla nazione è quasi impossibile. Per gli occidentali innanzitutto è necessario un visto da parte dell’ambasciata nord coreana. Il In seguito dopo essersi imbarcati per la Cina all’aereoporto di Pechino, prima della partenza per Pyongyang, si viene privati del passaporto che sarà poi riconsegnato soltanto al ritorno. Arrivati nel paese, i turisti sono scortati da una guida che parla la loro lingua. E’ vietato lasciare la guida ed il gruppo, le fotografie vengono controllate da funzionari del regime e se necessario cancellate.

di Michelangelo Fanelli

Le nuove guerre ambientali

Valutazione attuale:  / 1

Da oltre 70 anni, da quel famoso 2 settembre 1945, la parola guerra mondiale non sembra più caratterizzare i nostri giorni, o meglio, non fa più parte del nostro immaginario collettivo. Tuttavia questa teoria resta solo una nostra percezione, dal momento che ad essere terminati non sono i conflitti, ma solo le antiche strategie belliche. Non scendere più in trincea con l’elmetto non significa vivere in un’epoca di pace. Alla base dei recenti conflitti vi è la lotta per le risorse: Il petrolio alimenta le ricchezze di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar. Più in generale il petrolio, e la rincorsa alle risorse limitate, sono il male dei nostri giorni. Il fenomeno delle guerre ambientali insieme alla tecnologia militare si arricchisce in diversi frangenti del cosiddetto “denial of information”, ossia la negazione delle informazioni o la mancata condivisione. «Negare l’informazione è un atto di guerra fondamentale» denuncia il generale Fabio Mini. Un esempio pratico è il devastante terremoto e maremoto di Sumatra del 2004, nel quale persero la vita oltre 100.000 persone. Si parla di uno dei più catastrofici disastri naturali dell’epoca moderna, ma possiamo davvero parlare di disastro naturale? Restano molti dubbi sul mancato avvertimento dell'imminente arrivo dell'onda mortale, soprattutto in India e Sri Lanka, dove ha provocato 55.000 morti. Se le popolazioni costiere fossero state avvertite in tempo sarebbe bastato uno spostamento di cinquecento metri verso l'interno per non cadere vittime dello tsunami, dal momento che l'onda ha impiegato circa tre ore ad attraversare il Golfo del Bengala prima di infrangersi violentemente contro le coste indiane e singalesi. Oggi parliamo di guerre ambientali, ma quali sono le nuove strategie adoperate nei nuovi conflitti? Innanzitutto l’intenzionale modifica all’ambiente, il possesso dell’ambiente, del meteo, il condizionamento dell’economia e dei cicli politici. Quella che caratterizza i giorni nostri è una guerra asimmetrica, preventiva, che si combatte nei mercati finanziari. Non siamo più nel Novecento, ed oggi “Europa” non significa più 5 potenze mondiali, ma l’Europa è una e sola, e la pace che contraddistingue da 70 anni l’Europa non è da sottovalutare, ma non bisogna credere di vivere in un’isola felice, perché viviamo nel tempo della guerra, anche se non la stiamo combattendo direttamente in casa nostra.

di Daniele Leonardi

Roma nel mirino dell'Isis

Valutazione attuale:  / 0

Il 27 febbraio è stata presentata al Parlamento la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza. I dati riportati riguardo la minaccia terroristica in Europa non lasciano ben sperare per l’Italia, che è chiaramente al centro del mirino del presunto Stato Islamico. Il 26 luglio 2016 si è verificato il primo attacco diretto alla cristianità: due cittadini francesi, Adel Kermiche e Abdel Malik Petitjean, dopo aver giurato fedeltà all’ISIS, hanno fatto irruzione in una chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray vicini Rouen in Francia uccidendo un parroco e prendendo 5 ostaggi. A settembre è stato pubblicato il primo numero della rivista Rumiyah (“Roma” in arabo) che pone la capitale italiana come meta di DAESH e contenente una rubrica dedicata alle tattiche terroristiche, in cui si indicano gli obiettivi da prediligere e i diversi mezzi offensivi da utilizzare: “…se si decide di investire le vittime con un veicolo, è bene sceglierne di grandi dimensioni per massimizzare gli effetti…” La tattica qui citata è stata utilizzata pochi mesi dopo, il 19 dicembre, a Berlino, dal tunisino Anis Amri, che ha ucciso 12 persone investendole appunto con un autoarticolato nell’area pedonale destinata al mercatino di Natale: un attacco alla festività più sentita da tutti i cristiani. L’attentatore è poi fuggito proprio in Italia dove è deceduto, a Milano, in seguito a uno scontro a fuoco con due agenti di polizia. “Tutte le strade portano a Roma” recita un vecchio proverbio ed è ormai ovvio che anche la strada dell’ISIS arriva all’Urbe.

di Adele Di Lullo

Renzi - Gentiloni e la crescita dell'export di armi

Valutazione attuale:  / 1

L’Italia sotto la guida del ministro Gentiloni ha triplicato le licenze d’esportazione d’armi. In altre parole, nessun diniego e poche restrizioni pur di far cassa. Di fronte a tutto ciò, le risposte giunte da Paolo Gentiloni si sono dimostrate del tutto insufficienti, se non addirittura approssimative. L’ex ministro degli Esteri ora attuale premier Gentiloni, di fatto, ha ammesso il traffico di armi tra Italia e Arabia Saudita tra il 2011 e il 2015, sostenendo che tutto ciò sia stato legale. Nonostante la legge, sono innumerevoli i carichi di armamenti partiti dalla Sardegna e diretti verso l’Arabia Saudita. Già nel 2015 l’Arabia attaccava lo Yemen con bombe prodotte nell’isola italiana. Una guerra, quella tra Arabia e Yemen, di cui nessuno si occupa e che sta causando migliaia di morti. Non sono solo le bombe ad uccidere, ma anche l’indifferenza, l’omertà e la poca trasparenza. A nulla sono dunque valse le reiterate richieste all’ex governo Renzi delle associazioni della Rete italiana per il disarmo presentate. Di questa mancanza di trasparenza stanno approfittando, oltre che le aziende del gruppo Finmeccanica, soprattutto le banche estere. “E tra queste in modo particolare quelle banche, come Deutsche Bank e BNP Paribas, che non hanno mai emanato delle direttive per il controllo delle operazioni finanziarie sugli armamenti convenzionali e sulle armi leggere” così come dichiarato da Giorgio Beretta dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia. Sono 5.000 le bombe partite dalla Sardegna e inviate in Arabia Saudita e utilizzate dalla Royal Saudi Air Force per bombardare lo Yemen. Per non parlare degli oltre 3.600 fucili della Benelli inviati lo scorso anno alle forze di sicurezza del regime di Al Sisi in Egitto. Infine dalla “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” nel 2015 i valori come anticipato all’inizio sono più che triplicati ed hanno raggiunto la cifra record dal dopoguerra di oltre 8,2 miliardi di euro.

A cura degli allievi della Scuola di Giornalismo per Ragazzi sezione di Riccia (Benedetta Rubbio, Cristiana Basilone, Daniele Leonardi, Alice Di Domenico)

Cina-Usa e la geopolitica dei mercati

Valutazione attuale:  / 0

A partire dal gennaio 2016 tutti i titoli del settore bancario del vecchio continente crollarono per via delle proprie sofferenze sui crediti, facendo segnare minimi storici ai più grossi istituti bancari italiani e non. Di conseguenza gli indici europei passarono un periodo di depressione segnando i nuovi minimi dell’anno, seguiti dai principali indici americani e asiatici. Nonostante tutto però,c’è stata una lenta ripresa sui mercati europei; i principali titoli, esclusi quelli bancari, hanno riacquistato il loro valore sul mercato, ed i listini americani hanno addirittura segnato nuovi massimi storici. A cosa è dovuto questo periodo di trend altamente positivo visto soprattutto sui mercati americani? C’è un vero motivo di fondo? Anche in questo caso, la fonte più credibile al quale possiamo attingere è il passato. La storia infatti insegna che nelle recenti crisi, il mercato è crollato verso ottobre-novembre, o comunque in vista di eventi particolarmente importanti come le elezioni presidenziali o la chiusura del terzo trimestre USA, di conseguenza quest’anno potrebbe risultare molto delicato ed il momento di grande positività, sui mercati americani, a cui abbiamo assistito, altro potrebbe non essere che il punto di arrivo di un’enorme bolla finanziaria in procinto di esplodere. Quella di cui stiamo parlando è una bolla colossale che ha alla base il mercato del debito statunitense. Si tratta di un processo innescato diversi decenni fa, ma che sta venendo a galla solamente da poco. Il primo segno è stato dato dal crollo dei mercati cinesi nel 24 agosto del 2015, giornata rinominata “lunedì nero”. Durante il mese di agosto ci furono le prime debolezze, ma quel lunedì fu la giornata più negativa, con crolli significativi su tutte le principali piazze mondiali, lasciatesi trascinare dal mercato asiatico. Secondo il parere degli economisti, il mercato cinese cadde per l’esigenza di sgonfiare le quotazioni dei titoli azionari che in precedenza erano altamente sovraprezzate, fino a sessanta volte il loro reale valore. Nonostante questa spiegazione apparentemente logica, il vero motivo è molto più grande. Negli ultimi anni la Cina ha avuto aumenti del PIL esponenziali, addirittura numeri a doppie cifre, a cui erano ormai abituati sia il governo cinese che gli investitori. Nel 2015 questo non accadde, o meglio, ci fu comunque un aumento elevato, ma non abbastanza da soddisfare le aspettative del mercato ed i piani del governo. Quest’ultimo allora, non ritrovandosi con i conti fatti ad inizio anno, ha dovuto metter mano alle proprie riserve, ovvero un tesoretto di 3,8 milioni di dollari, da far invidia anche agli Stati Uniti. Cifra accumulata in tanti anni e più che dimezzata in appena un mese. A questo punto si può dedurre che l’amministrazione cinese avesse già previsto di arrivare ad una tale situazione, mettendo preventivamente un’ingente somma da parte per farvi fronte. Ricordiamo che la Cina è uno dei paesi che importa la più grande quantità di materie prime in tutto il mondo: ferro, zinco, oro, argento, metalli vari, gas naturale ma soprattutto petrolio ed acciaio, infatti tutte le più grandi e principali società del settore sono cinesi oppure operano direttamente con la Cina che ne è il maggior acquirente su scala globale. Ma la materia prima allo stato puro proviene dai Paesi emergenti, come ad esempio l’Arabia Saudita con il petrolio, e la maggior parte delle entrate di questi paesi in via di sviluppo proviene proprio dalla vendita di queste materie ad altri paesi, in primis la Cina. Questo vuol dire che se lo stato asiatico in questione non ha più soldi per acquistare le materie prime dai paesi produttori, questi avranno economie più deboli perché private del commercio che rappresenta quasi interamente il loro sistema economico, e ciò sarà la conseguenza di meno introiti che a sua volta porterà a non avere più soldi per pagare i debiti, un vero e proprio collasso che nel peggiore dei casi potrebbe concludersi con un default. Ma debiti nei confronti di chi e, soprattutto, perché stiamo parlando dei paesi emergenti e cosa hanno in rapporto con l’America? Perché proprio i paesi emergenti sono i maggiori detentori del debito nei confronti degli Stati Uniti, si tratta di cifre stratosferiche: 117 miliardi di dollari da parte dell’ Arabia Saudita, per non parlare dei 1000 miliardi di dollari ciascuno in mano a Cina e Giappone. E questo è il vero fattore principale, perché l’America è un Paese che di fatto non produce nulla e la sua economia è basata quasi interamente sul mercato del debito, se questi paesi non hanno più entrate, allora non saranno in grado di pagare le loro passività, con il conseguente crollo del mercato americano. Ma non finisce qui, perché a questo punto gli Stati Uniti potrebbero stampare più carta moneta a cui succederà una grossa inflazione seguita dalla svalutazione del dollaro. Quindi meno sussidi alle banche da parte del governo ed una moneta che vale molto meno. Inutile dire come tutto questo avrebbe effetti devastanti sull’intera economia globale. Lo scenario di cui abbiamo appena parlato è plausibile dato che le riserve cinesi prima o poi saranno destinate a finire. E se i mutui subprime, nel 2008, costituivano una piccola parte del mercato statunitense, la fetta del mercato del debito è molto più ampia, il tutto amplificato da un imminente aumento dei tassi che costituirebbe solo un brusco acceleratore di un sistema corrotto avuto inizio già decenni fa e destinato ad esplodere.

di Gabriele Calabrese

L'avanzata su Mosul

Valutazione attuale:  / 0

Petrolio nelle trincee. Nubi tossiche. Donne e bambini che diventano "scudi umani". Questo è il quadro drammatico della situazione che si presenta nel nono giorno dell' offensiva anti-Isis. I jihadisti, che vedono il nemico sempre più in casa propria, cercano ogni possibile stratagemma per difendersi. Mosul, infatti, città simbolo da cui due anni fa Abu Bakr al-Baghdadi si autoproclamò califfo, è sempre meno nelle mani dei miliziani dell'Isis. La notizia del giorno, difatti, è la liberazione della cittadina di Kramlis da parte dei Peshmerga. Le milizie curde, dopo alcuni giorni di assedio, sono riuscite a riprendere il piccolo centro ad est di Mosul, favorendo ulteriormente l'avanzata lungo la direttrice orientale insieme all'esercito iracheno. L'ultimo obiettivo è quello di riacquisire il controllo sulla parte occidentale, ancora nelle mani dell'Isis. Intanto il bilancio di questa missione, secondo le stime del Ministero degli Sfollati e delle Migrazioni, è di oltre 3300 sfollati provenienti dai centri intorno a Mosul mentre le forze di sicurezza irachene affermano di aver liberato 74 villaggi e città dal controllo dei jihadisti. 772, invece, sono i miliziani dell'autoproclamato califfato che l'esercito afferma di avere ucciso nel corso delle operazioni.

di Pietro Ferretti

La lobby dei droni e la base di Sigonella

Valutazione attuale:  / 0

Mentre i politici italiani pensavano a comprare gli F35, all’orizzonte si creava la lobby dei droni. L’ F-35 in Italia ha incassato un trattamento vergognosamente favorevole. Tecnologicamente e operativamente gli F-35 e i droni sono ugualmente vulnerabili. L'F-35 è inaffidabile, il pilota deve guardarsi dal suo stesso mezzo. I droni invece anticipano una guerra del futuro fatta di robot invisibili che scelgono da soli contro chi e in che modo combattere. Nella guerra all’Isis da parte degli USA, il comandante della base di Sigonella, Cristopher Dennis, sa di poter contare su una flotta aerea a disposizione non indifferente. Si tratta soprattutto di droni. Da un lato i ricognitori strategici Global Hawk mentre dall’altra parte i temibili Reaper carichi di bombe. I media non lo hanno detto ma guarda caso dopo il recente accordo tra Washington e Roma per l’impiego di droni nel territorio libico, i miliziani dell'Isis hanno ucciso due onesti tecnici italiani come riportato nell’articolo di Lettera 43 “Usa e Italia nella guerra all’Isis”. Si delinea così un quadro preoccupante con da un lato gli Usa che vogliono intensificare la lotta all’Isis in Libia e dall’altro l’Italia che teme ritorsioni sul suolo italiano. “L’Italia potrà fornire fino a circa cinquemila militari. Il sostegno degli Usa sarà l’intelligence.” Queste sono le dichiarazioni riportate al Corriere della Sera dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, John R. Phillips. Washington presenta il conto per il sostegno all'Italia nella guida della coalizione anti-Isis in Libia con l’obiettivo di far nascere una nuova guerra nel modo più subdolo.

di Giorgia Gambone e Maria Chiara Chiaromonte

Archivio Disarmo: export armi e ruolo dell'Italia

Valutazione attuale:  / 0

Quando c’è di mezzo il business nessuno si ricorda più della strage di Parigi, delle Torri Gemelle, di Al Qaeda e neppure dell’Isis. L’uso delle armi viene giustificato sostenendo che esso è finalizzato ad “esportare la democrazia” o arginare l’avanzata jihadista. Queste armi sono quasi tutte prodotte in Occidente. I settori più rappresentativi dell’attività d’esportazione sono l’aeronautica, l’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica) e i sistemi d’arma (missili, artiglierie). L'Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD) è riuscito a raccogliere alcuni dati e informazioni sull’export degli armamenti. L’Italia ad esempio è il secondo esportatore mondiale di armi leggere (pistole, fucili a pompa, mitragliatori, munizioni). Dai dati è emerso che tra i primi 10 posti per valore contrattuale delle operazioni autorizzate, troviamo: Agusta Westland, Alenia Aermacchi, Selex ES, GE AVIO, Elettronica, Oto Melara, Piaggio Aero Industries, Fabbrica d’armi P. Beretta, Whitehead Sistemi Subacquei e IVECO. Bisogna notare che la maggior parte di queste aziende appartiene al Gruppo “Finmeccanica”, gruppo che raggiunge il 64,69% del valore contrattuale totale delle autorizzazioni. I mezzi usati attualmente per i bombardamenti di Afghanistan, Iraq, Libia e Siria sono per lo più aerei. Si tratta di un mezzo incapace di porre fine al conflitto perché, come ribadisce  Maurizio Simoncelli, vicepresidente e cofondatore dell’IRIAD, portano alla morte di molti civili innocenti, soprattutto bambini. In un mese raid russi hanno ucciso 400 civili, di cui ben 97 bambini (dati riferiti da una Ong siriana).  Non è solo l’Europa ad essere a rischio. La strage di Parigi è stata un episodio tragico, ma va anche detto che  nel 2014 il 90% delle vittime del terrorismo sono state registrate fuori dall’Europa; ad esempio Boko Haram, l’organizzazione di estremisti islamici che opera in Africa, ha fatto vittime più dell’Isis.  La situazione non è meno grave in Pakistan, dove a causa dello scontro tra musulmani moderati e musulmani estremisti  400 bambini sono stati massacrati in una scuola pakistana. In Afghanistan sono stati registrati 25mila morti di civili dall’inizio dell’intervento ad oggi. Fa riflettere la dichiarazione lasciata da Simoncelli durante un’intervista: “L’Occidente si pone il problema delle sue vittime, ma non si pone il problema delle ‘vittime di serie B’ degli altri paesi”. Una frase tanto cruda quanto vera.

di Simona Bitri

Armamenti italiani in Medio Oriente

Valutazione attuale:  / 0

In questo periodo si sente parlare del rallentamento della crescita globale, delle turbolenze e debolezze dei mercati finanziari e di una possibile recessione. Assieme a queste ipotesi sono affiancati dati macroeconomici che evidenziano come effettivamente ci sia stato un calo nelle vendite al dettaglio, o nella fiducia dei consumatori e sulle aziende, nonché un calo dell’import/export. E proprio riguardo quest’ultimo dato, finora non si è parlato, o tenuto conto, di dati riguardanti un altro aspetto: quello delle vendite di armamenti di natura italiana in stati attualmente in guerra. In effetti si parla di numeri a doppie cifre in quanto l’export di armamenti militari italiani è salito del 16% nell’ultimo anno. Si stima che siano state spedite armi per un totale di 2,7 miliardi di euro, di cui 809 milioni in Medio Oriente e, non a caso, chi ne fa maggiore domanda è l’Arabia Saudita. Nella lista dei sauditi figurano caccia Eurofighter, missili IRIS-T che sono stati usati in Yemen per bombardare aree e strutture civili come ospedali e scuole, il tutto coronato da un ampio arsenale di bombe, veicoli e velivoli. Infatti ultimamente si è stigmatizzato sulla fornitura da parte dell’Italia di armi e territori attualmente in conflitto, violando palesemente la legge 185 varata nel 1990 che vieta espressamente le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso paesi in stato di conflitto armato. Eppure il ministro della Difesa, Roberta Pinotti continua a ribadire che è tutto regolare e che l’Italia venda armi a norma di legge. Ma per quale ragione a partire dal 2014 l’Arabia Saudita è diventato il più grande paese importatore di materiale da difesa? Il motivo sta nei disastrosi bombardamenti che il paese sta conducendo nello Yemen con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei ribelli sciiti houthi e sostenere il presidente yemenita Mansour Hadi minacciato dalle forze sciite sopracitate, che a loro volta sono alleate con l’Iran. Insomma le nazioni europee, in primis l’Italia, possono considerarsi contributrici di quello che viene definito un “disastro umano” ed i numeri parlano chiaro, in meno di un anno sono circa 35.000 le persone rimaste uccise o ferite, in gran parte civili, senza contare gli oltre 700 bambini uccisi. Inoltre, come già detto, con gli incessanti bombardamenti vengono colpite per lo più infrastrutture sociali, spesso gestite da medici senza frontiere con l’inevitabile conseguenza che rimangano coinvolti anche quest’ultimi. Sembra, però, che giovedì 25 febbraio si sia arrivati ad una svolta, infatti la commissione europea ha votato, con 359 voti favorevoli, un embargo da porre alle armi inviate all’ Arabia Saudita invitando il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ad iniziare un percorso verso il suo concreto raggiungimento. Il provvedimento è stato preso proprio per far fronte alla chiara violazione dei diritti umani e risolvere la critica situazione in Yemen. Tra le richieste al Consiglio degli Affari Esteri ed al Parlamento Europeo vi è anche quella di sospendere immediatamente tutti i trasferimenti di armi e qualsiasi supporto militare all'Arabia Saudita e ai suoi alleati, soprattutto dopo che 26 degli Stati Membri, l’Italia fra i primi al mondo, hanno sottoscritto il trattato internazionale sugli armamenti (ATT). Inoltre il 16 febbraio un folto gruppo di persone della città di La Spezia, rappresentati da 45 cittadini firmatari, hanno presentato un esposto sulle forniture di armi ai Sauditi dando il compito ad una commissione di verificare se davvero non è stata violata la legge 185 in riferimento al fatto che tra aprile e settembre a La Spezia siano partiti verso l’Arabia Saudita armamenti e munizioni per un valore di 21 milioni di euro. Il conflitto ha avuto inizio a marzo 2015 e negli ultimi mesi sono almeno sei le spedizioni di bombe partite dalla sola Italia verso gli Emirati Arabi Uniti.

di Gabriele Calabrese

Abbiamo tutti armato il presunto "Stato islamico"

Valutazione attuale:  / 0

Secondo Amnesty Internetonial in questi decenni sono giunte in mani sbagliate un’enorme quantità di armi provenienti da armamenti cinesi, americani, russi e anche europei. "La quantità e la varietà delle armi usate dal presunto 'Stato islamico' è l'esempio da manuale di come commerci irresponsabili di armi alimentino atrocità di massa" - ha dichiarato Patrick Wilcken, ricercatore dei controlli sulle armi. “La scarsa regolamentazione e la mancata supervisione sull'immenso afflusso di armi in Iraq a partire da decenni fa sono state la manna dal cielo per il presunto 'Stato islamico' e altri gruppi armati, che si sono trovati a disposizione una potenza di fuoco senza precedenti"- ha commentato Wilcken. Quando lo Stato Islamico ha conquistato Mosul, la seconda città dello stato iracheno, è entrato in possesso di un armamento formidabile e di veicoli da guerra di produzione euro-americana. La conquista di Mosul e le sue armi ha comportato la riuscita di attentati, stupri, razzie, torture e rapimenti. Negli anni ’70 e ’80 durante la guerra contro l’Iran, almeno 34 paesi fornirono armi all'Iraq, ma 28 di questi le inviarono anche all'Iran. Dopo il 1990, quando l’Iraq invase il Kuwait e il 2003, quando ci fu la diretta invasione statunitense, l’embargo di armi irachene crebbe enormemente.  Alla fine del 2014, erano state inviate munizioni e armi leggere per un valore di 500 milioni di dollari. Le forniture sono proseguite, nell'ambito del Fondo del Pentagono per l'equipaggiamento e l'addestramento dell'Iraq (valore: 1,6 miliardi di dollari), comprendendo tra l'altro 43.200 fucili M4. Amnesty International ha richiesto a tutti gli stati di stabilire un embargo totale nei confronti del governo siriano e dei gruppi armati d'opposizione implicati in crimini di guerra, crimini contro l'umanità e altre gravi violazioni del diritto internazionale. Gli stati dovranno inoltre autorizzare i trasferimenti solo dopo aver compiuto un rigoroso accertamento dei rischi. Infine il rapporto di Amnesty International, come sottolineato anche da Rete Disarmo, ha evidenziato come anche l'Italia possa aver giocato un ruolo non indifferente nell'armare lo "Stato islamico", rifornendo durante la guerra del 1980-88 sia l’Iraq che l’Iran.

di Giuseppe Terone e Andrea Chiaromonte

Stop armi allo Yemen

Valutazione attuale:  / 0

Il prossimo 25 febbraio è in programma un dibattito presso la sede del Parlamento europeo a Bruxelles su una soluzione riguardante lo Yemen, comprendente anche una richiesta per lo stop di forniture di armi a tutte le parti coinvolte nel conflitto. Il bene della popolazione civile ed il rispetto delle leggi umanitarie internazionali. Sono questi gli elementi principali che, secondo oltre 20 organizzazioni non governative europee, il Parlamento Europeo dovrebbe tenere in considerazione nelle prossime decisioni riguardanti il conflitto in corso nel paese arabo. Tutto ciò è riportato in una lettera che oltre 20 organismi internazionali,che si occupano di controllo degli armamenti, hanno inviato oggi ai presidenti e vicepresidenti di tutti i gruppi presenti al  Parlamento europeo. Alla luce della ormai chiaramente documentata estensione delle violazioni di diritti umani è evidente come gli Stati Membri dell'Unione Europea non debbano più permettere spedizioni di materiale che possa essere usato nel confitto nello Yemen. Nell'elenco c’è anche la Rete Italiana per il Disarmo in quanto partner italiano dello European Network Against Arms Trade. Nella lettera, si sottolinea come gli Stati Membri UE che continuano a trasferire armamenti verso l'Arabia Saudita stanno chiaramente violando la Posizione Comune sul controllo dell'export di armamenti. Inoltre per quanto riguarda l'Italia, anche la legge 185/90.

di Giorgia Gambone e Maria Chiara Chiaromonte
 

Italia-Egitto: il cinico traffico di armi contro i diritti umani

Valutazione attuale:  / 0

La recente morte in Egitto del ricercatore friulano Giulio Regeni, le cui circostanze sono ancora poco chiare, ha lasciato l’opinione pubblica italiana senza parole. E’ necessario scoprire la verità (lo stesso Ministro Gentiloni ha ribadito: “Non ci accontenteremo di verità presunte”) e, come affermato in un recente appello del presidente della Repubblica Mattarella, bisogna consegnare i responsabili alla giustizia “attraverso la piena collaborazione delle autorità egiziane”. Per raggiungere tale obiettivo è necessario far luce su quali siano i rapporti tra il nostro paese e l’Egitto. Secondo Rete Disarmo, le relazioni che legano l’Italia all’Egitto vanno contro la sospensione delle licenze di esportazione verso il paese nordafricano di armi e materiali utilizzabili a fini di repressione interna decretata nell’agosto del 2013 dal Consiglio dell’Unione Europea. Infatti, secondo le dichiarazioni di Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle Armi Leggere (OPAL) di Brescia, nonostante le restrizioni, mai revocate, stabilite dall’Unione Europea, l’Italia ha continuato imperterrita a fornire armi all’Egitto: nel 2014 ha venduto 30mila pistole alle forze di polizia egiziane e, ancora, nel 2015, ha inviato in Egitto 1236 fucili a canna liscia. Secondo Amnesty International da quando il generale Al Sisi è salito al potere, le organizzazioni per i diritti umani hanno registrato centinaia di casi di sparizioni e oltre 1700 condanne a morte, quasi tutte ancora non eseguite, senza contare che la tortura è un’arma abitualmente praticata in Egitto, sopratutto nelle carceri, nelle stazioni di polizia e nei centri di detenzione. “In questo contesto – commenta Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo – appare ancor più grave il continuo invio dall’Italia di armi verso l’Egitto: significa, infatti, sostenere direttamente l’operato delle forze di polizia e di sicurezza e fornire strumenti per poter compiere le loro brutali azioni di repressione”. Dulcis in fundo, Martina Pignatti Morano, presidente dell’associazione “Un ponte per…” , aggiunge che l’Italia, in cambio di un accordo sulla vendita e trasporto del gas naturale trovato dall’ENI a largo delle coste egiziane, ha scelto di attuare “una riabilitazione politica del regime militare” di Al-Sisi, il quale, dalla propria nascita, non ha mai rispettato diritti umani e libertà d’espressione. I giornalisti, in Egitto, subiscono persecuzioni e processi irregolari. Vi sono migliaia di attivisti laici e musulmani nelle carceri della tortura e dell’ingiustizia e in questi luoghi l’apprendimento della logica del terrore potrebbe indurre chiunque a diventare un jihadista. Distruggere queste realtà è di fondamentale importanza per la lotta contro il terrorismo e ora, sta all’Italia, decidere da che parte stare.

di Francesco Lazzaro (studente Scuola di Giornalismo per Ragazzi di Campobasso)

Guerra per il petrolio dinanzi casa nostra

Valutazione attuale:  / 0

Trivellazioni nel Mar Adriatico per l’estrazione di tonnellate di idrocarburi con il sottosuolo marino perforato a pochi chilometri dalle coste di Vasto, Termoli, Ortona e San Vito Chietino. Tutto ciò viene definito come una guerra “silenziosa” in Adriatico dato che un argomento di tale importanza non riceve le dovute attenzioni e le adeguate riflessioni che vedono intersecarsi interessi politici, economici e privati con in testa i colossi del petrolio interessati al nostro mare. Sono tre le società che hanno presentato i propri piani in merito all’argomento: società Petroceltic di natura irlandese, con il progetto ELSA2  che intende effettuare un pozzo esplorativo; Rockhopper, progetto OMBRINA MARE, punta dai 4 fino ad un massimo di 6 pozzi d’estrazione, ed infine la famosa società italiana, Edison, con il progetto ROSPO MARE intende eseguire trivellazioni per 3 pozzi d’estrazione.  Con il nuovo decreto “Sblocca Italia” vengono facilitate le perforazioni alle grosse società petrolifere, dato che quest’ultime non hanno più bisogno di un’ autorizzazione. Il DL è entrato in vigore il 13 settembre 2014 ed è retroattivo dal momento in cui riguarderà non solo le future attività ma anche i vecchi permessi di ricerca che possono essere convertiti in un unico titolo concessorio. In questo modo si dà il via libera ai colossi del petrolio e non viene data la possibilità ai comuni ed alle regioni di opporsi. Il ministro dell’ambiente è favorevole mentre in Abruzzo è nata l’associazione “NO TRIV” contraria al progetto OMBRINA e le trivellazioni che danneggerebbero  la pesca ed il turismo, settori che negli ultimi tempi hanno garantito notevoli introiti ai comuni dei territori interessati. È da tener conto, però, che nel caso vengano installate le piattaforme le compagnie dovranno pagare una tassa sul gas e sul petrolio estratto. Il corrispettivo in denaro corrisponde al 7%, per le estrazioni in mare, del valore di produzione di gas, ed al 4% per quello del petrolio. L’aliquota verrà poi ripartita tra: lo stato a cui spetta il 30%, le regioni interessate che prendono il 55% ed i comuni con il restante 15%. Questo potrebbe rappresentare entrate rilevanti. Guardando invece la situazione dal punto di vista ambientale, non si sa ancora le tecniche che verranno usate per le perforazioni dei fondali ma essendo in mare, sono esentate dalla lista la fatturazione idraulica, metodo con cui si crea una frattura nella roccia mediante la pressione dell’acqua, o l’estrazione del cosiddetto “shale gas” che deriva da giacimenti di argilla non convenzionale. è stato appurato che quest’ultimo costituiva problemi di impatto ambientale e di conseguenza c’è stata pressione da parte dell’Europa affinché si interrompesse la sua produzione. Per consentire l’estrazione è necessario rispettare le norme di sicurezza fondamentali, sia per l’ambiente che per i cittadini.  Gli elementi principali di cui tener conto sono l’atmosfera, l’acqua ed il suolo, questo fa si che prima di installare le piattaforme vengano studiati i medesimi elementi in modo tale da non permettere che fenomeni naturali ed atmosferici interferiscano con le attività e non facciano disperdere nell’aria elementi dannosi come quelli derivanti dall’estrazione di gas e petrolio, come ad esempio CO2 che deve mantenersi sotto la soglia dello 0,5%. Se le norme non vengono rispettate, la società dovrà ripristinare il territorio a proprie spese oltre ad incorrere a sanzioni pecuniarie, ma sembra che, nel nostro caso, i colossi abbiano rispettato a pieno i canoni elencati. A questo punto è giusto porci qualche interrogativo: il Governo Renzi come gestirà questa situazione? Continuerà a renderla una guerra “invisibile” e “silenziosa” oppure farà prendere parte alla vicenda anche l’opinione pubblica facendo l’interesse collettivo? E soprattutto, lasceremo che società straniere ci prendano il petrolio da sotto al naso o ci adopereremo ad estrarlo noi, pur con la consapevolezza che alla fine andrà comunque ai soliti colossi petroliferi?

di Gabriele Calabrese

Ebree “liberal”, protesta a colpi di pannolino

Valutazione attuale:  / 0

Pannolini sporchi, bottiglie d’acqua, sedie di plastica: queste le armi con cui hanno lottato le cosiddette “ebree liberal” lo scorso 10 maggio davanti al Muro del Pianto.

Un gruppo di donne emancipate si è radunato nel luogo sacro di Gerusalemme, come già in atto da qualche settimana. Il loro scopo? Quello di pregare, ma a modo loro. Volevano celebrare il giorno sacro del Sivan indossando un mantello rituale e leggendo un brano dai Rotoli della Bibbia. Usanza prerogativa degli uomini, regolata dalla “Tzanua”, il concetto di modestia nei costumi secondo l’ortodossia ebraica.

Da qui, ieri, sono partiti pesanti insulti da circa 15 mila zeloti radunatisi nella Spianata del Muro, sfociati in una vera e propria rissa a mano armata. Sì, armata di pannolini. “Per quanto matte insignificanti, ora veniamo rappresentati dalla stampa come lanciatori di pannolini”, ha dichiarato il rabbino Mordechai Neugerstal, ammettendo una sconfitta tattica, pur screditando le “ebree liberal” come “infedeli”.

Una tappa decisiva di questa emancipazione femminile è stata raggiunta una settimana fa, grazie al riconoscimento alle “Donne del Muro” da parte di una corte di Gerusalemme del pieno diritto di pregare nel proprio modo. Sentenza che ha provocato la collera di molti rabbini, i quali propongono per le “matte ribelli” “un recinto separato, a distanza di sicurezza dagli ortodossi” nel luogo sacro.

Ma le “liberal” non sembrano intimidite né disposte a cedere a queste minacce. Gli ultimi scontri  ne sono una prova.

 

di Giovanna Del Corso

 

 

Siria, quando un gioco si trasforma in una strage

Valutazione attuale:  / 0

Un calcio ad un pallone. Poi uno scoppio, tanto fumo e confusione. E’ successo sabato 24 novembre a Dajr al Asafir, a sud di Damasco. Alcuni bambini che stavano giocando in uno spiazzo sono stati uccisi da una bomba a grappolo (cluster bomb), sganciata dagli aerei governativi. La denuncia è scattata dai residenti del sobborgo, i quali hanno messo in rete un video che evidenzia gli effetti del bombardamento. Nel filmato si mostrano lo spiazzo dove i ragazzini stavano giocando, alcune submunizioni dell’ordigno, una delle abitazioni colpite, due bambini morti ed alcuni adulti feriti. Secondo le ricostruzioni dei residenti di Dajr al Asafir, le vittime sono dieci: nove bambini ed il padre di uno di questi. Anche nella zona nord-occidentale del Paese, tra Harem e Atm, i caccia governativi hanno preso di mira il campo profughi di Quah, in cui da mesi sono ospitati circa 10 mila siriani. Molti di loro sono fuggiti nei campi, ma – secondo i comitati di coordinamento dei residenti della zona ­- il bilancio provvisorio corrisponderebbe a 76 vittime, senza contare i militari uccisi. Ma i media ufficiali hanno smesso di attestare tutte queste stragi. L’unica informazione è che degli “eroici soldati” governativi hanno ucciso “un alto numero di terroristi di al Qaida” nella regione di Damasco. Intanto, l’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa di profughi palestinesi in Medio Oriente, afferma che sono tra i 300 e i 500 mila i rifugiati in Siria coinvolti nelle violenze.

 

di Giovanna Del Corso  

 

 

L'Iran fa davvero paura?

Valutazione attuale:  / 0

Il nucleare è un'arma politica. Specialmente in Iran. Da sempre nel paese di Ahmadinejad sono presenti delle contraddizioni interne che stanno pian piano logorando la già precaria situazione politico-sociale di un Paese isolato dal resto della comunità internazionale. Per evitare il panico mondiale causato dal continuo proclamare guerre nuclearI e l'esplosione di bombe atomiche potrebbe essere necessario affrontare la situazione Iraniana con maggiore rigore scientifico. Per fare maggiore chiarezza sui fatti. La proliferazione del materiale atomico nasce in realtà in Europa, più precisamente in Francia e Germania ovvero i maggiori produttori europei di energia nucleare. I due paesi in questione hanno fornito per primi le centrifughe che hanno permesso e stanno permettendo al paese islamico di produrre materiale bombabile e, quindi, di mantenere vivo il terrore in tutto il mondo. Queste centrifughe vennero fornite in realtà al Pakistan che le smistò nell'area mediorientale. Le centrifughe sono molto complesse e difficili da assemblare in quanto sono l'elemento centrale per l'estrazione dell' Uranio Arricchito ( U-235) utile alla costruzione poi di testate nucleari. Nei primi anni '70 infatti le centrifughe che vennero fornite al Pakistan erano in acciaio; queste avevano però un basso livello di efficienza e per produrre 1 Gigawatt di materiale bombabile ne servivano almeno 50.000 e per produrre 100 kg. di U-235 ne servivano 3.000 che lavorassero ininterrottamente per un anno intero. La tecnologia però avanza e ora le centrifughe utilizzate dall'Iran sono in fibra di carbonio, un materiale più efficiente, più resistente, più sicuro. Invece di intervenire con particolari sanzioni sull'Iran basterebbe bloccare semplicemente l'esportazione di fibra di carbonio per la produzione di centrifughe, ovvero i macchinari base per l'estrazione dell'U-235. D'altro canto dovrebbe essere guardato anche il doppio potere della tecnologia nucleare che può essere utilizzata sìa a scopo militare ma anche a scopo civile ed è per questo detta una tecnologia “duale” che sarebbe molto utile al mondo se non presentasse il problema dello smaltimento dei rifiuti tossici e il recupero dei materiali combustibili esausti come il Plutonio e l'Uranio (uniche sostanze presenti in natura bombabili a scopo nucleare). Dopo questo focus sulla precaria situazione politica iraniana non ci resta che porci una domanda: Ahmadinejad proclama il possesso di armi nucleari a scopo veramente militare o cerca di creare quella tensione e quel clima che gli permetterebbe, con l'aiuto del suo partito, di controllare in maniera più solida il Paese?

(Francesco Luciani, 16 anni, allievo della Scuola di Giornalismo “T. Terzani” di Campobasso diretta da R. Colella)

 

 

Bombe pulite

Valutazione attuale:  / 0

 

Come può un termine dal sapore così ecologista poter indicare l’ordigno ad esplosivo convenzionale più micidiale che esista? Diretta è la risposta dei militari: la bomba cosiddetta “pulita” è un’arma ad altissimo potenziale distruttivo in grado di sostituire nell’impiego testate nucleari tattiche, senza tuttavia inquinare, a differenza di queste ultime, l’ambiente circostante attraverso le radiazioni. Sono in pochi a parlarne, eppure queste bombe “ecologiche” sono state usate e vengono tuttora usate nei teatri operativi dagli eserciti che ne sono dotati. Cerchiamo dunque di fare chiarezza sulla storia e sul funzionamento di tali ordigni: durante le ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, la Germania nazista investiva disperatamente le ultime risorse disponibili nello sviluppo di armi che fossero in grado di stravolgere le sorti del conflitto, il quale si prospettava alquanto sfavorevole per le potenze dell’Asse. Oltre a ricerche e test effettuati nel campo degli ordigni nucleari, furono collaudate alcune bombe molto particolari: una miscela di ossigeno liquido e polvere di lignite, fatta detonare con particolari accorgimenti, era in grado di generare un’immensa palla di fuoco in grado di incenerire la materia a distanze dell’ordine anche di centinaia di metri, rendendo difatti tale bomba l’antenato della bomba “pulita” o, in termini tecnici, bomba termobarica, il cui principio di funzionamento è stato ripreso e perfezionato nel tempo dall’Unione Sovietica prima e dalla Russia poi. I dettagli sulle varie fasi dello sviluppo sono effettivamente scarsi, eppure è ben noto l’effetto distruttivo di queste armi: nel 2007 i telegiornali russi hanno trasmesso le immagini del più grande test di una bomba termobarica nella storia, mostrando al mondo intero la potenza di questi ordigni. Come è possibile notare, la detonazione, al contrario di altri esplosivi convenzionali, è relativamente molto più lenta, in quanto la miscela contenuta nella bomba contiene pochissimo ossigeno per poter bruciare, rendendo quindi più lenta la combustione. Non essendo sufficiente per completare il processo di detonazione, l’ossigeno mancante viene rapidamente e violentemente sottratto all’aria circostante, accrescendo ancor di più la sfera di fuoco. Terminato il processo di combustione, resta un’area di vuoto, in quanto l’aria è stata “bruciata” in tempi brevissimi. Ciò provoca un’elevata variazione di pressione tra l’area dell’esplosione e quella circostante che può anche essere dell’ordine delle trecento atmosfere, facendo sì che si crei un violentissimo afflusso d’aria verso il centro per un periodo di tempo relativamente lungo. Questo “risucchio” risulta devastante soprattutto per gli esseri viventi: infatti, se l’elevata temperatura e l’onda d’urto iniziali non fossero stati sufficienti ad annientare strutture e personale, poiché quest’ultimo aveva trovato riparo, la violenta variazione di pressione avrebbe ucciso qualsiasi essere vivente, facendo letteralmente collassare i suoi organi interni. Per tali particolari caratteristiche, si spiega il motivo per cui le bombe termobariche sono usate principalmente con scopi anti bunker o comunque per eliminare obiettivi all’interno di edifici, in quanto i luoghi chiusi, se non adeguatamente protetti da sistemi a tenuta stagna, consentono a questi micidiali ordigni di amplificare i propri effetti in maniera esponenziale, rendendo le temperature delle esplosioni e le variazioni di pressione dell’aria ancora più elevate e letali. Visto quindi l’ampio raggio d’azione e i devastanti effetti soprattutto sugli esseri viventi, risulta chiara ed evidente l’intenzione di trovare un perfetto sostituto delle armi nucleari, con le quali condivida gli stessi scopi operativi. Di conseguenza, la bomba termobarica è pur sempre uno strumento nato con l’intenzione di creare quanto più danno possibile alla vita e, se può essere definita pulita chimicamente, non può esserlo altrettanto umanamente.

 

 

di Mauro Fanelli

(studente, età 18 anni)

 

 

 

Risorse, sviluppo e fame nel Mondo

Valutazione attuale:  / 0

 

Si parla di "Terzo Mondo" in quell'area geografica che non fa parte né dell'occidente industrializzato, né di quell'area che fa parte del cosiddetto "Socialismo Reale".

Che cos'è la fame? Quand'è che si può parlare di alimentazione insufficiente o di denutrizione?

Ebbene, si calcola oggi che nel mondo più di 1 miliardo e 300 milioni di persone (circa 1/3 della popolazione mondiale) ha un'alimentazione insufficiente. Per non parlare del problema della sete. Le ultime ricerche fatte nel Terzo mondo indicano che in Africa circa il 75% della popolazione rurale non ha acqua potabile; in America Latina sono il 77%; in Estremo Oriente circa il 70%. In valori assoluti, sono più di 600 milioni le persone al mondo prive di acqua potabile.

Queste condizioni si manifestano soprattutto nei bambini, la cui mortalità nel Terzo mondo è altissima: ventre gonfio, magrezza, avvizzimento della pelle, apatia, ecc. Le malattie parassitarie e infettive colpiscono soprattutto i bambini non solo a causa della denutrizione, ma anche per le precarie condizioni igieniche (acqua inquinata, mancanza di fogne, ecc.). L'Unicef ha calcolato che la causa principale di morte dei bambini fino a 5 anni è dovuta alla disidratazione conseguente alle diarree provocate da infezioni intestinali.

La maggior parte dei paesi poveri si erano indebitati per colpa delle superpotenze che durante la Guerra fredda li avevano usati come pedine, e anche perché il mondo sviluppato continuava a concedere prestiti a dittature e a regimi corrotti, nonostante fossero le popolazioni di quei paesi a doverne pagare il costo. L’Occidente continuava a prestare denaro ai paesi in via di sviluppo a condizione che questi li utilizzassero per acquistare armi o attrezzature militari. Per gli affaristi di Wall Street e gli avvoltoi che volteggiavano sopra i paesi indebitati, il debito è solo una merce come tante, da comprare e da vendere, senza preoccuparsi dei danni che provoca. Anche gli Stati Uniti hanno un debito che ammonta a tremila miliardi di dollari, dieci volte quello dell’Africa. Gli Stati Uniti potranno essere anche il Paese più indebitato del mondo, ma sono riusciti a onorare il loro debito, almeno fino a oggi.

Di cosa hanno bisogno i bambini del terzo mondo? Sicuramente di cibo, prodotti per l’igiene personale, vestiti, di medicinali e vaccini e tanto altro ancora. Tutte cose indispensabili per la sopravvivenza e purtroppo carenti in alcune zone povere del mondo, ma non solo: una recente indagine dell’Onu, pubblicata sulla rivista “The Lancet”, ha sottolineato il ruolo fondamentale che l’istruzione delle mamme svolge nella lotta contro la mortalità infantile. Dati sono stati raccolti da Emmanuela Gakidou dell’ Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) della Washington University di Seattle e hanno riguardato 175 Paesi con gravi difficoltà economiche. Statisticamente il numero di anni in cui le donne di queste aree frequentano la scuola è quasi triplicato negli ultimi quaranta anni: nello stesso arco di tempo il numero di bambini morti prima del compimento del quinto anno di età si è ridotto quasi del 50%, passando da 16 a 7,8 milioni l’anno. Ovviamente causa e effetto non sono collegabili in maniera univoca e sono diversi i fattori concomitanti che hanno contribuito a questo risultato che lascia ben sperare. Tuttavia, secondo le stime dei ricercatori Onu impegnati in questa ricerca, circa 4 milioni di bambini sono stati salvati proprio grazie all’istruzione della donna e quindi all’educazione delle mamme. E’ innegabile infatti che una mamma istruita è anche più consapevole sui rischi di salute per il bambino e riesce a crescerlo con maggiore attenzione. Non sempre i bambini del terzo mondo muoiono di fame, a volte muoiono per ignoranza e l’istruzione delle mamme potrebbe salvarli. Con il crescere dell’età si passa poi alla necessità di istruire anche i bambini e offrire loro una formazione scolastica. Questo articolo vuole essere un consiglio per tutte le persone sensibili al tema della solidarietà: contribuiamo ai progetti che favoriscono l’istruzione nei Paesi del terzo mondo, non consideriamola un bene secondario.

 

 

di Lucia Montagano

(studentessa, età 18 anni)

Come la Cina intende accecare i falchi dello spazio

Valutazione attuale:  / 0

 

“Solcare il mare all’insaputa del cielo”. Così recita il primo dei trentasei stratagemmi  elucubrati dagli esperti strateghi cinesi  circa mezzo millennio fa. Essi ritenevano infatti che fosse fondamentale per vincere una guerra coprire i propri spostamenti agli occhi del nemico. Pechino sembra apprezzare molto il lascito dei suoi avi tanto poetico quanto estremamente attuale. Il Dipartimento Generale degli Armamenti, infatti, non ha celato la sua intenzione a sviluppare sistemi antisatellitari.

Fino meno di un decennio fa gli esperti ritenevano che gli unici paesi in possesso di armi antisatellite (Asat ) fossero Stati Uniti e Russia. Entrambe le super-potenze si accordarono, in piena Guerra Fredda, a rinunciare spontaneamente alla sperimentazione di tali armamenti poiché avrebbe significato  «esporsi al rischio di attacchi che potrebbero provocare un aumento costante di detriti nell’etere», la seconda minaccia per l’incolumità dei  sistemi spaziali geostazionari dopo gli attacchi diretti. La situazione però è mutata negli ultimi tempi poiché numerosi paesi, in primis Cina, Iran, Corea del Nord e India  potrebbero eventualmente essere capaci di colpire satelliti e impianti spaziali senza rilevanti problematiche.

I satelliti rivestono un ruolo fondamentale per quanto concerne servizi civili e militari. Non sarebbe possibile fornire, in loro assenza, servizi commerciali come la televisione, trasmissione generica  di segnali radio, GPS; allo stesso modo sarebbe impensabile coordinare efficacemente manovre militari e sarebbero precluse essenziali operazioni di intelligence. E’facile dunque immaginare quanto sia  politicamente e militarmente determinante per i paesi più influenti sulla scena internazionale possedere una fitta rete di apparati satellitari per tenere costantemente sotto controllo la situazione globale. Neanche il più piccolo dettaglio sfugge a questi falchi dello spazio ed è veramente difficile se non addirittura impossibile muovere truppe, lanciare missili o eseguire test senza che non venga immediatamente notato e comunicato in pochissimi secondi. Allo stesso modo, privare temporaneamente o permanentemente l’avversario di questa preziosa capacità risulterebbe un enorme vantaggio strategico in un eventuale conflitto.

Per questo motivo sono stati concepiti e sviluppati numerosi dispositivi antisatellite. L’arsenale a disposizione in questo caso è veramente ampio. Esplosioni nucleari d’alta quota, raggi X e raggi laser, impulsi elettromagnetici (EMP), sono tutte opzioni valide per rendere inutilizzabile un satellite spia. Inoltre è possibile sfruttare l’energia cinetica di apparati satellitari ormai obsoleti per intercettare obiettivi geostazionari e distruggerli fisicamente. Non è da escludere anche l’opportunità di utilizzare missili balistici intercontinentali (Icbm) per assolvere allo stesso compito.

Opportunità che  si è rivelata quanto mai reale l’ 11 Gennaio 2007, quando la Cina ha colpito con successo un satellite per rilevazioni meteorologiche (Fengyun-1C) mal funzionante, probabilmente tramite un missile balistico a medio raggio. Questo è stato, a tutti gli effetti , il primo test di un’arma antisatellite effettuato dalla Cina.

Il governo cinese non hai mai dichiarato pubblicamente il suo sforzo nello sviluppo di armi antisatellite per non compromettere “lo spirito di cooperazione a cui tutti i paesi aspirano nello spazio”. In realtà però già due test erano stati compiuti, senza successo, ufficialmente a scopi commerciali, per verificare  il funzionamento dei mezzi compatibili con armi antisatellite. Durante gli anni Ottanta la Cina condusse le prime ricerche mirate allo sviluppo di armi Asat, nell’ambito del progetto spaziale “830 Program”. Le tecnologie fondamentali erano già disponibili da quando l’industria spaziale e missilistica cinese Second Academy, tradizionalmente legata a dispositivi SAM, aveva sviluppato un sistema antimissile d’avanguardia intorno agli anni Settanta.

Dopo la caduta dell’URSS  la Cina ottenne, dagli ex stati socialisti, avanzati studi balistici e supporto tecnico, entrambi elementi importantissimi per gli sviluppi successivi delle armi antisatellite.

Pechino attualmente concentra la sua attenzione su evoluti apparati offensivi antisatellite basati su tecnologia laser. Non ci sono dichiarazioni ufficiali e programmi specifici del governo a riguardo, ma esperti del settore ritengono che entro il 2020 la Cina diventerà il paese più avanzato nel campo dei laser. A tale proposito è possibile ricordare il test effettuato da una base cinese con obiettivo un satellite spia statunitense che sorvolava i cieli cinesi durante l’agosto del 2006. Il satellite statunitense è stato colpito da laser ad altissima potenza che ne ha pregiudicato il corretto funzionamento per un periodo limitato di tempo. Alcuni hanno visto il test come una prova della capacità cinese di accecare satelliti spia ostili, altri hanno ipotizzato si trattasse di un sistema di puntamento per attacchi antisatellite cinetici ascendenti diretti.

Beijing ha intenzione di investire ingenti quantitativi di denaro nell’ambito della tecnologia spaziale e sicuramente, una politica aggressiva in un settore tanto strategico, comporterà reazioni forti da parte degli altri paesi in concorrenza per la supremazia nei cieli.

 

di Roberto Faleh (studente, 17 anni)

 

 

 

Un proiettile, una menzogna

Valutazione attuale:  / 0

 

5,56 x 45 mm NATO. Questa è la denominazione ufficiale che identifica il proiettile standard per fucili d’assalto più frequentemente utilizzato oggigiorno dalle nazioni del Patto Atlantico. Esso ha riscosso un successo tale che non solo è ormai impiegato in ambito bellico anche presso Paesi non occidentali, ma è divenuto anche il tipo di cartuccia preferito dai tiratori, commercializzato sul mercato civile con il nome di 223 Remington. Qual è quindi il motivo dello straordinario successo riscosso da questo proiettile? Essenzialmente trattasi di un bell’inganno, verrebbe da pensare osservando un po’ la storia e le caratteristiche di questa cartuccia. Siamo in piena Guerra Fredda: le due superpotenze mondiali, Stati Uniti ed Unione Sovietica, si vedono coinvolte in quella che viene comunemente definita corsa agli armamenti, dato che, in vista di un potenziale conflitto futuro, nessuna delle due vuole ovviamente farsi trovare impreparata. Esistono tuttavia varie convenzioni internazionali che limitano la produzione nonché l’utilizzo di determinati armamenti, al fine di rendere la guerra più “umana”: con ciò si intende l’impiego di mezzi che non provochino eccessivi morti tra i belligeranti, eppure in una guerra, sostanzialmente, si tende proprio a causare quante più perdite possibili, da considerare alla stregua non soltanto di morti, ma anche di feriti e prigionieri. Se risulta pertanto “inumano” uccidere per causare perdite, è ovvio che bisogna invalidare i soldati avversari: ecco cos’hanno pensato coloro i quali hanno ideato il calibro 5,56 mm: siccome le convenzioni proibiscono l’uso di proiettili a punta espansiva, ovvero di ogive che impattando sul bersaglio si aprono e si frammentano causando grosse ferite da lacerazione, allora si produca un proiettile in grado di riprodurre effetti altrettanto invalidanti. Tale ragionamento risulta pertanto impeccabile. In quel periodo, infatti, la cartuccia maggiormente usata dalla NATO era la 7,62 x 51 mm , la quale risultava avere un potere di penetrazione sicuramente notevole e una gittata molto elevata, ma si trattava di un calibro molto più adatto ad uccidere, peraltro anche da lunghe distanze, che a ferire, e ciò senza dubbio non sarebbe risultato utile in un futuro conflitto combattuto per le strade delle grandi città europee, teatro in cui, secondo i vertici militari occidentali, questo calibro sarebbe risultato non conveniente, vista anche l’eccessiva letalità. Ideando quindi la 5,56 x 45 mm , lo scopo era quello di creare una munizione più piccola che creasse non soltanto meno ingombro, peso e rinculo al momento dello sparo, fattori che si traducevano nella possibilità da parte del soldato di portare con sé una quantità di proiettili quasi doppia e di avere un controllo maggiore dell’arma, soprattutto durante le raffiche, ma che avesse soprattutto una caratteristica balistica particolare: la punta blanda. Infatti questa ogiva, velocissima e leggera, ha il proprio baricentro spostato all’indietro, caratteristica che, in caso di scontro con una superficie dura, come ad esempio le ossa, tende a far ribaltare la palla e a farla girare come una trottola, creando all’interno del corpo imponenti danni da lacerazione e successive copiose perdite di sangue. Nel caso questo proiettile trapassi il proprio bersaglio, può anche presentare un foro di uscita largo fino a dieci volte di più rispetto a quello di entrata, a testimonianza del grande danno che è capace di arrecare. Questo è l’inganno che i militari occidentali sono riusciti a rendere reale per aggirare i limiti imposti dalle convenzioni, ritenendo, e a ragione, che per il nemico sia molto più dispendioso avere morti che feriti, dato che questi ultimi, soprattutto se sono in condizioni particolarmente gravi, non solo non possono combattere, ma necessitano pure di ingenti risorse per essere curati. Questa logica alquanto crudele è stata applicata anche per verificare il nuovo fiammante calibro: nella Guerra del Vietnam, infatti, è stato fatto largo utilizzo di questa munizione sparata dall’altrettanto nuovo (e per nulla privo di difetti) fucile M16. Così, usata in un ambiente non favorevole e con un fucile ancora in fase di sperimentazione, ha causato tantissimi problemi ai soldati americani che ne facevano uso a tal punto che molti di essi perirono proprio perché le loro armi si inceppavano a causa dell’eccessiva umidità oppure i loro proiettili non colpivano il nemico poiché venivano facilmente deviati dalla fitta e folta vegetazione della giungla vietnamita. Eppure, per un governo, testare sul campo l’arma per ovviarne ai difetti non è mai un male, nemmeno se è necessario sacrificare le vite dei propri uomini, i quali magari non sono per nulla consci del crudele esperimento di cui essi stessi sono cavie. E di episodi come questo ne avvengono ancora oggi, in quanto qualsiasi guerra porta con sé un’arma da testare freddamente, senza il rispetto delle vite dei propri uomini o di un principio etico.

di Mauro Fanelli

(studente età 17 anni)