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Africa

Kenia, ancora scontri e morti

Sono salite a sette le vittime del brutale attacco avvenuto tra la notte di domenica e la mattina di lunedi scorso in una località non lontana dal mare della costa orientale del Kenya nella Contea di Lamu. E sono già otto gli arresti, in parte dovuti direttamente alle forze di polizia, in parte all’attività di cittadini che hanno immediatamente reagito al brutale attacco nel quale un uomo è stato ucciso con un colpo alla nuca, un altro decapitato, altri ancora dati alle fiamme nella loro abitazione. Ma la pista iniziale, che aveva puntato il dito contro gli islamisti somali di Al Shabab che più volte hanno sconfinato nella Contea, ha preso un’altra direzione. Secondo l’agenzia Afp, che ha parlato con il portavoce della polizia nazionale Bruno Shioso, le indagini puntano altrove: “Per il momento è stato stabilito che l’attacco è legato a controversie territoriali locali”, ha spiegato il portavoce aggiungendo che tali incidenti sono normali nell’area. Una pista che era emersa già lunedi nonostante la tecnica di attacco ricordasse quella dei guerriglieri somali che hanno alcune basi nella foresta di Boni, nella confinante Contea di Garissa. La Bony Forest, al confine con la Somalia, è una riserva nazionale che copre un’area di oltre 1.300 kmq ed è considerata un santuario della stagione secca per gli elefanti che vivono sia in Kenya sia in Somalia. Nel dicembre 2010, l’Ufficio degli affari consolari del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti l’ha inclusa nell’elenco delle aree del Kenya che i viaggiatori americani dovrebbero evitare a causa di violenza e terrorismo. Gli attacchi di Al Shebab non sono frequenti ma in passato hanno fatto in alcuni casi eclatanti numerose vittime: due in particolare, tra il 2014 e il 2016, con un bilancio di oltre cento morti nella Contea. Nel gennaio 2020 Al Shebab prese d’assalto una base militare statunitense-keniota su una delle isole dell’arcipelago di Lamu, uccidendo tre americani – un ufficiale militare e due appaltatori del Pentagono – e distruggendo diversi aerei. Sempre in quell’epoca il gruppo islamista somalo aveva messo in guardia il Kenya sul fatto che il Paese non sarebbe mai stato al sicuro dopo la decisione di Nairobi di partecipare alla missione militare dell’Unione africana in Somalia denominata Unisom. Tra le varie forme di rappresaglia, la più nota e tra le più devastanti fu l’azione di un commando nel centro commerciale Westgate a Nairobi nel settembre 2013. Causò la morte di 67 persone. La prima reazione dunque è stata quella di pensare alle questioni tra Somalia e Kenya ma poi le indagini hanno deviato in altra direzione. Ciò non di meno la popolazione è particolarmente preoccupata anche perché in gran parte della costa convivono popolazioni di fede cristiana e musulmana. Azioni di questo tipo tendono così ad aumentare rancori e diffidenza anche perché “non è chiaro quale sia il motivo per cui lo fanno – ci dice un abitante della costa- perché questa gente uccide i cristiani senza rubare uno scellino ma solo per la loro appartenenza religiosa”. Su cellulari e Watshapp sono circolate ieri le immagini dei corpi carbonizzati o sfigurati. L’ufficio di presidenza con i ministeri coinvolti nelle gestione della sicurezza ha diffuso a buon conto un allerta, effettivo dal 5 gennaio, denominando parti della Contea “Disturbed aera”. In particolare alcune zone della Lamu West Subcounty : Mukunumbi, Witu, Mpeketoni (dove in passato avvennero stragi) e Hindi nella Lamu Central Subcounty. La zona di Lamu, in particolare l’isola dove si trova la cittadina di Lamu (patrimonio dell’Unesco), è una grande risorsa turistica del Paese con i prezzi della terra che nelle isole, ma anche sulla costa, sono triplicati negli ultimi 15 anni.
 
fonte atlanteguerre.it 
 

The Sudans: is peace really possible?

“Stop fighting and wealth will follow.” The words pronounced by Archbishop Desmond Tutu on July 9th -the day of South Sudan’s first birthday party- may sound obvious or axiomatic, but this is not the case. Calling for actual peace in South Sudan is easier said than done, since the last year as a new born independent nation has proved to be a failure. The divorce from the north was not the beginning of a new era of change and prosperity for one of the poorest countries in the world. Conversely, the long-time craved splitting has amplified the internecine disputes of the two Sudans since independence was gained without tackling and solving the thorny problems which brought about one of the longest and bloodiest civil wars ever seen. As a matter of fact, both Sudans are stuck at the same point they had been left in 2005 when the Comprehensive Peace Agreement was signed so as to end the Second Civil War. However, that peace has never been authentic and even independence finds it hard to bud. The old and deep-rooted conflicts have only been frozen and this is manly due to the UN acting as a mediator who is only putting off the problem solving day and is not playing a key role in establishing effective government institutions and democratic governance. As a result, tribalism is still there as well as political corruption and the risk of bankruptcy which South Sudan went close to several times this year. To make matters worse, the oil and borders prickly issues are still at stake in these days. As it is widely known, the conundrum of the two Sudans is that while most of the oil is in the south, the pipeline runs through the north and this is the very base of the problems between the two nations. Indeed, the north’s government in Khartoum asked for remuneration for letting the south - rich in oil- secede. Therefore, it imposed overblown transit fees for the use of its ports and pipelines. Consequently, in January South Sudan cut off oil production so as to weaken the north, but it got hurt too, for the southern government gets 98 per cent of its revenue from oil sales. From that moment on, threats of a new conflict have always been on the agenda. Yet, only less than two weeks ago- on September 27th - the Sudan and South Sudan’s respective presidents, Omar Al Bashir and Salva Kiir, had four days face-to-face talks in Addis Abeba to set agreements over the oil affair; south has decided to open the spigot again and let the oil flow through north’s pipelines. Even so, it seems like a temporary solution that has been found to satisfy mutual economic self-interest in order to avoid bankruptcy. Furthermore, other crucial problems have not been faced; although the two presidents agreed on a demilitarised zone and principles of border demarcation, little progress has been made to cope with the controversy over disputed border areas such as Abyei and the fate of Blue Nile and Southern Kordofan which are carrying on an insurgency against Khartoum. In this way, peace has been re-established, but again in an ephemeral manner. No wonder then if many of us can still hear the drums of war beating in the background.

di Soraya Carpenito

 

 

Burundi: il secondo mandato di Nkurunziza

 

Il futuro del Burundi tra elezioni e boicottaggi, violenze e minacce. La necessità dell'intervento dell'Unione Europea per la lotta contro la criminalità politica e la garanzia di una maggiore sicurezza. Pierre Nkurunziza è stato rieletto presidente del Burundi. Colpaccio? A quanto pare a Pierre Nkurunziza piace vincere facile, nel senso che nelle presidenziali di lunedì 28 giugno ha praticamente concorso da solo. Le elezioni sono state boicottate da tutti i partiti dell’opposizione tanto che non è stato difficile per Nkurunziza essere rieletto per un secondo mandato con il 91,62% dei voti. Il presidente della Commissione Elettorale Pietro Claver Ndayicariye durante la cerimonia formale ha dichiarato che i dati saranno trasmessi alla Corte Costituzionale che avrà il compito di proclamare i risultati definitivi. L’afflusso alle urne ha raggiunto una percentuale del 76,98% nonostante il ritiro di sei candidati dell’opposizione che contestavano la schiacciante vittoria del partito di Nkurunziza CNDD-FDD nelle elezioni comunali del 24 maggio secondo loro viziate da brogli su larga scala. In merito a quest’ultima vicenda, all’indomani dei risultati elettorali, alcuni membri di partiti politici all’opposizione come l’UPRONA e l’ADC IKIBIRI avevano manifestato a Bruxelles davanti la sede dell’Unione Europea per chiedere l’annullamento delle elezioni. Il progetto “Amatora Meza” ha pubblicato recentemente un rapporto sulle osservazioni presentate dai suoi membri prima, durante e dopo le elezioni comunali del 24 maggio 2010. Secondo il rapporto, il partito al governo, CNDD-FDD ha usato la forza per più del 70% per essere eletto dal popolo. Di seguito il partito FNL, il cui terrore è stimato al 15%. Un'altra formazione citata nel rapporto è quella dell’ UPD che ha influenzato e minacciato gli elettori al 6% per essere eletta. Un'altra costante di questa relazione è la perdita di fiducia nella Commissione Elettorale Indipendente la cui fiducia è passata dall’82 % al 40%. Tornando invece alle elezioni presidenziali, nella provincia di Gitega, l'affluenza alle urne è stata del 78,84% in quella che è la provincia con la più alta densità di popolazione del Burundi, mentre nella provincia di Bujumbura Rural, considerata la roccaforte dei ribelli dell’ FNL, il tasso di partecipazione è stato del 59%. Nel sud del Burundi, nella provincia di Makamba, l'affluenza è stata del 72,76% mentre a nord nella provincia di Kayanza, nota alla cronaca locale per aver subito diversi attacchi con granate nelle ultime settimane, si è registrata un’affluenza pari all’ 84,7%. Percentuale quasi simile nella provincia di Karuzi, ad est del paese, ad eccezione del comune Nyabikere, dove il tasso di partecipazione è stato dell’89,9%. Infine nella provincia di Kirundo, il tasso di partecipazione è stato del 92% delle persone iscritte nelle liste elettorali. La missione di osservazione elettorale (MOE) dell'Unione Europea a seguito dei risultati si è rammaricata per l'assenza di concorrenza pluralistica mentre ha elogiato la buona condotta in cui si sono svolte le elezioni nonostante il partito CNDD-FDD abbia condotto una vasta campagna con l’utilizzo di risorse pubbliche senza essere sanzionato. Quando si parla di buona condotta si intende secondo l’UE, l’Unione Africana (UA) e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Centrale (CEAEAC) la buona disciplina dei votanti, la disponibilità di materiale di voto, la garanzia del segreto e una buona qualità dei sondaggi. Tuttavia gli osservatori internazionali suddivisi in 21 gruppi dispiegati in 12 delle 17 province del Burundi hanno riscontrato in negativo il ritardo nell’apertura di alcuni seggi e la mancanza evidente di un numero adeguato di scrutatori durante il conteggio dei voti. Questa occasione doveva essere il momento per tastare una serie di elezioni in programma per tutta l’estate in Burundi invece il boicottaggio dell’opposizione e un’ondata di violenza che ha ucciso 12 persone ferendone 70, ha riacceso i timori per una pace poco sicura influenzata in maniera negativa dal risveglio dei combattenti in competizione per il potere. Soltanto nella notte tra il 29 e il 30 giugno due persone sono state uccise dall’esplosione di due bombe a mano contro la loro casa a Kenaz nella provincia di Bujumbura Rural. L’amministratore della contea Emmanuel Ntunzwenabagabo ha visto il lancio di queste bombe come un vero e proprio delitto politico che stavano perpetuando gli smobilitati dell’FNL e che miravano ad un membro della famiglia appartenente al CNDD. Lo stesso leader storico del FNL Agathon Rwasa tornato dall’esilio, dopo aver rinunciato a concorrere per la carica presidenziale, in un messaggio audio, ha dichiarato di essere perseguitato e di essere stato costretto a isolarsi e non concorrere per la massima carica istituzionale a causa di minacce di arresto da parte delle autorità. Secondo il presidente dell’Associazione per la tutela dei detenuti e dei diritti umani (Aprodeh) Pierre Claver Mbonimpa almeno 74 dirigenti e attivisti dell’opposizione sono stati arrestati arbitrariamente durante la settimana prima delle elezioni presidenziali. In conclusione nonostante le apparenti rassicurazioni dell’Unione Europea sul corretto svolgimento delle elezioni il clima che si respira in Burundi è tutt’altro che tranquillo. C’è chi minaccia un nuovo colpo di stato che di sicuro non servirebbe al paese. Intanto i partiti dell’opposizione hanno deciso di rinunciare ai prossimi impegni elettorali sperando nella riorganizzazione dell’intero processo elettorale. Per fare ciò chiedono il licenziamento dei membri della Commissione Elettorale Indipendente che si è rivelata incompetente e inadeguata. Chiedono inoltre un dialogo con il partito al potere sulla preparazione, lo svolgimento e il conteggio elettorale, affinché non si ripetano gli scandali delle elezioni comunali dello scorso 24 maggio. La stabilità del Burundi passa per le prossime elezioni anche se i prodromi sono tutt’altro che positivi. L’Unione Europea dovrebbe intervenire in maniera più rigida soprattutto sulla sicurezza e la lotta alla criminalità politica senza limitarsi alla buona condotta del procedimento elettorale. Una maggiore garanzia soprattutto in clima di campagna elettorale renderebbe lo stesso meccanismo elettorale molto più democratico e corretto.

di Roberto Colella

Ruanda: il genocidio non smette di uccidere.

 

Ad agosto le seconde elezioni dal 1994, annus horribilis del paese africano. Arresti, conflitti sociali ed ex attivisti militari che diventano eroi di pace. Il paese si sta rialzando, ma le ombre del passato incombono ancora. Lo sa bene Peter Erlinder, il professore del Minnesota arrestato il 28 maggio in Ruanda e rilasciato neanche un mese dopo per motivi di salute, che sul genocidio tra Hutu e Tutsi è meglio tacere. Dopo 16 anni, rimangono un mistero i moventi e le cause della guerra civile ruandese, mentre l'attuale presidente Kagame è ormai accreditato come “uomo di pace” e, come tale, presiede la Commissione anti-povertà dell'Onu, insieme al presidente di turno dell'Ue, il premier spagnolo Zapatero. La copresidenza è stata accettata da Kagame il 25 giugno, poche ore dopo l'uccisione di Jean Leonard Rugambage, colpevole, secondo l'establishment presidenziale, di aver diffuso notizie false sul tentato omicidio in Sudafrica di Faustin Nyamwasa, alleato militare di Kagame dai tempi del genocidio. Da tempo il Ruanda ne chiede l'estradizione, poiché considerato terrorista e possibile rivale di Kagame il quale, al riguardo, ha anche pubblicamente affermato che “non c'è solo l'estradizione come metodo per risolvere questo problema.” Era solo il 2006 quando un giudice di Parigi indicò proprio in Kagame uno dei principali autori dell'omicidio dell'ex presidente Habyarimana, che scatenò il genocidio. Ora, alcuni lo chiamano l'Obama dell'Africa, altri lo paragonano a Saddam Hussein. Paul Kagame, presidente del Ruanda dal 2003, eletto con il 94% dei voti, è salito la ribalta anche grazie alla sua partecipazione a eventi come il Tribeca Film Festival (lo scorso 26 aprile), in virtù della sua comparsa nel documentario “Earth Made of Glass”, che indica la Francia come corresponsabile della crisi istituzionale e umanitaria del 1994. “Un esempio da seguire nel gestire il post genocidio”, afferma l'Onu relativamente al Ruanda odierno. Sarà per questo che Nyamwasa rimane uno scomodo testimone in vista delle elezioni di agosto, essendo egli stato il generale in carica sotto Kagame all'epoca del genocidio. Una delle ex colonie più turbolente dell'Africa, il Ruanda cerca di mettere sotto chiave il passato: a partire da chi, come Kagame, è stato protagonista degli scontri. Molti sono i processi in corso, tra cui anche un Tribunale internazionale (ad Arusha, in Tanzania), creato ad hoc per cercare di dare un nome ai responsabili degli scontri tra Hutu e Tutsi. Kagame, appartenente a quest'ultima etnia, è considerato a livello internazionale come colui che ha pacificato il suo popolo, dopo tre mesi di massacri costati oltre 800 mila vittime. Eppure, nonostante la collaborazione dell'odierno Ruanda, sono state solo 29 le condanne da parte del Tribulane di Arusha, tra cui l'ergastolo per Jean Kambanda, unico caso di ex premier reo confesso di genocidio. Passi in avanti che non sembrano cambiare la sostanza dei metodi utilizzati in Ruanda, dove – secondo il dipartimento investigativo centrale – solo tra il 2007 e il 2009 sono avvenuti oltre 2000 casi di omicidio, torture e intimidazioni nei confronti di sopravvissuti al genocidio. Resta il fatto che, come in molti casi africani, è difficile isolare il marcio in un'amministrazione pubblica intrisa di nepotismo ed etnicismo. La comunità internazionale è però decisa a riabilitare il Ruanda – a partire dalla Francia, dove a marzo di quest'anno i postumi del genocidio si sono rifatti sentire, con l'arresto di Agathe Habyarimana, appartenente alla dinastia Kanziga, nota anche come il Clan di Madame. Esponente dell'Akazu, l'elite Hutu, Madame Agathe è ora in galera in Francia, a due passi dall'ex potenza coloniale che aveva contribuito a creare il Ruanda stesso, il Belgio. Era il 1931 quando Bruxelles imponeva una carta d'identità ai ruandesi, riportante anche l'appartenenza etnica. Gli Hutu e i Tutsi, rispettivamente contadini e allevatori, furono assegnati a due categorie diverse, due classi destinate, prima o poi, a scontrarsi. Madame Agathe deve aver creduto che ne valeva la pena, se ha pensato bene - come indica l'arresto francese - di uccidere suo marito, Juvénal Habyarimana. Presidente del Ruanda dal 1973 al 1994, anno del genocidio, Habyarimana non riuscì a far dimenticare quella divisione in etnie e fu proprio grazie all'identificazione etnica nei documenti (introdotta dal Belgio) che furono possibili i massacri del 1994, all'indomani della morte di Habyarimana. Pronta fu l'evacuazione della moglie, Agathe, a spese del governo francese, che la fece rientrare nel programma di aiuto economico per i rifugiati del Ruanda fino al 2007, anno in cui le fu rifiutato l'asilo politico in Francia. Nel frattempo nessuna indagine ha fatto chiarezza sulla morte di Habyarimana, colpito da un razzo mentre viaggiava in aereo insieme a Cyprien Ntaryamira, settimo presidente della repubblica del Burundi, morto anch'egli nell'attentato. Che, secondo fonti del ministero della Giustizia ruandese, sarebbe stato orchestrato dalla moglie Agathe. Da simbolo dell'Akazu, l'élite Hutu ruandese, ora Madame Agathe, 67 anni, è diventata Lady Genocide, conosciuta in patria e all'estero come la mandante dell'assassinio di suo marito, nonché una delle menti del genocidio. Dopo quasi 20 anni di controversie, la Francia cerca di porre la parola fine al massacro. E lo fa venendo a patti con l'attuale regime di Kagame, di cui si attende un'altra dilagante vittoria nelle prossime elezioni, all'insegna dell'appoggio internazionale. È bastata, infatti, una visita a Kigali da parte di Sarkozy a far scattare le manette ai polsi di Madame Agathe. Ora Kagame farà di tutto per avere Lady Genocide nelle sue mani e far dimenticare le pesanti accuse, mai accertate, nei suoi confronti. Sarkozy ha messo dunque la firma su un arresto eccellente, con la speranza che questo ponga fine a 4 anni di gelo diplomatico con il Ruanda. Intanto, mentre l'Africa si gode lo spettacolo del pallone mondiale, a Johannesburg si consumano gli epiloghi di uno dei massacri più cruenti del XX secolo. Proprio qui, infatti, l'11 giugno è stato arrestato l'ennesimo ufficiale ruandese su ordine del proprio paese. Si tratta di Jean Bosco Kazura, in Sudafrica in veste di capo della Federazione calcistica ruandese. Motivo dell'arresto: “Pur se presidente della Federazione, Kazura è un militare e, in quanto tale, avrebbe dovuto chiedere il permesso prima di recarsi in Sudafrica, dove sono presenti dissidenti dell'esercito che lui ha già avuto modo di conoscere”, ha spiegato il colonnello Rutaremara alla Bbc. A chi gli chiede cosa ne pensi di tali controversi eventi, Kagame risponde che è tempo di rimboccarsi le maniche e lavorare per un Ruanda di tutti, che il genocidio è passato e le accuse di brogli alle elezioni pure, che alle prossime elezioni sarà ancora lui a traghettare il paese fuori dal conflitto sociale indotto dalle grandi potenze coloniali, come la Francia. Non è la prima volta che un ex attivista armato diventa un eroe di pace. Ma questo, forse, non andrà giù a Faustin Nyamwasa. E nemmeno ai parenti di Leonard Rugambage, ucciso davanti la porta di casa sua, a Kigali. In Ruanda il passato non è ancora sconfitto.

Fonte Limes