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Temi globali

Elezioni regionali in Catalogna, vincono gli indipendentisti

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Barcellona. La maggioranza degli elettori catalani ha preferito l'animo indipendentista a quello unionista di Madrid: è questo il primo verdetto emesso dalle urne. Elezioni disputate in un clima eccezionale: infatti ben 2 dei 7 candidati alla presidenza non hanno potuto votare: il presidente uscente destituito Puigdemont, capolista di JuntsXCat é attualmente in esilio in Belgio e Il leader di Erc Osqueras é in custodia cautelare. L'affluenza alle urne è stata molto elevata, circa l'82% dei 5,5 milioni di aventi diritto. Gli elettori hanno voluto dimostrare, con questa partecipazione di massa alle urne, la loro intenzione di non essere sottomessi alla Spagna: infatti attualmente, dopo l'applicazione dello scorso 27 ottobre dell'articolo 155 della Costituzione, la Catalogna ha perso tutta la sua autonomia. Come detto in precedenza a prevalere sono stati i partiti indipendentisti che avranno nel futuro parlamento una maggioranza risicatissima sull'opposizione unionista: 70 seggi su 135. A rappresentare la maggioranza saranno il partito di Puigdemont JuntsXCat (34 seggi), la sinistra radicale dell'ex vicepresidente Osqueras (32 seggi) e il Cup di Carles Riera (4 seggi). Ma primo partito in assoluto é stato Ciutadans, lista centrista unionista capeggiata dalla deputata 36enne Ines Arrendas, che fa riferimento a Ciudadanos di Albert Rivera. Il carisma e l'abilità oratoria di questa donna, hanno spinto ben 1,1 milioni di persone a votarla. Nel discorso di ringraziamento di ieri sera la Arrendas ha affermato: "Questa è una meravigliosa vittoria per la Catalogna, per la Spagna e per L' Europa". Il suo sogno: "Conquistare un giorno la presidenza della Generalitat". Tra gli altri partiti in lizza vi é un leggero calo per i socialisti catalani di Iceta e un buon risultato Della lista civica di Ada Colau, sindaco di Barcellona appoggiata da Podemos. Risultato molto negativo per il Partito Popular del premier Mariano Rajoy che racimola soltanto il 4% dei voti e 3 seggi in Parlamento che non saranno sufficienti per formare un gruppo parlamentare autonomo. Adesso scattano le trattative per trovare un'intesa di governo, non facili siccome dovranno convergere su un unico presidente. JuntsXCat rivendica, in quanto primo partito di coalizione, Puigdemont come presidente, che però almeno al momento non può svolgere le sue funzioni in quanto in patria pendono su di lui varie accuse che, se confermate, equivalgono a circa 30 anni di carcere. Gli accordi però dovranno concludersi entro il 23 gennaio, ultima data disponibile per convocare la prima seduta del Parlamento. In caso contrario entri tre mesi il governo centrale dovrà indire nuove elezioni. Bisogna attendere però se la Spagna, revocherà adesso, come promesso, l'articolo 155. Un cosa é certa: la situazione catalana potrà essere risolta soltanto con una mediazione tra UE, stato spagnolo e governo regionale.
 
di Giuseppe Petruccelli

Francia, ritratto di Laurent Wauquiez neopresidente de Les Republicains

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Tolone (Francia). Domenica scorsa, in un Palais Neptune strapieno, è stato eletto il nuovo presidente de Les Republicains, partito erede della destra gollista francese. Si tratta di Laurent Wauquiez, 42 anni, volto nuovo del centrodestra francese. Un plebiscito per lui: con oltre il 74% dei voti non si è dovuto ricorrere nemmeno al ballottaggio. A Wauquiez tocca adesso un compito arduo: guidare un partito che ha subito scandali, sconfitte elettorali e scissioni negli ultimi anni. La più terribile qualche mese fa, quando il candidato di centrodestra all’Eliseo Fillon non è arrivato al ballottaggio, evento molto raro nella storia politica francese. Per non ripetere gli stessi sbagli del passato, Wauquiez è davanti a un bivio:unificare un partito diviso tra l’ala radicale e quella moderata o cercare i voti ancora più a destra. Obiettivo comune: vincere le elezioni presidenziali del 2022 e riportare dopo dieci anni i gollisti all’Eliseo. Subito dopo la vittoria, infatti, Wauquiez ha alzato i toni: “La destra è tornata”. Le parole d’ordine dei Les Republicains nella prossima campagna elettorale saranno: rafforzare l’identità cattolica contro l’Islam, condurre politiche sull’immigrazione dure e vedere una UE condotta dagli Stati membri e non dai burocrati di Bruxelles. Wauquiez è stato votato poiché rappresenta al meglio l’immagine di un politico anti-establishment proveniente dalle aree rurali lontane dalle grandi città. Rappresenta quelli che hanno votato prima De Gaulle, poi Chirac e Sarkozy e che negli ultimi anni sono rimasti affascinati dal Front National di Marine Le Pen. Anche dall’abbigliamento dimostra di essere un uomo comune, proveniente dalla medio borghesia provinciale: senza cravatta e con un parka rosso sopra la giacca. Egli incarna il politico più a destra e più connesso con la pancia del Paese. Per riconquistare questo elettorato e fermare l’emorragia di voti, i membri del partito lo hanno scelto. Wauquiez ha cominciato a fare politica dal basso: nel 2008 è diventato sindaco di Le Puy-en-Velay, un comune di circa 20mila abitanti. Poi, nel 2015, è stato eletto presidente dell’Alvenia-Rodano-Alpi, una delle macroregioni francesi più popolose. Wauquiez conosce i problemi e i desideri di quella Francia cheha perso il lavoro per colpa della globalizzazione e mal sopporta la prima, seconda e terza generazione di immigrati. Parla il loro linguaggio, sa usare le parole giuste per convincere chi ha nostalgia del passato e paura del futuro. Wauquiez si ispira a due modelli politici: Chirac per i modi di relazionarsi con le persone e Sarkozy per la determinazione. Fu proprio quest’ultimo a nominarlo portavoce del premier Fillon nel 2007. Molti associano la sua figura a quella dell’ex presidente: gli stessi slogan (“Ici c'est la France”), gli stessi gesti e addirittura gli stessi temi. Infatti, Wauquiez è noto per alcune sue posizioni estremiste mentre era sindaco: nel 2016 si rifiutò di celebrare un matrimonio gay e di accogliere i profughi. Su queste tematiche la sua posizione è molto vicina a quella del Front National. Dalla convention di domenica, in molti parlano di una possibile alleanza tra il partito della Le Pen e Les Republicains per contrastare En Marche di Macron. Voce subito smentita dalla numero due di Wauquiez, Virginie Calmels. Infatti, la strategia di Wauquiez è chiara: Les Republicains non si alleeranno mai con il Front National perché vogliono svuotare il bacino elettorale di Marine Le Pen. Inoltre, durante un comizio, il neopresidente ha definito la leader di FN “non all’altezza” e “non la voteranno mai”. Serve, secondo lui, una figura carismatica che non venga largamente sconfitta al ballottaggio.  Nel corso degli anni Wauquiez ha cambiato più volte idea sull’Unione Europea. Inizialmente a favore dei trattati di Roma, nel 2011 ha definito Schengen “un colabrodo” e l’Erasmus “una truffa”. Inoltre vorrebbe abolire l’attuale commissione europea e creare un’unione a sei stati. In una recente intervista ha criticato il presidente francese Macron sulla proposta di riforma dell’eurozona.  Sono evidenti i segnali che Wauquiez voglia diventare l’anti-Macron. I due hanno alcune caratteristiche comuni: entrambi hanno meno di 45 anni, sono nati in provincia e hanno frequentato lo stesso prestigioso liceo di Parigi: l’Henri-IV e l'Ecole nationale d'administration (ENA), la scuola d'elite che forma la classe dirigente francese. Le somiglianze però terminano qui. Macron viene dalla media borghesia, Wauquiez invece da una famiglia di industriali tessili e navali di origine belga. Le dichiarazioni di Macron sono complesse, articolate e, alcune volte, pesanti; il linguaggio di Wauquiez è invece diretto, semplice, quasi provocatorio. Macron intende presentarsi alle elezioni europee 2019 con una lista europea federalista che superi le distinzioni destra e sinistra. Wauquiez invece porterà avanti la sua visione di un’Unione europea più in mano ai governi nazionali. La scommessa dei Les Republicains sarà quella di porre Wauquiez come uomo del fare, concreto contro le promesse non mantenute da Macron. Il leader del partito ha già attaccato varie volte il presidente francese sull’immigrazione e sull’economia. Ma non solo. Ha toccato due temi cari alla destra: propone un enorme taglio della spesa pubblica, pari 55% del PIL, e critica la riforma sul lavoro di Macron, giudicata molto timida. La vittoria di domenica ha consegnato alla Francia un nuovo leader destinato a cambiare lo scenario dei prossimi anni. Anche se solo centomila militanti dei Les Republicains hanno votato nelle elezioni interne, quasi cinquantamila in meno rispetto alle stesse elezioni del 2014, ci sono grandi aspettative. La strada per il nuovo leader dei Les Republicains è appena iniziata.

di Giuseppe Petruccelli

Il generale Claudio Graziano nominato presidente del Comitato Militare Europeo

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“Sono onorato della nomina a Presidente dello European Union Military Committee e ringrazio tutti i Capi di Stato Maggiore della Difesa dei Paesi dell’Unione per la fiducia accordatami. Desidero esprimere la mia gratitudine al Governo, e in particolare al Ministro della Difesa, Senatrice Roberta Pinotti, per il pieno supporto alla mia candidatura. All’attuale Chairman, il Generale Mikhail Kostarakos, rivolgo un caloroso ringraziamento per lo straordinario lavoro svolto. In attesa di assumere l’incarico, voglio rimarcare che continuerò ad assolvere, con assoluta dedizione e grande orgoglio, i compiti di Capo di Stato Maggiore della Difesa al servizio del Paese e confermo la mia ammirazione per tutti i militari italiani che quotidianamente, in Patria e all’estero, operano con grande e coraggio e abnegazione. Posso solo anticipare che, una volta in carica, mi impegnerò al massimo delle mie capacità per rafforzare ulteriormente l’autorevolezza del Comitato Militare, per contribuire fattivamente al progetto di realizzazione della Difesa europea e per garantire che l’Unione Europea sia pienamente in grado di rispondere a 360º alle nuove sfide alla sicurezza”. Questa la prima dichiarazione del Generale Graziano, neo eletto Presidente del Comitato Militare dell’Unione Europea (Chairman of the European Union Military Committee – CEUMC) dai 27 Capi di Stato Maggiore della Difesa dei Paesi membri dell’Unione Europea, riunitisi oggi a Bruxelles. L’incarico, di durata triennale, sarà ricoperto a partire dal mese di novembre 2018, quando il Generale Graziano succederà all’attuale Presidente, il Generale Mikhail Kostarakos, in carica dal 6 novembre 2015. Il Presidente del Comitato Militare è la più alta autorità militare della UE e, come tale, è il consulente militare dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione, ma ha anche il compito di presentare i pareri e le decisioni di natura militare, assunte dal Comitato Militare, presso il Comitato Politico e di Sicurezza (PSC), nonché di fornire direttive e linee guida al Direttore Generale dello European Union Military Staff (EUMS). Il Comitato Militare è stato istituito, con decisione del Consiglio dell’Unione Europea, il 22 gennaio 2001, con il compito di dirigere tutte le attività militari nel quadro dell’UE, con particolare riferimento alla pianificazione e l’esecuzione delle missioni militari. L’Italia aveva già ottenuto la guida dell’alto consesso con il Generale Rolando Mosca Moschini, che fu in carica dall’aprile 2004 al novembre 2006. L’odierna nomina, oltre a confermare la chiara professionalità del Generale Graziano e la stima di cui gode a livello internazionale, è anche una preziosa conferma di quanto sia apprezzato l’impegno delle Forze Armate italiane nel mondo. I militari italiani garantiscono infatti un contributo fondamentale per l’Unione Europea, non solo in termini di partecipazione numerica, ma anche per la qualità professionale dimostrata in decenni di partecipazione alle operazioni della UE. Parimenti, la nomina del Generale Graziano è anche un riconoscimento del ruolo politico-strategico giocato dal nostro Paese, che crede profondamente nella necessità della creazione di un sistema di Difesa europea.

fonte Stato Maggiore della Difesa

Referendum indipendentistico spagnolo: tensione tra la Catalogna e Madrid

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Agli inizi del mese di giugno 2017, il Parlamento della Catalogna con legge regionale, ha deciso di indire un nuovo referendum sull’indipendenza della comunità autonoma di rappresentanza, predisponendo il giorno delle consultazioni per il 1 ° ottobre dello stesso anno, dopo le precedenti elezioni che si erano tenute il 9 novembre 2014 e che avevano decretato un nulla di fatto. In realtà, il tentativo di disporre di consultazioni referendarie è da ricercare indietro nel tempo, infatti tra il 2009 e il 2011, vennero organizzati dei referendum non vincolanti e non ufficiali a carico dei volontari di ogni comune, ottenendo una larga risposta a favore dell’indipendenza. Le motivazioni per cui la Catalogna vuole divenire un vero e proprio Stato autonomo appartenente all’Unione Europea, sono da ricercare nella specificità delle sue caratteristiche linguistiche e tradizional-culturali. Tornando al quesito referendario dello scorso 1° ottobre, le reazioni del governo e delle istituzioni centrali spagnole non si sono fatte attendere, infatti, il 7 settembre il tribunale costituzionale spagnolo ha accolto il ricorso del governo centrale di Madrid presieduto da primo ministro Mariano Rajoy con cui si chiedeva l'annullamento per incostituzionalità della legge regionale catalana che aveva istituito il referendum, annullando la sopracitata legge. Insieme alla sentenza del tribunale costituzionale, è giunto anche l’intervento della procura generale, che ha denunciato per i reati di disobbedienza e prevaricazione Carles Puigdemont, presidente del Governo della Catalogna insieme a tutti i membri dell'Ufficio di presidenza del Parlamento regionale, ordinando a tutte le forze dell’ordine del Paese d’impedire lo svolgimento di tale referendum e di sequestrare il materiale di propaganda e le urne. Nella giornata del voto, ci sono stati momenti di tensione con tafferugli tra la polizia e i cittadini che intendevano votare con più di ottocento feriti. Andando ad analizzare i risultati finali del voto, secondo il parlamento catalano, avrebbero votato 2.286.217 di persone aventi diritto (43,03 %), con 2.044.038 SÌ (92,01%) e 177.547 NO (7,99%).  Il governo centrale spagnolo, ha ribadito fortemente di negare la validità alla consultazione. Nei giorni a seguire, il parlamento catalano, ha emanato la “Dichiarazione d’indipendenza della Catalogna”, un documento che assume valenza di Costituzione con il quale si dichiara la Catalogna Stato indipendente dalla Spagna che però è stata sospesa in attesa di una contromossa da parte di Madrid. Il governo spagnolo potrebbe applicare l’articolo 155 della costituzione, che dichiara che se un governo regionale mette in atto un comportamento tale da andare contro gli interessi dell’intera nazione, lo Stato può assumere il controllo delle istituzioni politiche ed amministrative della regione autonoma “ribelle”.

di Domenico Pio Abiuso   

 

La Car Intifada sbarca anche in Europa

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Un camion sulla folla. Persone innocenti investite e uccise. A volte anche un Suv lanciato a tutta velocità può causare morti. Purtroppo è una pratica diffusa tra i militanti jihadisti. La mente va a quello che successe con la "car intifada" in Israele dove macchine a tutta velocità vennero lanciate sui civili. La campagna più famosa è intitolata Daes, che si traduce con “investire”. Daes è anche un riferimento a Daesh, l'acronimo in arabo di Isis. Le campagne online sono caratterizzate da vignette che istigano i palestinesi a utilizzare i loro mezzi di trasporto per uccidere gli israeliani. Una vignetta raffigura un bambino con in testa la fascia verde di Hamas e al volante di un'auto. La didascalia recita: “O palestinese, guida, va avanti!”. In Europa questa pratica venne battezzata a Nizza. 84 morti schiacciati da un tir impazzito. Ancora una volta l’attentatore franco-tunisino di Nizza non aveva un passato limpido e integrato. Anis Amri l'attentatore di Berlino ucciso a Sesto San Giovanni in una sparatoria con la polizia, era l'uomo che ha lanciato un camion sulla folla del mercatino di Natale nella capitale tedesca, uccidendo 12 persone, tra cui l'italiana Fabrizia Di Lorenzo, e ferendone una cinquantina. “Avrebbe potuto compiere altri attentati, era una scheggia impazzita, un latitante pericolosissimo" aggiunse il questore di Milano. Il tir con targhe polacche in base a una prima ricostruzione, era partito dall'Italia e doveva fermarsi a Berlino per consegnare un carico di ponteggi d'acciaio. Il proprietario dell'azienda di trasporti con sede a Danzica, Ariel Zurawski, ha riferito che alla guida del mezzo c'era un suo cugino, camionista da 15 anni. Zurawski ha aggiunto che dalle 16 di quel pomeriggio nessuno aveva più avuto notizie del suo congiunto. Neppure la moglie era riuscita a parlargli. L'ipotesi che emerge da questo racconto è che il camion sia stato in qualche modo dirottato, che l'autista sia stato costretto a guidare fino al luogo della strage, per poi essere eliminato dal dirottatore o essere ucciso dalle forze dell'ordine. Altro camion, altro attentato, stavolta a Londra. Si chiamava Khalid Masood e aveva 52 anni l'uomo che ha ucciso tre persone prima di essere colpito a morte dagli agenti di guardia a Westminster. L'Isis ha rivendicato l'attentato con un comunicato diffuso da Amaq, l'agenzia di propaganda del Califfato. Dal comunicato si apprende che il kamikaze è un 'soldato' che ha risposto alla chiamata a colpire i Paesi che fanno parte della coalizione impegnata contro l'Isis. Il suo fascicolo alla polizia racconta condanne per lesioni aggravate e possesso di arma già nel 1983 e ancora nel 2003. Tuttavia il suo nome non compariva nella lista dei potenziali terroristi stilata da Scotland Yard. Infine un altro attacco terroristico nel cuore dell’Europa, questa volta in Svezia. Un camion ha falciato un gruppo di persone che camminavano nel centro di Stoccolma, per poi schiantarsi dentro Ahlens City, il centro commerciale più grande della città. Il bilancio è stato di quattro morti e 15 feriti. Nel camion, scrivono vari siti svedesi citando fonti della polizia, gli agenti hanno trovato una borsa con dell'esplosivo. Questa nuova pratica ci rende ancora più fragili e vulnerabili, perché non servono armi pesanti e tecnologiche, ma basta un mezzo della quotidianità per fare vittime: quello che alcuni studiosi hanno definito una polarizzazione inversa dei mezzi tecnici.

di Daniele Leonardi

Italia, rischio concreto di azioni terroristiche

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E' "sempre più concreto" il rischio che alcuni soggetti "radicalizzati in casa" decidano di non partire verso Siria ed Iraq determinandosi "a compiere il jihad direttamente in territorio italiano". Lo segnala la relazione annuale dell'intelligence inviata in Parlamento, che parla di "pronunciata esposizione dell'Italia alle sfide rappresentate dal terrorismo jihadista". Alle minacce alla sicurezza "non si risponde chiudendosi ma accettando la sfida. Più sicurezza non vuol dire meno libertà", dice il premier Paolo Gentiloni, presentando con il direttore del Dis Pansa la relazione annuale sull'intelligence. "I cittadini italiani possono essere certi, non della mancanza di minacce perché sarebbe un'illusione ma della la qualità molto alta di chi lavora per contrastarle". La relazione annuale sulla politica dell'informazione per la sicurezza "racconta pur tra mille contraddizioni la capacità che c'è stata di conoscere, prevenire e contrastare sfide e minacce di vario tipo anche relativamente nuove per noi. E' motivo di soddisfazione", ha detto Gentiloni. "L'Italia deve difendersi e difendere la propria sovranità. Non è nessuna concessione a strane idee di voler riportare in Ue dinamiche conflittuali nei singoli paesi, noi crediamo nell'Europa ma difendiamo tuttavia i nostri interessi tecnologici e strategici", ha detto ancora il premier alla presentazione, a Palazzo Chigi, della Relazione annuale sulla politica dell'informazione per la sicurezza, a cura del Dis.

fonte Ansa

L'attentato di Istanbul e il nuovo scenario turco

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Nella notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio alla discoteca Reina di Istanbul, nel quartiere Besiktas situato nella zona est, è andato in scena un cruento attentato in cui hanno perso la vita 39 persone. Sin da subito la polizia è partita alla ricerca del killer che era partito da Zeytinburnu nella parte sud di Istanbul, luogo in cui si annida da diverso tempo una cellula dell’Isis e teatro nei giorni precedenti la strage di numerosi arresti. La situazione è allarmante per diversi motivi in quanto la Turchia è al confine con l’Europa e costituisce una porta d’ingresso per i terroristi diretti in Siria. Come se non bastasse si aggiunge anche l’altalenante politica estera di Erdoğan. Sebbene lo stato turco fino a poco mesi fa non conduceva una lotta serrata al Daesh e appariva abbastanza permissivo nei confronti del terrorismo, ora i nuovi accordi stipulati con Mosca e Teheran hanno cambiato radicalmente la politica estera. Inoltre il colpo di stato dello scorso luglio ha trasformato definitivamente la regione anatolica in una sorta di regime islamico sempre più lontano dall’Unione Europea. Non si percepisce la portata dei futuri cambiamenti, non sappiamo se nascerà una nuova organizzazione che si opporrà alle Nazioni Unite, di sicuro la Turchia è al centro di questo scenario e imporrà con fermezza la sua linea, considerando che è dotata di uno tra i più potenti eserciti al mondo. Non dobbiamo fermarci all’attentato in sé, oppure a ipotizzare ciò che accadrà, ma per il momento abbiamo soltanto questi dati su cui riflettere e le prime impressioni appaiono negative. In questo gioco tra le parti non è tanto la minaccia terroristica a tenere banco, perché esso è possibile ostacolarlo al momento opportuno con una solida strategia (almeno questo pensa chi scrive), ma ciò che spaventa davvero sono le scelte politiche dei singoli stati. Nel caso di Istanbul, che è soltanto l’ultimo di una serie abbastanza ravvicinata di attentati, la vendita di armi da parte del regime di Erdoğan agli jihadisti ha comportato un notevole spargimento di sangue. Questo l’abbiamo capito soltanto alcuni mesi dopo, quando ormai era troppo tardi per rimediare, e ora gli attacchi dell’aviazione turca in Siria contro l’Isis risultano inefficaci. Il terrorismo 2.0 ha cambiato le modalità, miete vittime nei luoghi di aggregazione come bar, ristoranti, discoteche e teatri (si pensi al Bataclan). La strategia dei lupi solitari, cioè di singoli che compiono attacchi, almeno per ora sembra inarrestabile. Così nello stato di terrore aumenta l’insicurezza, le decisioni intraprese risolvono nell’immediato e appaiono come una toppa che chiude provvisoriamente un buco. È necessario trovare soluzioni durature, ma questa è proprio la difficoltà del momento, perché sono presenti una moltitudine di interessi economici e politici che non facilitano il compito degli organismi sovranazionali.

di Daniele Altina

Uccisa la mente della strage di Charlie Hebdo

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Un leader del presunto Stato Islamico ritenuto la mente dell'attacco al giornale satirico francese Charlie Hebdo (a Parigi nel gennaio 2015) è stato ucciso in un raid aereo americano in Siria. Lo hanno reso noto stasera fonti militari Usa, precisando che Boubaker el Hakim è morto a Raqqa lo scorso 26 novembre. Franco-tunisino, 33 anni, el Hakim è stato il mentore dei fratelli Said e Sherif Kouachi che fecero strage di giornalisti e disegnatori di Charlie Hebdo

fonte Ansa

L'Isis in crisi di bilancio

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Secondo uno studio di IHS Jane’s emerge che nel marzo 2016 le entrate mensili dello Stato islamico sono scese a 56 milioni di dollari. A metà 2015, l’insieme dei ricavi su base mensile era in media di 80 milioni di dollari. Il rapporto aggiunge inoltre che la produzione di petrolio nelle zone sotto il controllo jihadista è anch’essa diminuita, passando da 33mila a 22mila barili al giorno. Almeno la metà dei soldi che confluiscono nelle casse di Daesh provengono dalle tasse e dalla confisca di imprese e beni. Il petrolio costituisce il 43%, mentre la parte restante è frutto del traffico di droga, vendita di energia elettrica, cui si aggiungono donazioni. Per sopperire alle perdite, i leader del movimento ultra-fondamentalista islamico sunnita hanno aumentato i balzelli nei servizi di base: fra questi vi sono le tasse agli autisti di camion, imposte per chi vuole installare o riparare antenne paraboliche e “dazi sull’uscita” per chi vuole lasciare una città o un villaggio nelle mani dell’Isis. Secondo invece il Centre on Religion and Geopolitics la dissoluzione dell’autoproclamato califfato non “porrà fine al jihadismo globale perché per realizzare questo obiettivo bisogna sconfiggere la sua ideologia teologicamente e intellettualmente”. Il rapporto sottolinea come il pericolo più grande per la comunità internazionale non sia rappresentato tanto dagli uomini del “califfo”, ma dai gruppi che condividono la sua stessa visione e che vengono ancora del tutto ignorati. L’Occidente, sostiene l’istituto, si sforza di dividere i gruppi ribelli siriani in “moderati” ed “estremisti”, ma queste distinzioni sono inappropriate perché le stesse formazioni combattenti non sanno farne una distinzione.

L'Italia tra i primi dieci esportatori di armi al Mondo

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In Africa 18 miliardi di dollari all'anno vengono spesi per uccidere migliaia e migliaia di persone, sofferenti per la povertà. Su 500 milioni di Salw (armi piccole e leggere) circolanti nel mondo, ben 100 milioni si trovano clandestinamente nel continente nero. Questo emerge dallo studio, aggiornato dell'Archivio Disarmo. Il report di Maurizio Simoncelli è stato esposto nell'ambito del convegno “Africa, Continente in cammino”, a Roma, presso il Seraficum, Università Pontificia di Roma. “Le spese militari dell'Africa sono andate crescendo costantemente dal 1990 a oggi”. Così Simoncelli, vicepresidente dell'Archivio Disarmo, apre il suo studio sul commercio di armi in Africa. Gli embarghi delle Nazioni Unite, che cercano di bloccare le vendite regolari di armamenti tra stato e stato, vengono aggirati da traffici clandestini. Queste armi provengano dagli arsenali di conflitti conclusi, da quelli di guerre in atto in aree vicine, da forze di sicurezza che le vendono o le noleggiano, da governi simpatizzanti, da importazioni esterne all'Africa stessa. Come ricordato, in Africa i costi connessi ai conflitti armati ammontino a circa 18 miliardi di dollari all'anno, annullando completamente gli effetti positivi degli aiuti allo sviluppo. Armi e munizioni vengono vendute anche attraverso i mezzi di comunicazione come Facebook, il che ha permesso di rilevare la presenza in Libia di munizioni provenienti dalla turca Özkursan, dalla belga FN Herstal, dalla portoghese Fábrica Nacional de Munições de Armas Ligeiras FNMAL, dalla russa Barnaul Cartridge Plant CISC, dalla SNIA italiana, dalla cinese Industria di Stato 31 e così via. Il violento gruppo jihadista nigeriano Boko Haram, che ha dichiarato incondizionata adesione all'Isis, per esempio, si è rifornito non solo al mercato nero nell'Africa centrale, occidentale e settentrionale, ma anche direttamente dai depositi delle forze armate e di sicurezza della Nigeria, che a sua volta le aveva acquistate da Italia, Francia, Cina, Russia, Ucraina, Repubblica Ceca, Israele, Sudafrica e Emirati Arabi Uniti. Secondo il rapporto “Armi leggere, guerre pesanti”, nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Quindi con l'aumentare della crisi economica in Italia sono aumentate anche le esportazioni di armi del nostro paese. Proprio nel momento in cui si parla di un intervento in Libia di cui l'Italia dovrebbe assumere il comando, vengono esportate in tale paese proprio le armi. Oltre alla Libia, anche nel resto del Maghreb sono andati molto bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole. L'incremento maggiore è nell'area nordafricana, dove si è passati dai 3,8 ai 18, mentre nell'Africa subsahariana la crescita è dai 14,1 ai 24,7. Pistole, fucili e proiettili prodotti in Val Trompia, verso inviate in territori martoriati dell'Africa da cui fuggono i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Per cui si può ipotizzare che contribuiscano all'aumento del numero dei rifugiati nel nostro paese. L'Italia, tra i primi 10 esportatori di armi al mondo, grazie alla centralità nel Mediterraneo da un lato e all'elevata qualità e affidabilità dei prodotti nostrani, è stata in grado di sviluppare un florido commercio di armi con i paesi del Nord Africa i quali, poi, hanno fatto circolare le nostre armi per l'intero continente, facendo sì che oggi ne esportiamo anche in Sud Africa. Il 6% delle maggiori armi convenzionali esportate in Africa sono italiane e solo Ucraina, Russia, Cina e Francia ne hanno esportate di più. Per quanto riguarda le Salw e relative munizioni, tra i paesi dell'Ecowas che l'Italia ha rifornito ci sono Ghana, Mali, Nigeria e il Senegal,per un valore di poco inferiore ai 2 milioni di dollari. Considerato ciò, è lecito pensare che molte armi made in Italy siano finite in mano a ribelli, terroristi o semplici civili dei paesi confinanti, così come è già accaduto per le armi russe e statunitensi. Clamorosa la classifica mediorientale. Dopo Emirati Arabi Uniti e Israele, Paesi saldamente al comando nella classifica dei compratori regionali di armi bresciane, crescono Kuwait (+286%, per 4 milioni di euro di spesa) e soprattutto il Libano, con 2,1 milioni di euro di acquisti (+72,1% rispetto al 2012) nonostante sia sottoposto a misure di embargo per le armi. I cali più importanti, segnalati da Opal, riguardano Messico e India, quest’ultima a seguito delle recenti restrizioni. Altro Paese che si conferma grande acquirente delle armi bresciane e’ la Turchia con 24 milioni di euro tra armi e munizioni nel 2013. Un dato in diminuzione rispetto ai 36,5 milioni del 2012. Ma il maggior importatore di armi leggere italiane sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono molto apprezzate, soprattutto dopo che nel 1985 l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati la pistola Beretta M9, rimasta in dotazione in tale esercito fino alla fine dell’anno passato, ed ancora molto usata. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Per contro la grande diffusione di esse è da ritenersi causa di numerosi incidenti, conflitti a fuoco e delitti.

di Antonio Frate

Il business dei malware

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Le finalità dei malware sono molteplici ma, certamente, una delle più comuni è quella di rubare informazioni. Ogni dato sottratto alla vittima è una possibile fonte di guadagno. Da una ricerca “Symantec 2013” (Symantec 2011), azienda leader nella produzione di software destinato a salvaguardare la sicurezza dei computer da attacchi informatici, risulta evidente come l’economia nascosta dietro il furto di dati per- sonali possa portare a guadagni notevoli. Ma qual è realmente la portata del fenomeno? Quanto guadagno c’è dietro un malware? Uno studio effettuato presso l’Università di Mannheim, Germania in collaborazione con Vienna University of Technology, Austria (Thorsten Holz 2008) ha analizzato il mercato legato ai malware “Limbo“ e “Zeus“, tra ottobre e aprile 2008, i numeri sono incredibili, non solo per il guadagno ma anche e soprattutto per l’impressionante numero di dati personali rubati da queste due applicazioni malevoli. In soli 6 mesi, questi malware, hanno permesso un guadagno tra i 700.000 e i 6.000.000 di dollari. E’ evidente come il mercato dei malware sia una realtà allettante per molte persone, un’economia sommersa che vale: 105 miliardi di dollari, (Schipka 2007) con decine di migliaia di partecipanti. I numeri sono davvero notevoli, le 5 società più ricche al mondo (Meoni 2013), in termini di utili, non riescono a tenere il ritmo. Neanche la “Exxon-Mobil“, principale compagnia petrolifera al mondo, con i suoi 44,88 miliardi di dollari, riesce a colmare questa distanza. Ma se questo è comprensibile, sorprende constatare come la “malware economy“ si inserisca di forza nel mercato di quei crimini mondiali cosiddetti “tradizionali”.. Solo il traffico di droga riesce a fruttare, coi i suoi 320 miliardi di dollari, un “utile“ maggiore. Il codice malevolo si colloca al secondo posto staccando notevolmente il traffico di persone e la “contraffazione“. La Malware Economy S.p.a. sembra non conoscere crisi: i criminali utilizzano tecniche del mercato libero per costruire e strutturare un business corrotto. Questa economia sommersa presenta le stesse peculiarità di un’economia tradizionale: divisione del lavoro, concorrenza, marketing e così via, il tutto accelerato dalle crescenti potenzialità e risorse offerte dalla rete. Ciò che sorprende è il livello di specializzazione di questo mercato, paragonabile a un centro commerciale con molteplici negozi, ognuno dedicato a una tipologia di prodotto, che competono tra di loro offrendo il miglior prezzo e il miglior servizio possibile. Proviamo, ora, a vedere come si sviluppa il mercato di un cyber-crime. Il primo passo viene compiuto dai “malware Writers“ che sviluppano virus, spyware e trojan per infettare sistemi informatici. Gli sviluppatori di malware, tuttavia, non vendono direttamente i loro prodotti, lì immettono sul mercato e li offrono per “scopi educativi“ o di ricerca, garantendosi in questo modo una sorta di immunità da procedimenti giudiziari. La presenza di nuovi virus (o lo studio di nuovi virus) attira l’attenzione di una seconda figura: i “Malware Distributor“, che fungono da intermediari. Essi setacciano il mercato alla ricerca di nuovi codici malevoli: per 250$ riescono ad acquistare malware personalizzati secondo le proprie esigenze e  aggiungendo 25$ al mese possono garantirsi anche un’assistenza costante, in modo da poter usufruire di continui aggiornamenti che permetteranno al malware di sfuggire ai rilevamenti di antivirus. Questi intermediari, che acquistano i malware da programmatori, si affidano a dei “Botnet Owner“, “gestori di botnet“, per diffonderli nella rete. Una botnet (S. Ippolito Carlo 2010) è una rete di computer infettati che vengono controllati da remoto da un altro computer. Questi “sistemi vittima“ sono normalmente poco protetti e appartengono, quasi sempre, a persone ignare di quello che sta accadendo, che diventano strumenti in mano a criminali informatici. Queste botnet sono utilizzate da professio- nisti dello spam per inviare massicci quantitativi di posta elettronica attraverso l’installa- zione di software nascosto che trasforma tali computer in server di posta ad insaputa dell’utilizzatore. Una volta che il malware è diffuso il “Malware Distributor“ può comodamente aspettare le informazione e le identità digitali rubate. Una volta ottenuti i dati il criminale può iniziare a venderli. “Un’identità“ viene venduta per circa 5$, essa comprende il nome completo della vittima, i dati del passaporto, carta di identità o patente di guida, numeri di carta di credito e coordinate bancarie. Il servizio messo a disposizione dai questi “cyber-ladri“ identificati come “Identity collector“ è molto raffinato, essi possono offrire le identità digitali rubate in base a diversi criteri: nazione di provenienza, posizione lavorativa, credito presente sulle carte di credito, etc. Vi sono anche categorie di intermediari specializzati: “Credit card User“. Essi trasformano le identità rubate direttamente in contanti, comprano informazioni come numeri di carte di credito rubate e le utilizzano tramite un “drop service“ (servizio a goccia). Questa struttura si occupa di acquistare beni di consumo e di rivenderli tramite siti realizzati ad hoc o direttamente a dei drop. Un “drop“ è una persona che riceve beni acquistati tramite carte di credito rubate, normalmente sono anche loro criminali o semplici creduloni allettati da facili guadagni. Questo servizio è tanto efficace quanto semplice. L’intermediario acquista dei beni tramite le carte di credito rubate, normalmente telecamere, cellulari, computer, su siti on-line e li invia ai “drop“, che a sua volta li rivende, subito on-line. Questo meccanismo è un po’ come lavare le carte di credito rubate. In sistema tanto articolato e capillare non poteva mancare un “Guarantee Service“, questo servizio di garanzia, interposto tra le diverse figure criminali, offre una forma di assicurazione. Un fornitore di “drop service“, ad esempio, può utilizzare questa struttura per garantire al “credit card“ user un pagamento anche se gli acquirenti di prodotti risulteranno insolventi. Un “Guarantee Service“ fornisce, soprattutto, un servizio di deposito a garanzia, funge da intermediario tra venditore e acquirente, tutto passa attraverso di lui: merce venduta e pagamento. Se tutto rispetta gli accordi presi, il pagamento viene sbloccato e i prodotti inoltrati al destinatario. Normalmente un “Guarantee Service”, per questa tipologia di servizio, trattiene il 2-3% del valore della transazione. Questa tipologia di servizi mette in evidenza come questo mercato si stia raffinando e sviluppando, diventando una realtà preoccupante. Un altro segno della crescente “economia“ legata ai malware è il continuo miglioramento della qualità del “codice malevolo“. Gli autori di malware lavorano sodo per testare i loro prodotti contro i software anti-virus. Offrono garanzie che un determinato virus o trojan non verrà rilevato tramite l’antivirus corrente. Se i produttori aggiornano il loro software, l’autore del malware fornirà una nuova versione capace di eludere le nuove tecniche di rilevamento. I programmi anti-virus convenzionali si basano su Firme per rilevare i malware. Una firma è simile ad un frammento di DNA che identifica il virus e lo separa dai dati reali. Come un nuovo malware viene alla luce, fornitori di anti-virus aggiornano la loro lista di “firme“ e i malware writers rispondono creando un nuovo virus.

di Vincenzo Lena

 

La polarizzazione etnica in Iraq e l’avanzata delle forze dell’ISIL

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La creazione del governo iracheno potrebbe essere l’unica soluzione all’avanzata delle forze estremiste dell’ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) nel nord del paese. Da parte americana e di altri paesi esteri, tra cui il Regno Unito, si chiede a Maliki di fare un governo di emergenza che preveda una maggiore autorità per i sunniti e per i curdi, ma Maliki, il cui blocco ha vinto le elezioni dello scorso aprile, ha pubblicamente dichiarato che questo sarebbe un attentato alla costituzione e si è impegnato a formare un nuovo governo entro il 1 luglio. La responsabilità della classe politica irachena nell’insorgenza di questa nuova crisi e, in primis, del governo in carica, è grande: essi hanno fallito nel raggiungere una formula costituzionale adatta a superare i contrasti riguardanti la distribuzione dei poteri e delle risorse, il federalismo e le relazioni stato-regioni oltre che il sentimento dominante di alienamento da parte dei sunniti e le relazioni tra gli organi del potere esecutivo e legislativo. Dopo la caduta di Saddam Hussein la minoranza sunnita del paese è stata messa in disparte dal governo e questo ha portato alla nascita ed al progressivo intensificarsi di una serie di proteste contro quella che viene definita una persecuzione settaria. Da parte sunnita, le proteste si sono intensificate già dalla fine del 2012 in seguito all’arresto per ragioni politiche di 10 guardie del corpo del ministro delle finanze iracheno Rafia al-Issawi, preminente personaggio politico sunnita di Anbar. Qualche mese prima il vice presidente Tariq al-Hashemi era stato costretto a fuggire in Turchia per scampare ad una condanna a morte per l’accusa di aver avuto un ruolo in una serie di 150 attentati ed attacchi avvenuti fra il 2005 ed il 2011. Durante il 2013 la protesta dei sunniti è stata intensa, contro ingiustizia, marginalizzazione, politicizzazione del sistema giudiziario e mancanza di rispetto della costituzione e, soprattutto, contro il primo ministro al-Maliki accusato di creare fratture settarie tra sunniti e sciiti e di essere al soldo dell’Iran. Di questa protesta si sono avvantaggiati il gruppo terroristico affiliato ad Al Qaida, chiamato “Stato Islamico Iracheno” (ISI), le Brigate Rivoluzionarie del 1929 e l’Esercito Naqshbandi, i quali hanno operato perché il diffondersi e l’intensificarsi del dissenso sunnita si trasformasse in insorgenza. Come risultato nel 2013 circa 10.000 persone, soprattutto civili, erano stati uccisi in tutto il paese. Nel 2007, gli americani avevano capito che solo l’alleanza con i sunniti avrebbe permesso loro di avviare il paese verso la stabilizzazione, ma la lezione è stata dimenticata dal governo iracheno. Più di 1000 persone sono già state uccise ed altre 1000 ferite da quando ISIL ha iniziato, due settimane fa, la sua avanzata sul suolo iracheno. Molte sono state le esecuzioni sommarie di soldati dell’Esercito iracheno e delle forze di polizia, ma altrettante sono le vittime civili. Inoltre ci sono già migliaia di famiglie che stanno lasciando il nord del paese per sfuggire all’avanzata estremista. Oggi le notizie riportano di centinaia di abitanti sciiti e turkmeni dei villaggi vicino a Mosul, che è stata presa dai militanti di ISIL all’inizio di giugno, stanno cercando di entrare nelle aree controllate dai curdi. Dal punto di vista militare gli Stati Uniti, che per ora hanno escluso un intervento di terra, hanno cominciato ad inviare i primi di 300 consiglieri che dovranno supportare l’esercito iracheno sia in fase di raccolta dell’intelligence e valutazione dell’insorgenza sia nella creazione di un centro operativo. Essi dovranno valutare la coesione delle forze di sicurezza irachene, stimare la minaccia e fare raccomandazioni su come ottimizzare la risposta. Ci si aspetta che i risultati di questa attività possano arrivare attraverso la catena di comando entro due o tre settimane. Alcune missioni di ricognizione aerea statunitensi stanno sorvolando ogni giorno le aree più critiche e stanno fornendo informazioni all’esercito iracheno. Da queste rivelazioni è chiaro che i combattenti di ISIL continuano a solidificare le loro posizioni man mano che avanzano, che non hanno alcun problema nell’attraversare il confine tra Siria ed Iraq e che continuano a premere verso il centro ed il sud dell’Iraq costituendo un pericolo reale per Baghdad. E’ notizia recente che i militanti di ISIS abbiano catturato la più grande raffineria irachena a Beji, a nord di Tikrit. Un portavoce di ISIS ha dichiarato ieri, 29 giugno, ad Al Jazira che è stato creato una califfato (obiettivo strategico di ISIS) che va da Aleppo in Siria fino alla provincia di Diyala in Iraq e che il capo di ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi, è il nuovo califfo ed il leader di tutti i musulmani nel mondo. Intanto, nel perseguirle il suo obiettivo, ISIS sta probabilmente facendo convergere gli obiettivi strategici, prima divergenti, del regime di Bashar al Assad, dell’Iran, degli Stati Uniti e dell’Iraq in una cooperazione contro una minaccia alla sicurezza regionale, anche se il rifiuto degli USA di avviare fin da subito iniziative militari sta lasciando spazio agli aiuti militari di altri paesi, come la Russia, che ha consegnato all’Iraq 10 jet da combattimento Sukhoi (Su-25). D’altra parte, l’avanzata jihadista sta dando una nuova direzione anche ai rapporti tra Kurdistan ed Iraq. All’avanzare dei combattenti verso Kirkuk, città petrolifera da tempo contesa dal Kurdistan all’Iraq, i Peshmerga curdi sono entrati nella città e ne hanno assunto il controllo per difenderla: per il Primo Ministro del Governo Regionale del Kurdistan Barzani, quella offerta da ISIS è un’occasione speciale per dimostrare la propria capacità di difendere gli interesse delle aree rivendicate dal paese e per utilizzare la capacità militare dei Peshmerga come una leva per ottenere dal Governo Iracheno indipendenza nella vendita del gas prodotto dalle regione. E’ ancora presto per capire cosa succederà ma questo è il momento della ponderazione. Un intervento militare dell’Iran rischierebbe di esacerbare la crisi perché sarebbe visto come un’occupazione persiana/sciita in un territorio arabo sunnita; un intervento di terra degli USA è stato escluso da Obama e, comunque, anche un intervento aereo mirato o l’uso di forze speciali non avrebbero alcuna utilità senza un ruolo effettivo dell’esercito e della polizia iracheni e senza un governo capace di fare le riforme necessarie. Da più parti si comincia a riparlare di federalismo e di tre regioni come unica soluzione per tenere insieme lo stato Iracheno.

 

di Elisabetta Trenta

 

 

La guerra vista da Ennio Remondino

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“La guerra viene raccontata dal vincitore. Ed è in atto una digitalizzazione delle comunicazioni” così ha dichiarato l’ex corrispondente Rai Ennio Remondino durante la lectio magistralis tenuta all’Università del Molise lo scorso 29 ottobre. Fino a qualche decennio fa la televisione era un prodotto costoso, e solo in pochi potevano farla, oggi è alla portata di tutti o quasi. La guerra da sempre è una scelta politica, si combatte per conquistare i migliori territori fino a raggiungere l’odierna guerra "umanitaria". La bugia è un obbligo istituzionale, è fatta per ingannare l'avversario. Da sempre non c'è mai stata una sconfitta, ma una ritirata strategica, come ad esempio "la rotta di Caporetto". La guerra di Troia è stata combattuta per il possesso dello stretto dei Dardanelli, e narrata da un "contaballe", Omero, che non era contemporaneo ai fatti accaduti. Il De bello gallico è il racconto del primo genocidio di cui si ha notizia, ed è stato scritto dal protagonista, Cesare, senza l'intervento di Vercingetorige. Nella guerra di Crimea la Regina Vittoria doveva impedire allo Zar di sconfiggere il traballante Impero Ottomano e affacciarsi sul Mediterraneo. La guerra costa tasse, ed ha bisogno di convincimento, di imbonimento. Nella prima guerra mondiale si è combattuto con armamenti consolidati, e la narrazione dei fatti era data via telegrafo, con i tempi del telegramma. La seconda guerra mondiale è stata decisa e vinta nei cieli, e lo strumento di comunicazione era la radio, col quale si può sapere chi ha vinto la battaglia. La censura militare era strumento di salvaguardia. Nel 1945 è arrivata la bomba atomica che ha cambiato tutto il modo di confliggere. Gli Usa l'hanno usata per sperimentarla e non per accelerare la fine della guerra. E dopo la bomba atomica è arrivata la televisione. La guerra del Vietnam era nata per essere vinta, ma è stata persa per ragioni comunicative. La famosa immagine della bambina vietnamita che scappa dai bombardamenti costringe gli USA ad arrendersi. Per vincere anche nella comunicazione si possono comprare i giornalisti, si può disporre di satelliti e di reti televisive. Oggi non esiste più l'effetto "paperino": una volta il collegamento TV passava per numerosi satelliti, per cui il reporter doveva attendere in onda che arrivassero le domande, oggi invece c'è il collegamento diretto; e dai mass-media si passa alla massa dei media. E le potenzialità dell'inganno sono infinite e banali. La strage di Rakak, in Jugoslavia è stata presentata come una strage di civili, in realtà erano combattenti uccisi in due giorni di scontri, e radunati in seguito; il colpo alla fronte venne inflitto post mortem. E' il meccanismo della guerra che impone l'inganno. Oggi si usano anche gli antropologi culturali, che sanno come comportarsi con un sunnita, uno sciita, un reporter; tra i giornalisti e gli scrittori ci sono molte spie, ed è in uso la guerra delle ragazze. Oggi si usa la diretta permanente, per cui il risultato può essere quello della liberazione di Bassora, una città occupata e liberata "cento volte", con ripetute smentite che evidenziano le bugie raccontate. Si creano le condizioni per impedire l'esercizio della professione del giornalista. Le guerre in televisione nascono orfane e muoiono senza figli: dopo la guerra non se ne parla più, per non far scoprire le vere ragioni che l'hanno determinata. Oggi più nessuno parla della Siria, ed in questo la Libia ci ha spiegato un sacco di cose. La scena dell'abbattimento della statua di Saddam, in Iraq, è stata realizzata con un campo stretto, intorno c'era ben poca gente, ma nell'immagine diffusa pare che vi fosse una gran folla. Per penetrare il bunker di Milosevic, in Jugoslavia, sicuramente sono state usate testate all'uranio impoverito, con una grande quantità, forse qualche etto in ogni missile, ma questo non è stato rivelato.

 

di Antonio Frate

 

 

Il risultato delle elezioni provinciali in Iraq: crescente polarizzazione intorno alle linee settarie

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Il 20 giugno si sono svolte le elezioni provinciali nei governatorati di Ninewa ed Anbar dove, per motivi di sicurezza, non era stato possibile svolgerle il 20 aprile, quando si è votato in 12 delle 18 Province irachene. A questo punto mancano solo le province del Kurdistan, Erbil, Sulahimaniya e Duhok, dove si voterà a settembre, e quella di Kirkuk dove è impossibile votare dal 2005 a causa della complicata geografia etnica. I risultati della prima tornata elettorale, confermati a fine maggio dall'Independent High Electoral Commission (IHEC), hanno rivelato un cambiamento dei rapporti di potere nel paese e l’emergere di una forte area di opposizione per la coalizione sciita guidata dal Primo Ministro Nuri Al-Maliki. La State of Law Alliance infatti ha perso molte posizioni a favore degli altri due principali partiti sciiti, l' Islamic Supreme Council of Iraq(ISCI) di Ammar al-Hakim e il partito Sadrista di Muqtad al-Sadr.

Questo risultato è frutto dell'ampia area di dissenso nei confronti del governo attuale il quale, non solo raccoglie le proteste dei sunniti, che si sentono marginalizzati e perseguitati, ma è sgradito anche alle altre componenti sciite a causa della politica di eccessivo monopolizzazione del potere da parte di al-Maliki.

Una delle cause della violenza infinita in Iraq va ricercata nella centralizzazione del potere a livello governativo. E’ stato un errore dell’Iraq dopo Saddam quello di identificare vincitori e vinti e  dare tutto il potere ai vincitori. Questo gli americani lo sapevano ed, infatti, nella costituzione irachena è presente il principio del federalismo. Ciò nonostante dal 2008 al-Maliki ha ri-centralizzato il potere, affidandosi ad una cerchia sempre più stretta di consiglieri sciiti che, temendo una “controrivoluzione”, hanno di fatto messo in piedi un sistema autoritario come quello che avevano combattuto. La cerchia di al-Maliki ha potere sulla selezione di tutti i comandanti militari, controlla la corte federale e si è impadronito della banca centrale. Il braccio esecutivo sta togliendo tutti i controlli che furono messi per garantire che non riemergesse una nuova dittatura.

Le richieste più insistenti fatte dalle opposizioni anti-Maliki dei curdi e dei sunniti sono molto chiare; L’opposizione chiede:

  • la delega dell'autorità fiscale al Kurdistan Regional Government (KRG) e alle province;
  • l’implementazione di un sistema di controlli sul potere esecutivo, in particolare potenziando le funzioni del parlamento e istituendo una giustizia indipendente;
  • un processo di riconciliazione nazionale, che dia giustizia alle vittime del regime di Saddam, ma che netta fine alle violenze indiscriminate contro i sunniti.

E’ per queste ragioni che Nuri al Maliki, pur avendo ottenuto il maggior numero di seggi, soprattutto a Baghdad e Bassora,  ne ha perso circa un terzo rispetto alle elezioni provinciali del 2009. ISCI invece, che non essendo stato al potere negli ultimi anni ha raccolto il malcontento della popolazione e lo ha utilizzato in campagna elettorale, ha riconquistato alcune posizioni mentre Sadr è tornato primo partito a Maysan anche se in generale non ha fatto molti progressi. In Najaf la vincitrice è stata una lista locale, come già nel 2009, mentre a Diyala la lista sciita unita è stata la vincitrice ottenendo 12 seggi. L'esito del voto nei governatorati è indicativo di una crescente polarizzazione delle posizioni su base settaria ed infatti i partiti secolari, come la lista Iraqiyya di Allawi, hanno ottenuto risultati deludenti.

Per quanto riguarda i partiti d’ispirazione sunnita, la lista Mutahiddun, formata da una costola di Al-Iraqiyah e guidata da Osama al-Nujayfi, ha conseguito un ottimo risultato a livello nazionale, a dimostrazione che le linee settarie si stanno definendo e che l’influenza dei moderati diminuisce. La lista, composta di molti partiti che facevano parte di Al Iraqiya nel 2010, ha dei legami con il movimento di protesta, è supportata dall’elite religiosa sunnita e dai media sunniti sia Iracheni sia pan arabi.

Dato il ritardo del voto in Anbar e Ninewa, Salah al-Din e Diyala erano le province dove si concentrava il voto sunnita. In Salah al-Din una lista sunnita locale, l’Iraqiyya Masses Alliance, guidata dal governatore provinciale Ahmed Al-Juburi, ha vinto guadagnando sette seggi su ventinove, nonostante il suo leader sia considerato vicino a Nouri al Maliki. Il partito, che non aveva partecipato alle votazioni precedenti e che ha ottenuto la maggioranza relativa rispetto alle coalizioni sciite e sunnite, è stato seguito dal Mutahidun.

Probabilmente sia a Baghdad sia a Salah al-Din la posizione anti Maliki del Mutahidun gli ha permesso di vincere sette seggi rispetto a Arab Iraqiyya di Saleh al-Mutlag che invece ne ha persi. Al-Mutlag infatti aveva lavorato più vicino ad al Maliki rispetto agli altri politici iracheni sunniti e, forse a questo è dovuta la sua performance in Baghdad. In Diyala e Babilonia, al-Mutlag ha formato delle coalizioni con al-Nujaifi. Insieme hanno vinto un seggio nuovo in Babilonia e dieci in Diyala. Come già accennato, a Diyala entrambi i due partiti sunniti hanno perso rispetto alla coalizione sciita congiunta. Diyala è stata la vera novità di queste elezioni. Infatti, se nel 2009 Mutahidun, Arab Iraqiyya, e la coalizione Curda  avevano ottenuto ventuno seggi su ventinove, nel 2013 le forze congiunte della maggiore coalizione sciita hanno guadagnato una maggioranza relativa di dodici seggi contro solo tre seggi andati nel 2009 alla sola SLA.  

Di seguito, il risultato finale delle elezioni del 20 aprile. I numeri tra parentesi sono il numero di seggi che il partito aveva ottenuto nelle elezioni del 2009.

 

Fonte tabella: http://www.iraq-businessnews.com/tag/elections/page/2/ 

 

In queste settimane si stanno definendo i governi locali. Quasi tutti sono frutto di alleanze tra le varie formazioni e non in tutte le province è stata seguita la stessa logica. Maliki ha mantenuto il controllo nei luoghi sacri di Karbala e Najaf, anche se a Najaf un’alleanza Sadr/ISCI avrebbe avuto i voti per guidare il governo. Mentre a Muthanna, dove Maliki avrebbe potuto governanre da solo, si è alleato con ISCI ed ha tenuto per sè la posizione del governatore mentre un consigliee di ISCI è diventato presidente del Consiglio.

A Diyala invece è stato fatto un accordo per cui i Curdi e la lista locale Iraqiyya hanno formato il governo con l’appoggio di Sadr, ma non degli altri sciiti della lista sciita unita (soprattutto consiglieri di SLA inclusi membri di BADR e Fadhila).

Al Maliki ha consolidato la sua  posizione nei governatorati di Dhi Qar, Babele e Salahaddin. D’altra parte ha perso Baghdad e Bassora e questo mette un punto interrogativo su quali saranno le alleanze in vista delle prossime elezioni nazionali del 2014.

La tabella sottostante riassume la dinamica delle alleanze.

 

 Fonte tabella: http://www.iraq-businessnews.com/tag/elections/

 

Si attendono ora i risultati ufficiali del voto in Ninewa ed Anbar, aree nelle quali le proteste dei sunniti contro il governo di al-Maliki sono state più forti anche per via dell’influenza della vicina Siria.  In Anbar hanno votato il 49.7 % degli aventi diritto mentre a Ninewa soltanto il 37.5%. Questa disaffezione per il voto è un fattore indicativo della frustrazione dei sunniti e del loro ritiro dal processo politico ed apre ancor più le porte  all’opposizione armata.

I risultati del voto indicheranno chi saranno i protagonisti futuri della politica sunnita inoltre dalla performance dei partiti sunniti alleati di al-Maliki potranno essere colte informazioni per capire quale sarà la strategia del primo ministro per le prossime elezioni.

 

di Elisabetta Trenta