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Storia militare

Le donne nella Guerra di Liberazione

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Negli ultimi anni sempre di più le pagine di cronaca sono obbligate ad essere scritte con un inchiostro di colore “rosso”, un colore che, purtroppo, è costretto a riportare e descrivere gli ignominiosi fatti di violenza di cui sono oggetto quotidianamente le donne. Fatti, che molto spesso sfociano nell'atto più efferato, l’omicidio, o meglio il femminicidio, termine di recente coniazione (1992), e derivante dalle considerazioni della criminologa Diana Russel, che riconosce nella violenza di un uomo contro la donna in quanto donna una tipologia di reato a se stante. Noi, invece, in questo scritto vogliamo usare un inchiostro di colore “oro”, un colore che vuole esaltare l'impagabile contributo delle donne nella conquista di quello che è il bene più prezioso dell’essere umano, la Libertà. La partecipazione della donna agli avvenimenti bellici che vanno dal settembre 1943 all’aprile 1945 segnano quella profonda e fondamentale svolta del ruolo femminile nella futura società italiana. Dotate di una naturale e acuta lungimiranza le donne furono le prime a comprendere che la guerra non sarebbe finita con la firma dell’Armistizio, e che si sarebbe andato incontro a tempi ancora più difficili. Nel settembre del 1943 si assistette ad una sorta di maternage di massa, in ogni parte d’Italia sono innumerevoli le testimonianze che ci raccontano di donne che offrirono a costo della vita ogni sorta d'aiuto: nascosero in cantine e nelle soffitte sbandati e prigionieri Alleati, lungo le ferrovia e nelle fermate delle stazioni prestarono conforto ai deportati, rifornivano i combattenti di viveri, indumenti, medicine e infine anche di armi. Si passò da una iniziale offerta spontanea ad una sorta di collegamento tra donne, una forma di organizzazione che divenne una vera e propria rete operante. Prima della Guerra di Liberazione le donne non hanno avuto mai il diritto-dovere di difendere la Patria in armi, ma con gli eventi del 1943-1945 la donna ha avuto la possibilità di scegliere, di misurarsi con questa scelta e quindi prendere la armi senza “cartolina precetto”. Una scelta ardua, che scardina i tradizionali ruoli femminili e pone le donne alla pari con i loro compagni uomini. Questa scelta, in un quadro storico, ha un valore simbolico: afferma la volontà di essere cittadine, di partecipare appieno ad una’attività politica, di difendere a pieno titolo alla difesa della Patria comune. Con questa scelta si dimostra di essere diversi ma uguali. Oltre alla militanza nelle formazioni partigiane (o chi, e non vogliamo qui noi non ricordarlo, con differenti ideali, aderì al SAF (Servizio Ausiliario Femminile), della Repubblica Sociale Italiana) le donne, grazie al Decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n.151, avranno la possibilità di essere arruolate nel CAF (Corpo Ausiliario Femminile), delle “neo-rinate” Forze Armate Italiane. L’arruolamento prevedeva la cittadinanza italiana, con età compresa tra i 21 e 50 anni in possesso di un titolo di studio equivalente all’attuale diploma di scuola media superiore di secondo grado, coniugate, ma con figlio con età superiore a 12 anni. La gerarchia prevedeva una Ispettrice Generale, alcune Vice Ispettrici, Capigruppo e gregarie. Le Gregarie erano assimilate moralmente al grado di Sottotenente. Prestavano un servizio volontario di 12 mesi, con diritto all’alloggio, all’uniforme, al vitto gratuito, sottoposte al regolamento di disciplina militare. Gli assegni non erano regolari: era corrisposta una indennità non equivalente a stipendio, ma per i tempi molto sostanziosa pari a 2 mila lire se in servizio presso la zona abituale di residenza, 3 mila lire se fuori sede. L'uniforme era di foggia inglese (simile all’Auxiliary Territorial Service), i distintivi di grado erano portati, sotto forma di bottoni, sulle controspalline (4 per la Ispettrice Generale, 3 per le Vice Ispettrici, 2 per le Capo gruppo, 1 per le Gregarie). Le stellette erano poste sul bavero sopra le mostrine della fanteria ad indicare la loro fonte di appartenenza. L’impiego era presso le cosiddette cantine mobili o carrozzoni come si definivano i camion attrezzati con cucine ed altri servizi di ristoro, negli spacci delle Case del Soldato, in biblioteche o negli uffici. Il totale delle appartenenti al corpo era di circa 400 unità. Di seguito, le Medaglie d’Oro assegnate alle donne che parteciparono alla Guerra di Liberazione:

 

Irma Bandiera

Nata nel 1915 - Fucilata il 14 agosto 1944

 

Livia Bianchi

Nata nel 1919 - Fucilata il 21 gennaio 1945

 

Ines Badeschi

Nata nel 1919 - Ha operato nel modenese

 

Carla Capponi

Nata nel 1921 - Ha oparato nei GAP romani

 

Cecilia Deganutti

Nata nel 1914 - Fucilata il 4 aprile 1945

 

Gabriella Degli Esposti

Nata nel 1921 - Uccisa il 17 dicembre 1944

 

Paola Del Din

Nata nel 1923 - Ha operato in Friuli

 

 Anna Maria Enriquez

Nata nel 1907 - Fucilata il 12 giugno 1944

 

Maria Assunta Lorenzoni

Nata a nel 1918 - Uccisa il 21 agosto 1944

Irma Marchiani

Nata nel 1911 - Fucilata il 26 novembre 1944

 

Ancilla Marighetto

Nata nel 1927 - Morta sotto tortura il 10 ottobre 1944

 

Norma Petrelli Parenti

Nata nel 1921 - Uccisa il il 22 giugno 1944

 

 Rita Rossani

Nata nel 1920 - Caduta in combattimento

il 17 settembre 1944

 

Modesta Rossi

Nata nel 1914 - Fucilata assieme al figlioletto di un anno il 29 giugno 1944

 

Virginia Tonelli

Nata nel 1903 - Bruciata viva il 29 settembre 1944

 

Vera Vassalle

Nata nel 1920 - Ha operato in Toscana

 

Iris Versari

Nata nel 1922 - Impiccata il 18 agosto 1944

 

di Antonio Salvatore

 

 

Discorso del Dott. Renato Pistilli Sipio per l’inaugurazione della Casa del soldato di Badia Polesine (seconda parte)

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«… Erano i tempi del rigoglio di fede, erano i giorni in cui si celebrava sulle are di Roma il ricordo del valore italico, i giorni in cui Paolo Bardazzi tornava dall’esilio e s’imponeva alla frontiera gridando: “rientro perché sono italiano e nessuno può esserlo più di me”, erano i giorni in cui si riprendeva la serie interrotta da lunghi anni nell’attesa vana, erano i giorno in ui la primavera ridiveniva sempre più olezzante di fiori e più franca di energie.
E la vampa di eroismo che rendeva meravigliosa l’Italia e la trasfigurava vide i battaglioni passanti nel martirio con la piena coscienza del dovere da compiere, ed i mesi e gli anni trascorsero nell’alterna vicenda, sempre mostrando il valore indomito ed indomabile del nostro soldato. Domani, quando la Patria sarà paga di noi, la storia scriverà molte pagine gloriose e di fortuna, ma la più fulgida sarà quella in cui sarà celebrato il coraggio del nostro piccolo uomo sbucato da le trincee e da le caverne sempre con uguale capacità, e noi che portiamo nel nostro intimo l’empito del Dolore per i fratelli immolati, in nome del segno del sacrificio, con la fede resa più tenace dallo stesso cruccio, ricorderemo con entusiasmo ed ammirazione il tempo in cui l’arma del soldato d’Italia si affilava sulla roccia carsica e si colorava nel riflesso di sangue degli eroi, degli eroi silenziosi, oscuri, degli eroi per cui non basta premio, degli eroi che non ritornano.
Troppo si è detto durante la nostra lotta e troppo avete tutti ascoltato e sentito perché io possa pensare che tra voi non si intende e non si conosca quale sia il motivo della nostra situazione attuale, ma voglio soltanto ricordare che fra gli artefici furon quelli che prima e poi han creduto rilevare attraverso l’affermazione del nostro sacro egoismo le mire imperialistiche, non intendendo e non discernendo che se l’Italia le avesse accarezzate, avrebbe seguita la via del lurco e non avrebbe unito la sua voce ed il suo braccio alla voce ed al braccio dei popoli che arginano la travolgente marea di fango dei nemici della civiltà.
Cosa avrebbe dopo fatto di noi il lurco?
E con sapienza la Patria sentì il pianto dei figli oppressi, di quelli che a l’ombra dei forti di Trento e su la curva linea di Trieste glorificavano i martiri di Belfiore, onoravano le fosse di Lombardia, celebravano gli audaci della Calabria. Non brama d’imperio dunque, ma necessità di unificazione; non volontà di schiacciare, ma di completarsi, non desiderio di conquista, ma bisogno di garentirsi entro i confini assegnati dalla natura e dalla storia, non asservimento, ma fratellanza fra le regioni, fra i popoli, concordia di idealità, unione di forze materiali e morali, libero scambio, vita, vita soprattutto, perché ogni nato deve vivere e non farsi sopraffare supinamente.
E l’Italia ha dimostrato ogni giorno – fin troppo – nella condotta della sua guerra la coerenza delle sue idee e l’ha riaffermato più ampiamente nel patto di Roma, che forse è l’episodio più notevole di tutto lo sconvolgimento europeo.
In Roma, sul colle sacro, l’Italia ha proclamato ancora una volta la sua dignità ed il suo onore ed ha compreso con sincerità il grande principio che la nazione d’oltremare aveva proclamato e che Giuseppe Mazzini vaticinava.
Ed oggi, o compagni di fortuna, oggi, dopo il martirio, attraverso il calvario sanguinoso, con la gola riarsa e con il cuore in tumulto, più che mai bisogna che l’occhio sia fisso al suo sogno, che l’anima si protenda verso lo scopo divino per il quale si compie lo sforzo, oggi più che mai bisogna che si sappia trovare la piena di coraggio che dopo le sofferenze ritempri e prometta il ritorno verso il culmine del nostro cammino: dobbiamo aver sempre la volontà affilata come una lama d’acciaio e mentre il paese deve vivere la sua quaresima, il soldato deve continuare nella sua missione dritto, inflessibile, sempre memore del compito che gli si è affidato, sempre pronto e calmo, sempre violento contro il barbaro e fiducioso nell’avvenire non lontano. A piene mani egli raccolga dal fondo più chiuso del proprio essere le energie più vaste, e ciascuno di noi, nelle forme più varie del proprio dovere, sciolga il voto concorde, con acutezza scruti tutto ciò che forse ancora manca per rendersi più compiuti e dia valore alla capacità individuale, perché tutti dobbiamo essere fermi in un patto, anche se il patto bisogna giurarlo con la morte. Non dimentichiamo le giornate del dolore, non perché esse ci rammentino la vergogna, ma perché ci infondano nuovi elementi di forza, e guardiamo ai nostri fratelli calpestati, schiacciati e scacciati da l’inconscia ciurma barbara, pensiamo che val meglio spegnersi in un’onda di gloria anziché esser premuti dal tallone della ferocia, che val meglio scomparire, anziché vedere il calcio del vile scagliarsi contro i grembi puri di verginità o sacri di maternità delle nostre donne, ricordiamo che sulla soglia delle case di molti fra noi è segnata una croce di sangue e che ad ogni passo, in ogni zolla, in tutti i fiori delle giogaie alpestri c’è una fibra della nostra carne più viva. Le città, le terre, le donne che han sentito frantumarsi dall’ebbrezza di struggitrice o vandalica o erotica di gregari dell’imperatore squarquoio ribenedetto nella sua putrida carogna e transumanato nel piccoletto duce della fallita invasione d’un tempo e dalle letterine ruffiane, attendono con coraggio il giorno in cui sarà sciolto il voto del nostro ritorno tra gli oppressi da redimere. Le città, le terre, le donne che si sono sentite vuotare dalle loro giovinezze più belle aspettano la grandezza della Patria; le Madri, le buone madri ansiose e insonni sono ferme nelle loro case con il viso sollevato verso il sole per cogliere l’attimo in cui il pianto per i figli morti sarà asciugato dalle dita della gloria e vivono nella speranza che il loro sangue non sia stato versato invano, le madri, che sentono già sepolta la loro carne attraverso il loro bene immolato, hanno il diritto di sapere che sventoleranno su tutte le vette ed in ogni valle italiana le bandiere della vittoria. 
L’opera di epurazione dei disfattisti, l’annullamento di coloro che osano ancora con false ideologie guastare od offuscare la luminosità della nostra speranza, la vigilanza contro ogni tentativo di lesa patria devono essere i capisaldi del rinnovamento. E voi che siete lontani dalle linee del fuoco, dove nel vasto quotidiano lutto si prepara il trionfo, rammentate i fratelli che si fermano a segnare le tappe del valore e pensate che fra tutti i vantaggi che questa nostra santa guerra ci avrà dato, è in primo luogo il miglioramento delle coscienze, la convinzione che noi possiamo bastare a noi stessi e che dobbiamo essere liberi, liberi e forti. Sui campi di Francia, fin dai tempi della Marna gloriosa si è rifatta la libertà dei popoli ed ora si compie la resistenza contro le orde dei vandali: l’unione di tutte le classi, che nelle nazioni alleate è più completa, sia monito a noi che combattiamo con esse. Là dove la bandiera di Digione, tolta nel 1870 si tedeschi, fu conquistata da Giuseppe Garibaldi, oggi i nostri reggimenti sono di nuovo, presso gli eredi della rivoluzione meravigliosa, e dopo lo spettacolo miserando della Russia folle, la democrazia d’America difende con l’Inghilterra la civiltà del mondo.
Resistere bisogna oggi per aver domani la possibilità di una pace di trionfo e non bisogna disperdere le energie: come i sette fiumicelli del Clitumno portano dall’unica fonte lo stesso azzurro e lo stesso sussurro così i sette eserciti siano dall’unica origine avviati verso la meta in un ritmo concorde, e quello italiano; con nelle fila gli oppressi dall’Austria che ora sono nostri fratelli, sappia mantenersi quale fu nel tempo del Maggio divino.
Bisogna tornare nelle nostre case non vinti, epperò tutti dobbiamo nella esecrazione per i carnefici di Cesare Battisti, il puro campione della democrazia vera, moltiplicare lo sforzo per riuscire, aiutare con ogni mezzo e con opere oneste i combattenti che su l’onda gonfia del Piave han designato il limitare insanguinato per dove non passa e non deve passare il nemico.
I nostri morti sono all’avanguardia e se il sonno dei purissimi eroi giovinetti è stato scosso dal piede barbaro prima che dallo squillo delle buccine italiche osannanti agli evviva, bisogna ricomporre le loro tompe, ribenedirle con sangue ancora più vivo, ribattezzare con nuova acqua lustrale e rifarle nostre, perché dove sono i fiori della giovinezza erede della magnificenza di Roma, deve pregare la donna italiana.
Pensate a tutto ciò, soldati che vi raccogliete qui nell’ora di riposo, pensate ai morituri, fate che sulla vetta dei vostri pensieri ci sia l’ansia della Patria rinnovata ed incitate l’odio contro i nemici interni e contro lo straniero e ricordate la Francia che fucila i vigliacchi compagni del vile tedesco, ed il grande marinaio d’Abruzzo che beffa la viltà austriaca.
Poi attendete con fermezza: verrà l’ora della esultanza, verrà l’ora del trionfo.
Badia Polesine il 2 Maggio 1918
Tenente  Renato Pistilli Sipio» 
 
di Antonio Salvatore
 
 

Discorso del Dott. Renato Pistilli Sipio per l’inaugurazione della Casa del soldato di Badia Polesine (prima parte)

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Il 12 maggio 1918 nel pieno dello svolgimento della Prima Guerra Mondiale, nel massimo sforzo delle truppe italiane per resistere alla “spallata definitiva” da parte dell’esercito austro-ungarico, veniva inaugurata a Badia Polesine, in provincia di Rovigo, la Casa del Soldato. Il discorso inaugurale venne tenuto dal campobassano Dott. Renato Pistilli Sipio, che sarà in seguito Podestà del capoluogo molisano dal 1926 al 1927, a dal 1935 al 1938. Di seguito, la trascrizione dell’inedita allocuzione:
 
«Inaugurandosi la casa del soldato
Ringrazio il Sig. Comandante del Presidio che mi procura l’onore di parlare dinanzi alla autorità del Sig. tenente Generale Com. Goria e dei miei superiori ed alla gentilezza delle anime buone che hanno organato il raccoglimento pio nel simbolo della Casa del Soldato, e sono lieto di porgere il mio saluto augurale alla istituzione e ai militari per i quali essa ha la sua vita.
Credo che non sia invero ormai difficile l’intendere lo scopo che la Casa si propone e per quali necessità la si sia creata: c’è troppa nozione, vasta e compiuta, perché io debba a lungo intrattenermi sulle qualità materiali e m,orali del beneficio che ne deriva: il dare al soldato la possibilità di una comunanza, la ragione di un affratellamento, la capacità della comprensione e della manifestazione delle proprie idee, offrire il posto dove possa esservi convegno fra gli individui ed i mori (?), suggerire al piccolo essere che oggi compie la grande missione tutti quei mezzi che posson rendergli più agevole il sapere e il dare notizie, fornirlo di un asilo in cui si ritempri dopo la rude fatica, dirgli una parola d’amore, lenirgli la tristezza di un’ora grigia, rendergli meno melanconica e più soave la nostalgia della mamma lontana, della sposa, dei f8igli, del vecchio padre curvo sull’aratro santo, infondergli il coraggio per l’attesa, suggerirgli il modo con cui deve anche esprimersi scrivendo a chi prega il destino per lui, fargli respirare una atmosfera di purezza e cui egli ed i suoi compagni, di ogni regione, di lontane montagne o di mari a toni diversi, si sentano fratelli nella più profonda radice e nel rombo più chiuso del sangue, fratelli di moderazione e di fortuna, di lotta e di speranza, di ansie e di vigilie, di forza e di fede, ecco appunto le qualità del beneficio.
E da esse scaturisce l’educazione dello spirito verso il dovere inteso nel senso più vero. Disciplinare infatti le sentimentalità, le anime, dare alle idee e alle emozioni un ordinamento ed una coesione, fondere in una unica armonia ogni piccolo desiderio e tutte le grandi necessità, intendere il limite e la misura di ogni manifestazione, sono tutti elementi che danno la capacità di apprendere la misura dell’ideale e dei postulati etici che sono la base granitica dello sviluppo vitale. E se alle piccole menti si fornisce la possibilità di comprendere, anche esse possono far fronte con energia a tutto quel che ad esse si chiede: lo stesso fenomeno psico – sociale che si verifica nel popolo a cui si appronta il mezzo di una sana istituzione può osservarsi in qualunque aggregato di individui e di pensieri, ed è così che il soldato d’Italia, lo stesso soldato che ha battuto in undici battaglie sul suolo sforzo, la ferocia nemica, può ancora e saprà oggi aver forte il pugno e fermo il petto per vietare il barbaro passo.
La unione, la coesione e l’istruzione adeguata, il dire al soldato che in uno sforzo concorde tutti devono ribellarsi contro il barbaro, ingentilire l’animo del contadino che ha lasciato i solchi pieni di semi della sua terra per scavare solchi pieni dei semi del suo sangue sotto le raffiche di ferro, e rendere accessibili le coscienze alle sfumature dello spirito, porre di fronte alla individualità l’imagine della sua energia, costituisce l’opera di edificazione che si ottiene con il dare a chi difende la patria un angolo dove si riacquisti il concetto della esistenza. E nessun asilo, nessun angolo può essere più adatto, se non quello dove i compagni si radunano sia pure soltanto nell’ora del vespro, quando la tranquillità della sera chiude il cuore in una morsa di melanconia, nell’ora in cui ci si sente tutti più buoni pensando ai lontani, al piccolo nido natale, alle tenerezze della famiglia, alla dolcezza del focolare deserto.
Ecco perché la Casa del Soldato ha sempre e dovunque giovato ed ecco perché può attendersi che – anche in questa piccola gentile città, che ci ospita con deferenza – l’istituzione, guidata dalle mani sapienti delle Signore e dei preposti, abbia il suo rigoglio e serva a dare ai militari, che qui attendono l’ora della loro fortuna, il modo di vedersi, di raccogliersi, e di amarsi, di essere sempre più fermi nel loro coraggio e più forti per il loro destino.
Perché oggi, o signori, oggi, mentre si compie il terzo ritorno del maggio di rose, è necessario unirsi di più, essere più forti, comprendersi meglio. Oggi la miseria politica, le blaterazioni, la vigliaccheria di alcuni partiti che si vantano di predicare la bontà e l’affratellamento, la malvagità dei venduti, l’ipocrisia degli inutili che non hanno nemmeno la visione e la forza di servire la propria idea, oggi la incapacità di alcuni, la perfidia di altri, la tenerezza che ancora si sente in qualche vile verso chi distrugge senza tregua, le piccole stolte propagande segrete, han cercato di annientare l’esercito italiano e han sperato di vendere la Patria, come quando, nelle ore della insonne attesa, un uomo dalle energie rammollite tentava il riscatto.
Ma lo scoramento ha ceduto 8il passo alla resistenza ed il soldato delle undici battaglie ha fermata la fiumana ubriaca e difende la sua Gran Madre, le sue istituzioni, le sue terre, le sue memorie, il suo nome, la sua democrazia. Perché la democrazia d’Italia contro l’autocrazia teutonica la difende appunto il soldato, quello però che imbraccia il fucile e fa scattare il cannone, non i gregari della democrazia intesa a rovescio, perché essa significa volontà di popolo che nel momento del bisogno conosce la via del dovere. E la volontà popolare vera conobbe il suo destino e levò il grido in favore di una guerra resasi necessaria e portò il suo petto nella casa usurpata del nemico. Fu il popolo, e noi fummo con esso, che fra lo sfolgorio del sole e i saluti del mare osannò al trionfo nel nome del poeta soldato che parlò dallo scoglio sacro donde partì il Duce nella notte fortunosa, fu il popolo che chiese al suo capo che seguisse la via dell’onore, fu il popolo che vietò la vergogna di una inazione eterna, fu il popolo che si ribellò al patto vile e sopperì con il suo petto ed il suo sangue alle deficienze che i cosiddetti compagni, i famosi democratici a rovescio, avevano imposto, distruggendo ciò che doveva rendere la Patria temuta.
Noi fummo, perché siamo e saremo sempre col popolo; fummo fra quelli che nelle dolci sere del Maggio olezzante, mentre da gli angoli di tutta Italia la gente sana e le coscienze oneste invocavano il rispetto per i martiri del passato, mentre si evocava la immagine della vittima più pura, di G. Oberdan, noi fummo fra quelli che intesero la vera e grande necessità e le nostre voci sollevarono appunto le masse in nome del bisogno sacro: la compiutezza della Patria; noi intendemmo che la guerra, la grande nemica dell’individuo, ma il mezzo di affermazione di uno Stato, era l’unica ,meta che la sorte c’imponeva…»
 
di Antonio Salvatore
 
 

Montini, concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare (seconda parte)

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Alla cerimonia di consegna dell’onorificenza avvenuta nella città di Foggia, non era presente il Sindaco di Campodipietra, che nella stessa giornata del 18 dicembre, così telegrafava al Generale Miozzi:
 
«Comandante Presidio di Foggia
Dolente di non poter intervenire cerimonia consegna Medaglia oro famiglia Sottotenente Montini Leopoldo prego V.E. tenermi presente con la espressione dell’ammirazione e rimpianto anche miei colleghi e questa cittadinanza. Sindaco Rossi».
 
Il giorno stesso, il Generale Miozzi dava partecipazione al Sindaco di Campodipietra dell’avvenuta cerimonia col seguente telegramma:
 
«Foggia, 19 Dicembre 1916 – ore 18.
N. 3140. Solenne cerimonia consegna medaglia valore oro padre Sottotenente Montini Leopoldo avvenuta stamane presenza truppe Presidio Autorità locali e rappresentanze sodalizi e scolaresche. Nel dare annunzio V.S. porgo sensi mia ammirazione per Eroe caduto figlio codesta patriottica cittadina che tal modo diede glorioso contributo per maggiore grandezza Patria. Maggior Generale Comandante Presidio Miozzi».
 
Un interessante resoconto della giornata è possibile averlo attraverso una missiva del padre Antonio, inviata al Capitano Matteo Caputo:
 
«Campodipietra, 28 Dicembre 1916
Carissimo amico
Se per poco avessi saputo che voi eravate in residenza, vi avrei telegrafato per avere il piacere di riabbracciarvi e di avervi al mio fianco nel momento assai triste, - ma pur pieno di santo orgoglio, - in cui dal Generale Miozzi mi venne consegnata la Medaglia d’oro dal mio Leopoldo meritata. Povero figlio! Ha dato quanto di meglio aveva, - la sua gioventù ed il suo sangue, - per un nobile ideale, senza goder nessun vantaggio dal suo grande sacrificio! Giunsi a Foggia lunedì sera, 18 corrente, col diretto delle 4,30 e mi recai immediatamente dal Generale Miozzi, Comandante il Presidio, un gentiluomo a tutta prova, che mi accolse con una deferenza e con una gentilezza, che certamente non a me erano dirette, ma alla memoria del povero morto. Conobbi così anche il Cav. Michele Nigri, Tenente Colonnello addetto al Comando del Presidio, il quale mi fu largo di elogi pel mio Leopoldo, che egli stimavasi contento di aver personalmente conosciuto. Alle 21 di quella sera fui ricevuto dal Colonnello Cav. Francesco De Salvi, al quale fui presentato dal Generale Miozzi. Ciò che il Di Salvi mi disse di Leopoldo, riempì l’animo mio di mestizia e di orgoglio. Caro figlio mio! In una delle sue ultime lettere mi diceva: «Voi sarete orgoglioso di me». Ha mantenuto, - ed in che modo! – la sua parola! Il Di salvi, - dunque – mi narrò la vita vissuta dal mio prediletto figliuolo dal 4 al 18 Luglio; - non un giorno passò senza che egli non avesse fatto gettito di sé per la pericolosa impresa cui si era votato. «Io, - mi diceva con voce commossa il Colonnello, - io trepidava continuamente per lui, che in quei giorni fece esplodere più di sessanta tubi di gelatina sotto i reticolati nemici; -  e godevo, come se fosse stato un mio figlio, quando calmo, sereno, sorridente lo vedeva far ritorno. che non avrei fatto perché la mattina del 18 Luglio non si fosse esposto alla temeraria impresa?» E terminò il suo dire con queste precise parole: «Dinanzi a Leopoldo Montini io, suo Tenente Colonnello, mi sentivo piccino; - quando a me per ragioni di servizio si presentava, io gli parlavo sempre con rispetto e reverenza, perché io non ero che un tenente Colonnello, Egli era un Eroe!». Le ore che per me passarono fino alle 12,30 del successivo giorno 19 furono di ansie indicibili; - fortuna che avevo con me il primo dei miei figli, - venuto appositamente da Montemarciano, nel quale ospedale presta il suo servizio militare in qualità di farmacista, - che mi faceva coraggio. Verso le 11 cominciarono a radunarsi i soldati in Piazza Prefettura. Il vederli passare, il sapere che fra poco essi avrebbero reso l’estremo onore al mio Leopoldo, l’esser certo che fra tanti Ufficiali là convenuti non avrei visto quell’unico, che formava ogni gioia della mia vita, angustiava tanto l’animo mio, che mi sentivo triste fino alla morte. Eppure mi feci coraggio, ed alle 12 ero là in mezzo a più di duemila soldati, in mezzo alle autorità civili e militari convenute, circondato dalle rappresentanze e dalle bandiere degli Istituti e dei Sodalizi, per ricevere il premio da mio figlio meritato. E quando il Generale Miozzi con voce commossa ne ricordò le virtù, e quando, baciandola, mi consegnò la Medaglia, un velo di lacrime coprì gli occhi miei, e, baciandola anch’io, la strinsi al mio cuore. I soldati presentarono le armi, il Generale mi abbracciò e mi baciò affettuosamente: - forse in quel momento anche le ossa del mio povero Leopoldo avranno provato dei fremiti di esultanza nella sua fossa ignorata! Baciovi. 
Aff.mo Antonio Montini».
 
Di seguito la notizie dell’assegnazione dell’onorificenza, riportata dal giornale La Tribuna in data 8 giugno 1916:
 
«UN EROE
Al giovanissimo sottotenente Leopoldo Montini, della vicina Campodipietra, è stata assegnata la più alta onorificenza di guerra: la medaglia d’oro. Il Montini compì prodigi di valore facendo saltare in aria, alla testa di un reparto, molti reticolati nemici. Ai primi di luglio, in uno scontro sul Carso, trovò gloriosa morte».
 
di Antonio Salvatore
 
 
 
 
 

Montini, concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare (prima parte)

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Con il  Bollettino Ufficiale del 2 Giugno 1916, dispensa 47, pag. 264, Decreto Luogotenenziale dell’11 Novembre 1916, n. 21965/64, Registrato alla Corte dei Conti il 19 Giugno 1916, Registro n. 9 Guerra, f. 287, veniva concessa alla memoria del Sottotenente Leopoldo Montini la più alta onorificenza, la Medaglia d’Oro al Valor Militare, con la seguente motivazione:
 
«Per ben sei giorni consecutivi guidò, volontariamente, gli uomini, incaricati di distruggere, con tubi esplosivi, i reticolati nemici, riuscendo nell’intento. Successivamente, persistendo ancora nella rischiosa impresa, cadde colpito a morte. Monte Sei Busi, 4 – 18 luglio 1915»
 
La concessione della medaglia seguì il suo percorso burocratico, monitorato dalla famiglia Montini. Tra la corrispondenza epistolare presente in casa, è presente una lettera del Capitano Medico Dott. Olinto Marino, addetto al Comando della 14a Divisione, datata 18 febbraio 1916, nella la quale si illustrava lo stato d’avanzamento della concessione della massima onorificenza:
 
«Carissimo amico
 Mi sono affrettato indagare e fare delle ricerche circa le proposte di onorificenze avanzate per il tuo compianto ed eroico figlio, e posso assicurarti che esse sono partite da vari mesi dal Reggimento, e, con parere favorevole, sono passate attraverso il Comando di Brigata e di Divisione. Oltre non mi è stato concesso di seguirle, poiché non saprei a chi rivolgermi per essere sicuro di sapere la verità. Credo però, - e questa è l’opinione anche di altri, di me certo meglio informati, - che tali proposte trovansi ancora al Comando Supremo e presto saranno trasmesse a Roma, perché ad esse si dia esito e decisione definitiva.Bisogna quindi pazientare un altro poco; ma sono sicuro che fra non molto il nome del tuo prode Leopoldo verrà impresso ufficialmente nel Libro d’oro, come lo è già nei cuori di tutti coloro, i quali ebbero l’occasione di constatarne de visu le gesta magnanime ed il sangue freddo ad dimostrato nell’ultima azione, in cui cadde sul campo dell’onore. Nella commemorazione fatta due o tre mesi fa nella Basilica di Acquileia, ed alla quale assistetti anch’io per i caduti della Brigata «Pinerolo», tra i primi era segnato il nome di Leopoldo Montini, e, se non vi si fossero opposte le Autorità Superiori, sarebbe stata inviata ai singoli ricordati una relazione di essa. 
O. Marino»
 
Conclusa la pratica per la concessione,  giunse al Sindaco di Campodipietra il seguente telegramma dal Comandante il Presidio di Foggia:
«Foggia, 16 Dicembre 1916
N. 3088. Risposta foglio 2099 data 10 corrente informo avere autorità superiore datomi incarico solenne consegna Medaglia oro famiglia compianto Sottotenente Montini. Ragioni opportunità specie imminente partenza truppe per zona guerra costringemi effettuare tale consegna lunedì prossimo o più tardi martedì. Prego quindi informarmi giorno ed ora cui la famiglia Montini giungerà Foggia onde stabilire modalità cerimonia. Comandante Presidio Maggiore Generale Miozzi».
 
Alla presenza del padre e del fratello Luigi, il 19 Dicembre 1916, alle ore 12,30, nella Piazza Prefettura di Foggia, alla presenza di circa due mila soldati, di tutte le autorità civili e militari e delle rappresentanze dei sodalizi e degli Istituti scolastici, ebbe luogo la mesta e solenne cerimonia. Queste le parole pronunciate dal Il Generale Carlo Miozzi, Comandante del Presidio Militare di Foggia, all’atto della consegna della Medaglia d’oro al Valor Militare:
 
« Sottotenente Montini Sig. Leopoldo 
La figura morale di questo ufficiale mi è stata così descritta dal suo valoroso comandante di battaglione, colonnello De Salvi, qui presente. Era coraggioso come un leone, e docile e buono come una fanciulla. Pronto agli ardimenti, infaticabile ai disagi, vigile sempre di fronte all’insidia nemica, seppe, con la parola e col sacrificio costante di ogni suo personale interesse, guadagnarsi la stima e l’amore dei suoi soldati, che, con lui e per lui, sfidarono serenamente la morte. Lo si vedeva sorridente e calmo, piccolo e audace, dove i pericoli erano maggiori; e la sua bella fisionomia di adolescente, avido di egregie imprese, era per tutti come uno specchio, sul quale la titubanza altrui si rifletteva con contorni marcatamente brutti. I soldati ne piansero la prematura fine, e al suo corpo dettero la spiritualità poetica di una leggenda. In Selz, a Monte Sei Busi, il 14° reggimento ebbe a sfidare quasi sempre la impresa più arrischiata: quella del taglio dei reticolati nemici. Era, volontario comandate della pattuglia ardita, sempre il sottotenente Leopoldo Montini. Cinque volte, a Selz, collocò e fece brillare i tubi di gelatina esplosiva, sotto il grandinare dei proiettili nemici, per un magico potere, pareva non avessero efficacia sul suo corpo. Era sempre miracolosamente illeso. Ma, a Monte Sei Busi, la sua sorte si decise rapidamente, in una calda giornata di luglio. Il nemico pareva accresciuto di numero e di audacia. Bisognava attaccarlo, per prevenire una possibile mossa. Ma, l’attacco non era possibile, se prima non si rimoveva il solito ostacolo: il reticolato di ferro. Ed il Montini, sempre pronto, sempre temerariamente audace, sempre sorridente, ritornò all’usata prova. Cauto, silenzioso, calmo. Egli esce dalla trincea. I soldati portatori di tubi, lo seguono. Ai primi passi, le vedette nemiche, che spiavano, scorgono la eroica pattuglia, e la bersagliano con una scarica di fucili. Tutti cadono, fulminati, meno il tenente Montini. “che succede, dunque?”, si domanda il comandante di battaglione, che trepidava per lui, e ne avrebbe visto volentieri il prudente ritorno. “Eccolo!”, esclamano alcuni soldati, e lo additano al colonnello De Salvi, nell’atto che afferra il tubo e muove, correndo, sotto il reticolato. La corsa ansiosa procede spedita, “Quel diavolo si salva anche stavolta!”, mormora taluno, e sorride già, spiando dalla feritoia del riparo l’arrischiata operazione. Il tubo è collocato. “Cosa fa?”, domanda un soldato: “Cerca i fiammiferi” risponde un altro. “Li ha trovati e li accende”, aggiunge un terzo. Ma, mentre, ginocchioni, cercava di dar fuoco alla miccia, ecco che si scuote indietro, e rimane immobile. Era stato colpito! In fatti, era stato lì, fermo, colpito a morte! Qualche giorno dopo, il cadavere fu rimosso; e si vide dalla gola e dalla fronte squarciate era sgorgato abbondante sangue. Ma, l’occhio vitreo e sbarrato conservava la sua direzione visuale verso il nemico, e le mani erano rimaste afferrate ai fili d’acciaio del reticolato. I soldati gli composero una modesta bara di legno, e gli sparsero fiori sulla tomba ignorata. Gloria all’Eroe!»
 
Così, invece, le parole dedicate al padre, dallo stesso Generale:
 
  «Lei, Sig. Montini, padre dell’eroico Sottotenente, io rivolgo a nome di tutti gli Ufficiali del 14° Fanteria e di quelli di questo Presidio, una parola di commossa condoglianza. Certo la sorte non Le fu benigna togliendole un foglio così intelligente, così bello per virtù civili e domestiche e così valoroso per virtù militari; - certo a Lei, che ne ricorda la difficile ascesa dall’infanzia alla prima giovinezza, quel caro figlio ha dovuto, morendo, lasciarle un solco ben profondo di dolore nell’anima. E, se la parola di un padre Le può esser di conforto, essa Le dirà che anch’io sento la mia anima spezzata da quel medesimo sentimento, che ora affligge la sua. Ma pensi che il suo sacrificio paterno è coronato da una degna ricompensa: suo figlio, morto per gli uomini, non lo è per la Patria e per la Storia. Verrà giorno che si glorificheranno gli Eroi di questa guerra, ed in quel giorno, che io mi auguro prossimo, Lei saprà che al nome del suo figliuolo sarà accordata la vita eterna sulla ,memoria dei soldati d’Italia e in quella di tutti i buoni cittadini che vorranno leggere le pagine delle nostre gesta nazionali.  E lei allora esulterà di tanto orgoglio. Mi è di conforto consegnarle la lucente aurea Medaglia, che il Luogotenente di S.M. il Re volle conferire alla memoria del Suo Leopoldo. Baciandola, io la depongo nelle sue mani».
 
di Antonio Salvatore