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Temi globali

Dare voce alle donne in Iran

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Ha fatto il giro del mondo la scelta dei calciatori iraniani di non cantare l’inno nazionale prima della partita contro l’Inghilterra. Nell’incontro successivo con il Galles, i calciatori asiatici sono stati costretti a cantarlo su pressione del governo iraniano. Alcuni tifosi hanno iniziato a fischiare, altri sono scoppiati in lacrime. L’uscita della nazionale dal mondiale è stata accolta da festeggiamenti nelle strade. Quella in Iran è diventata un’insurrezione popolare che è sfociata in una serie di esecuzioni. Donne e uomini cantano e ballano insieme nelle strade, nelle piazze e nelle metropolitane di Tehran, anche se è vietato. La video blogger di 16 anni, Sarina İsmailzade, uccisa il 23 settembre a manganellate in testa, aveva riassunto il sentimento popolare in un suo video-clip sul suo canale YouTube: "Non siamo come la generazione di 20 anni fa che non sapeva cosa fosse la vita al di fuori dell'Iran. Ci chiediamo perché non possiamo divertirci come le adolescenti di New York o Los Angeles". Shervin Hajipour è un cantante iraniano, arrestato dal regime per aver pubblicato un video di una canzone, le cui strofe sono dai testi dei tweet in sostegno della lotta delle donne iraniane. Nei giorni scorsi si è celebrata la giornata contro la violenza sulle donne, quelle stesse che per scendere in piazza, in nome della libertà, combattono contro stupri e abusi. Gli stessi che vengono attuati nelle carceri femminili. La brutalità di queste azioni è stata ripresa dalla Cnn. L’Onu ha definito critica la situazione. Il carcere di Teheran è diventato luogo di morte e torture. È stata rinchiusa lì la blogger italiana Alessia Piperno per 43 giorni, salvo poi essere liberata grazie al lavoro di diplomazia del governo italiano e dei servizi d'intelligence. 
Da quel 16 settembre in Iran qualcosa è cambiato. La morte di Masha Amini ha innescato un’onda di insurrezione che non si ferma, nonostante, i gruppi per i diritti umani stimano che, ad oggi, almeno 326 persone siano state uccise e circa 14.000 arrestate.  
 
di Daniele Leonardi
 

Lotta al terrorismo: Italia vs Danimarca

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In Italia il testo unificato delle proposte di legge C. 243 e C. 3357 contiene le misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista, proponendo programmi di deradicalizzazione e integrazione socio-culturale dei soggetti coinvolti (c.d. foreign fighters). Tale iniziativa prevede anche l’istituzione di alcuni centri specifici, quali il Centro nazionale sulla radicalizzazione (CRAD) e i Centri di coordinamento regionali (CRR).
A tal proposito, la Commissione Europea definisce la radicalizzazione come “un fenomeno che vede persone abbracciare opinioni, pareri e idee intolleranti suscettibili di portare all'estremismo violento". In seguito alla risoluzione adottata dal Parlamento europeo in data 25 novembre 2015 in materia di prevenzione della radicalizzazione, l’Italia ha integrato le sue disposizioni giuridiche con il D.L. n.7 del 2015. Il suddetto provvedimento prevede la pena della reclusione da 5 a 8 anni per i c.d. foreign fighters e per chiunque organizzi, finanzi o propagandi viaggi all’estero con finalità di terrorismo; inoltre, è prevista la reclusione da 5 a 10 anni per coloro che pongono in essere comportamenti violenti attraverso l’uso di armi da fuoco o di esplosivi. In quest’ambito sono state inserite anche due contravvenzioni: la prima sanziona con pena di arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 1000 euro chiunque introduca, detenga, utilizzi o metta a disposizione di terzi sostanze definite “precursori di esplosivi”; la seconda prevede arresto o ammenda per coloro i quali non segnalino all’autorità preposta il furto o la sparizione delle suddette sostanze.
In aggiunta, sono previste ulteriori aggravanti per il possesso e la fabbricazione di documenti falsi, nonché per i reati di terrorismo commessi attraverso strumenti telematici e informatici. Queste disposizioni sono state affiancate dall’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 12, comma 1, del suddetto testo unificato sul delitto di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”, che prevede la reclusione da 2 a 6 anni per chiunque, consapevolmente, si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali, armi da fuoco, sostanze chimiche o batteriologiche con l’obiettivo di compiere atti di violenza terroristica.
Come appena visto, l’approccio italiano risulta essere maggiormente repressivo a differenza di altri Paesi dalla strategia preventiva, tra i quali spicca la Danimarca. A partire dal 2005, la Danimarca si è proposta di trovare misure integrative alla pura repressione dando vita dieci anni più tardi al modello “Aarhus”. Quest'ultimo prevede una rete di collaborazione tra tutti gli attori a livello nazionale, regionale e locale con l’obiettivo di istruire, sensibilizzare e informare la popolazione in merito a rischi e conseguenze di atti a finalità terroristica. La particolarità risiede nella partecipazione su base volontaria, che tuttavia non comporta uno sconto di pena a coloro che hanno abbracciato l’ideologia jihadista. Tale approccio, quindi, non deve essere visto come un’alternativa alle misure detentive, ma si integra nel piano nazionale di lotta contro la criminalità. 
Il codice penale danese tratta alla sezione 114 (a-e) i reati quali omicidio, aggressione, sequestro di persona, sequestro illecito di mezzi di trasporto pubblico, violazione grave della legislazione sulle armi e sugli esplosivi, incendio doloso, esplosione e diffusione di gas nocivi, possesso e uso di sostanze radioattive. I suddetti reati implicano un’aggravante fino al 50% della pena massima se commessi a scopo terroristico. Rispetto all’ordinamento giuridico italiano, le pene previste da quello danese risultano meno rigide. 
È comunque doveroso sottolineare che il modello danese è stato soggetto a critiche, dato che permette una quasi “eccessiva” integrazione degli immigrati senza fare distinzione tra richiedenti asilo per motivi umanitari e coloro i quali tornano in patria dopo essersi volontariamente inseriti nelle dinamiche del terrorismo internazionale. All’esempio della Danimarca guardano però diversi Paesi europei, a loro volta indecisi su come difendersi dai combattenti jihadisti di ritorno.
 
di Elena Pinton, Lucrezia Menegon e Matteo Colnago
 

Attentato ad Istanbul: le strategie di coping

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Nel pomeriggio di ieri, domenica 13 novembre, alle 16:20 ora locale (14:20 ora italiana) a Istanbul, in Turchia, un ennesimo attentato ha fatto rinascere la paura del terrorismo.
Ormai è stato accertato che si sia trattato di un attentato, l’esplosione è avvenuta in Istiklal Caddesi, nel quartiere Beyoğlu, zona commerciale molto frequentata, dove si trova anche la sede del Consolato russo.
Secondo i media locali sembra che una donna si sia seduta su una panchina per 40-45 minuti e che all’improvviso ci sia stata un’esplosione, che per ora ha causato almeno 6 morti e 81 feriti accertati. La polizia ha effettuato 22 arresti e nonostante ci siano diverse ipotesi sul mandante, nessuna organizzazione ha ancora rivendicato l’attentato. Tali notizie sono state confermate anche dallo stesso presidente turco Recep Tayyp Erdoğan e dal suo vice Fuat Oktav, che hanno definito tale evento “un vile attentato terroristico” e “un tentativo di intrappolare la Turchia e la nazione turca nel terrore”. 
Già da subito sono state diffuse in rete le immagini e i video dell’attacco, dalle quali si può notare come vi siano alcune persone che, in preda al panico, sono scappate, mentre altre invece si sono avvicinate al luogo dell’esplosione per aiutare le vittime a terra. È evidente come la situazione sia stata gestita in modo diverso attraverso le svariate strategie di coping adottate dai superstiti.
Con il termine coping si intende la capacità di un individuo di fronteggiare una situazione diversa o nuova che possa causare panico o stress. Coloro i quali, d’istinto, sono scappati, hanno sicuramente attuato una strategia di coping focalizzata sulle emozioni, si sono dunque fatti trasportare dalla paura e, senza gestire le emozioni negative o rimanere paralizzati sul posto, hanno scelto di fuggire. Hanno quindi messo al primo posto la loro stessa sopravvivenza senza pensare agli eventuali feriti. Tale strategia di solito viene messa in atto per affrontare situazioni apparentemente incontrollabili e risulta efficace nell’immediato, ma nel lungo periodo può avere effetti controproducenti, come la nascita del senso di colpa per non essere stati in grado di gestire diversamente la situazione traumatica. 
 Al contrario, gli altri hanno avuto una maggiore apertura mentale e autocontrollo e sono stati in grado di far fronte alla condizione di stress e di paura, senza lasciare che il panico prendesse il sopravvento. Dopo aver valutato il problema, si sono prodigati per aiutare i feriti e per chiedere aiuto chiamando i soccorsi. Questo tipo di coping si focalizza sulla situazione e prevede una reazione completamente diversa rispetto a quella spiegata in precedenza. I soggetti riescono a prendere le distanze dalle emozioni e quindi a dominare l’evento, intervenendo direttamente sul problema con azioni volte a ridurre l’impatto e le conseguenze negative. Le prime azioni di assistenza sono una pura risposta al disastro (disaster relief) e si concentrano sui bisogni immediati e sulla salvaguardia di vite umane, al fine di minimizzare danni e perdite.
Non esiste un modo migliore o perfetto per reagire alla paura, dato che si tratta di uno stato emotivo presente in tutti gli individui, l’importante è imparare a gestire al meglio le situazioni di panico, per mettere al sicuro se stessi e gli altri. In ogni caso, entrambe le strategie fanno emergere un senso di resilienza, che aiuta a superare il trauma e a riorganizzare positivamente la propria vita, senza alienare l’identità individuale. 
 
di Lucrezia Menegon ed Elena Pinton
 
 

Il mercato dell’energia e la dipendenza dal gas russo

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La guerra e le sanzioni non bastano a giustificare gli aumenti: l’invasione russa in Ucraina è iniziata lo scorso febbraio, ma i rincari nelle bollette si sono iniziati a registrare i primi di ottobre 2021. 
L’aumento delle bollette è dovuto principalmente dall’aumento prezzo del gas, che condiziona il prezzo dell’elettricità. Il gas viene comprato alla borsa di Amsterdam, che ne determina il prezzo.
I prezzi della luce e del gas nel mercato tutelato vengono aggiornati su base trimestrale, mentre, nel libero mercato, cioè il sistema vigente, il prezzo dell’energia elettrica cambia mensilmente.
Il libero mercato è un mercato variabile in cui il prezzo del gas varia in base a tanti fattori, favorendo la concorrenza, spingendo verso l’abbassamento dei costi. Ogni produttore indica quanta elettricità può fornire e a che prezzo. In un momento storico, come quello attuale, caratterizzato dall’inflazione, il prezzo dell’energia è destinato ad aumentare. L’aumento e l’inflazione sono legati alla ripresa dopo la pandemia, la quale ha prodotto uno scenario in cui l’offerta di gas è calata con una crescente domanda. La Gazprom (multinazionale controllata dal governo russo) ha aumentato i prezzi e la Russia ha usato il gas come strumento di pressione all’occidente e in risposta alle sanzioni. Abbiamo iniziato a cercare alternative al gas russo, dapprima nell’Algeria (che non può essere considerata una soluzione anche per la vicinanza geopolitica al Cremlino) e poi sul GNL (Gas Naturale Liquefatto), il quale viene trasportato via mare, rigassificato (riportando il gas liquido allo stato gassoso) e immesso nella rete. Il GNL non può sostituire però il gas russo, poiché l’Italia ha solo tre impianti di rigassificazione, a cui si aggiunge un quarto a Piombino con cui il governo ha stretto un accordo di tre anni, grazie al quale dovrebbe portare la capacità di rigassificazione italiana al 25 per cento della domanda. L’aumento dei costi è dipeso, principalmente, dalla dipendenza dal gas russo, per cui la guerra in Ucraina è solo una concausa. La vera questione è l’indipendenza energetica dell’Italia, e più in generale dell’Europa. In Italia usiamo il gas per produrre più del 40% della nostra elettricità, di cui la metà lo acquistiamo dalla Russia. Il Cremlino ha rappresentato per l’Italia un ottimo partner commerciale, in quanto garantiva l’approvvigionamento energetico a costi agevolati, sia per la grande disponibilità di risorse della Russia, sia per la vicinanza geografica, ovvero, per i costi di trasporto. Ridurre il gas per non azzerare lo stoccaggio è un primo passo, accelerare la produzione delle fonti rinnovabili deve essere la strada da riprendere. Un cammino che si è inceppato negli ultimi anni ma che deve essere ripreso. Questa crisi energetica può spingerci verso una transizione ecologica definitiva per una indipendenza energetica, accelerando un processo che andava avanti troppo lentamente. una vera alternativa ad un sistema non più sostenibile passa attraverso la ricerca e gli investimenti in nuove tecnologie. Le fonti rinnovabili, oggi, non rappresentano ancora una vera alternativa all’acquisto dell’energia perché l’energia eolica e solare non riescono a soddisfare la richiesta in maniera stabile. Carbone e gas naturale rappresentano delle fonti più stabili ma delle strade non più percorribili. Si sarebbe potuto accumulare, in questi anni, l’energia sovraprodotta per ridistribuirla nei momenti di cali, ma la normativa italiana vigente dal 2013 al 2021 non lo consentiva. La nuova legge ha sbloccato questa situazione e le rinnovabili hanno ripreso a crescere, in un contesto che vede l’Italia ultimo in Europa nelle installazioni delle fonti rinnovabili; anche se quest’ultime non possono impedire l’acquisto dell’energia, potrebbero, comunque, ridurre al minimo l’acquisto di energia per diventare indipendenti da un’unica grande fornitura, come quella russa. 
 
di Daniele Leonardi
 
 

La guerra dei fondali

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Sabotaggio a Nordstream. Sembra il titolo di un film, e se lo fosse, farebbe meno paura. Il Nord Stream è un gasdotto sottomarino lungo 1.224 km, composto da due condotti paralleli. Parte da Vyborg, in Russia, e arriva a Greifswald, in Germania, dove si collega alla rete tedesca e al resto d’Europa. Il gasdotto Nord Stream è stato danneggiato disperdendo nel Baltico ingenti quantità di gas naturale. Dalla notte del 26 settembre si registrano perdite di gas nel Mar Baltico lungo i gasdotti sottomarini Nord Stream 1 e 2 che trasportano il gas dalla Russia alla Germania. 
Entrambi i gasdotti in questo periodo non funzionavano. Ad agosto, il colosso del gas russo Gazprom ha chiuso il Nord Stream 1 dopo mesi in cui ha funzionato a capacità ridotta. La chiusura è stata motivata ufficialmente dalla necessità di fare lavori di manutenzione. Alcuni paesi, però, sostengono che si possa trattare di una ritorsione della Russia in risposta alle sanzioni dell’Unione Europea. Il Nord Stream 2, invece, non è mai entrato in funzione, in quanto il governo tedesco ha sospeso l'iter di certificazione dopo il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass da parte di Mosca. È evidente come gasdotti e geopolitica siano due facce della stessa medaglia. L’ipotesi di un malfunzionamento sembra non stare in piedi. I sismografi svedesi hanno registrato, nella notte del 26 settembre, tre microsismi che potrebbero corrispondere a delle esplosioni. L’episodio è stato subito strumentalizzato da tutti i leader politici: Volodymyr Zelensky, su Twitter, lo ha definito «un attacco terroristico pianificato dalla Russia e un atto di aggressione nei confronti dell’Ue». Le fonti russe hanno replicato accusando gli Stati Uniti, riportando le parole di Joe Biden del 7 febbraio, prima dell'invasione russa in Ucraina, quando gli Stati Uniti e la Germania hanno minacciato che il Nord Stream 2 non sarebbe stato aperto se la Russia avesse invaso l'Ucraina. Gli Stati Uniti hanno ovviamene negato qualsiasi coinvolgimento, affermando che quelle parole facevano riferimento alla pressione esercitata su Berlino affinché si fermasse l'avvio del Nord Stream 2, cosa poi effettivamente accaduta. In questa corsa al responsabile e in un clima di rimbalzo di accuse, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha messo in guardia dal giungere a conclusioni affrettate. Intanto, mentre le indagini continueranno, gli attacchi alle infrastrutture potrebbero far entra la guerra dell’energia in una nuova fase, ampliando il conflitto in una vera e propria guerra dei fondali che interesserebbe i cavi sottomarini. In prossimità delle coste, infatti, i cavi, fondamentali per le connessioni Internet, sono sepolti sul fondo dell’oceano, in acque internazionali.  Il capo di stato maggiore della marina britannica, l’ammiraglio Sir Ben Key ha affermato: “C’è una vulnerabilità intorno a tutto ciò che si trova sul fondo del mare, sia che si tratti di gasdotti, sia che si tratti di cavi internet”. La vulnerabilità è dovuta alla loro posizione: dovendo coprire tutto il mondo, si trovano, perlopiù, in aree remote. I cavi dati trasportano oltre il 95% del traffico internet mondiale. L’intera catena che ruota attorno alla gestione dei cavi sottomarini è nelle mani del settore privato. Attualmente, i quattro maggiori fornitori sono Alcatel Submarine Networks (Francia), SubCom (Stati Uniti), NEC (Giappone) e il Huawei Marine Networks (Cina). Non è una minaccia nuova, visto che sabotare cavi sottomarini è un classico, ma ora è più urgente incrementare la loro sicurezza. La Russia, da sola, potrebbe attaccare solo la rete dei fondali che collega i paesi baltici con il resto d’Europa. Il vero pericolo sarebbe la Cina, la quale sta aumentando gli investimenti nelle infrastrutture digitali per rispondere alla pressione di Washington, che sta ostacolando i progetti di espansione di Pechino. I cavi sottomarini si trovano spesso a meno di 100 metri sott’acqua e richiedono un sottomarino o un veicolo senza pilota per piazzare esplosivi nei punti critici della rete. Sebbene siano pensati e strutturati per non interrompere la connessione in caso di sabotaggio, manomettere dei cavi sottomarini potrebbe essere la soluzione più facile ed efficace per un attacco internazionale. 
 
di Daniele Leonardi
 

Crisi energetica e geopolitica

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La Federazione guidata da Vladimir Putin detiene il primato mondiale delle riserve di gas ed è anche il più importante fornitore di oro blu per gran parte del continente europeo. 
La politica europea ha espresso la volontà di ridurre la dipendenza energetica da Mosca, non soltanto per una scelta razionale, ma anche per limitare un'importante fonte di finanziamento per la cosiddetta “operazione militare speciale”. Le sanzioni hanno, però, generato un effetto boomerang che si sta riversando sui cittadini europei.  
Nel 2017 il Presidente Mattarella, in visita a Mosca a tre anni dall’inizio della guerra nel Donbass, ha dichiarato: ’’Unione europea e Russia sono destinate a collaborare, è nella logica delle cose che collaborino”. Parole che sembrano tanto più ragionevoli se collegate a quelle dell’amministratore delegato della Shell, Ben van Beurden, il quale ha parlato di una crisi destinata a protrarsi nel lungo periodo in tutta Europa. Inoltre, per quanto il ruolo di Mosca si sia ridotto, il flusso di gas non è stato interrotto e neppure è stato oggetto di sanzioni verso Mosca, nella consapevolezza che una decisione radicale repentina non sarebbe stata economicamente sostenibile. Tuttavia, a interrompere il gas, successivamente, è stata la Russia: Per il presidente turco Erdogan, che sta facendo da tramite tra il Cremlino e l’Occidente, la Russia sta usando il gas come arma contro l'Europa. Secondo il presidente turco, Putin ha interrotto le forniture di gas verso l'UE come ripercussione alle sanzioni, fino a quando esse non saranno revocate. Le sanzioni avevano l’obiettivo di escludere la Russia dai trattati commerciali, ma il Cremlino ha posto lo sguardo ad un nuovo mercato, quello orientale, con paesi molto più popolosi di quelli europei (in calo demografico e sociale) che non provocherà, almeno per il momento, alcun isolamento al Cremlino. Per la Russia, staccarsi dall’Europa è diventata una strategia. 
L’Italia ha voluto ridurre le transazioni con il Cremlino, posando lo sguardo ad un altro Stato ricchissimo di materie prime quale l’Algeria (decimo produttore per importanza al mondo di gas naturale e sedicesimo per il petrolio). La scelta di abbandonare gradualmente la partnership con la Russia in favore dell’Algeria, paese in cui vi è una violazione dei diritti umani e che conserva i suoi rapporti commerciali con la Russia: non solo l’Algeria non ha mai condannato l’attacco russo in sede di votazione ONU, astenendosi, ma ha anche manifestato interesse verso il blocco Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica). Inoltre, l’Algeria è un ottimo cliente per l’armamento russo, intrattenendo, quindi, molteplici transazioni con il Cremlino. La Russia, quindi, riceve indirettamente finanziamenti dall’Italia che acquista gas dal paese africano. L’Algeria ha anche preso parte alle quadriennali esercitazioni militari russe in Vostok ("Oriente"), nell'Estremo Oriente Russo, assieme al fronte orientale (Cina, Algeria, India, Bielorussia, Mongolia, Laos, Siria, Nicaragua, Tagikistan). Con l’invasione russa del 24 febbraio 2022, il mondo è entrato in una nuova fase storica in cui lo scenario geopolitico si sta indirizzando verso una netta polarizzazione, definendo dei ruoli così netti in cui è impossibile non prendere posizione. La Svizzera, paese simbolo della neutralità, ha condiviso e applicato sin da subito i primi due pacchetti di sanzioni contro la Russia promossi dall’Unione Europea. Finlandia e Svezia, anch’essi storicamente neutrali, hanno cambiato il loro status in attori protagonisti, chiedendo l’annessione alla Nato e cambiando l’equilibrio nello scacchiere mondiale.  
 
di Daniele Leonardi
 
 

La guerra (non) è uno show

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La guerra senza giornalisti e fotografi che la raccontano dal fronte, mettendo in pericolo la loro stessa vita, rischia di essere ridotta solamente ad uno show. Cioè, quello che per gli italiani è diventata la guerra russo-ucraina, che appare ormai come un gigantesco talk-show. Ma la guerra non è uno spettacolo e non si racconta a suon di annunci, dibattiti e clamore. La guerra non si racconta nelle forme “ufficiali”, ma a suon di reportage. I telegiornali e i programmi di approfondimento si rivolgono sempre più ai reporter indipendenti, perché la guerra si racconta senza filtri. Ma, in un paese come il nostro, dove tutto è mediato, nel quale vi è libertà di stampa ma è soggetta a pressioni di diverso tipo, è più facile fare propaganda che racconto. 
La guerra ha, ad esempio, incrementato notevolmente gli ascolti di La7, soprattutto nel marzo 2022. Il network di Urbano Cairo ha avuto il merito di adeguarsi con dinamismo e velocità al cambiamento in atto, modificando il proprio palinsesto, aggiungendo quattro ore in più di informazione al giorno. Oggi, però, la guerra ha meno appeal. Il calo di interesse delle ultime settimane ha prodotto preoccupazione nel presidente ucraino Zelensky, che intervistato da “Axios” (start-up ideata dai fondatori di “Politico”) ha affermato con preoccupazione che “con il diminuire dell’attenzione, diminuirà anche la pressione sui leader mondiali affinché aiutino l’Ucraina”. Non c’è più spazio per il finto moralismo. Si parla di guerra finché conviene, finché fa audience. E si può mettere in un cassetto se incombono le elezioni. O, ancora meglio, decidere di non raccontarla, se la guerra è geopoliticamente e fisicamente lontana. La guerra è diventata un argomento mediatico di intrattenimento. Ma è giusto fare della guerra un talkshow? Esso è un genere televisivo che si regge su alcune regole fondamentali, quali il confronto di idee differenti per dare al pubblico gli elementi necessari per farsi una propria idea. Ma non si può guardare un dibattito sulla guerra sgranocchiando patatine dal divano di casa. La guerra va raccontata nella sua miseria, così come hanno fatto, ad esempio, la regista siriana Obaidah Zytoon e il danese Andreas Dalsgaard in “Lo spettacolo della guerra” (The war show): un docu-film che non indaga le ragioni, non risale alle cause: si limita a documentare. Se la guerra non fa più interesse mediatico, la causa è (anche) nel modo di raccontarla, perché ci si abitua che essa sia solo un tema dell’agenda politica, fino a considerarla parte della quotidianità. Ma se vedessimo ogni giorno la miseria e la crudeltà della guerra senza filtri, non ci potremmo abituare ad essa. Forse, per muovere le coscienze, si dovrebbe dare più spazio agli inviati al fronte e ai reportage che al clamore e alla retorica degli opinionisti, perché, in fondo, un’immagine vale più di mille parole. 
 
Daniele Leonardi
 

L’Ucraina dichiara guerra alle banche

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Il governo di Kiev, nella figura di Oleg Ustenko, consigliere economico del presidente Volodymyr Zelensky, ha accusato alcune delle maggiori banche mondiali di prolungare la guerra, in quanto creditori delle società che trattano petrolio russo. Il braccio destro di Zelensky ha parlato di “crimini di guerra” e ha chiesto ai CEO di questi grandi istituti finanziari di troncare i rapporti con le aziende russe. Dalle lettere inviate da Ustenko alle banche emergono i nomi di JPMorgan, HSBC, Citigroup, e Credit Agricole. A finire sotto accusa sono anche le principali società di commercio di materie prime - Vitol, Trafigura, Glencore e Gunvor – ree di vendere e acquistare petrolio russo. HSBC e Crédit Agricole detengono azioni di Gazprom e Rosneft, le compagnie petrolifere e di gas statali russe. Citigroup fornirebbe invece credito a Lukoil e a Vitol. Anche JPMorgan starebbe estendendo linee di credito a Vitol. Il suo fondo di investimento Russian Securities detiene inoltre partecipazioni in Gazprom, Sberbank e Rosneft, descritte nella lettera come alcune delle attività economiche più importanti del Cremlino. JPMorgan si è difesa affermando di aver svolto un ruolo attivo nell'attuazione delle sanzioni occidentali. Citigroup e Crédit Agricole invece non hanno fornito spiegazioni. A loro discolpa, bisogna sottolineare che le aziende accusate da Kiev applicano alla lettera le sanzioni internazionali. Inoltre, le sanzioni non impediscono di avere rapporti commerciali con la Russia. L'Ucraina però minaccia di trascinare le società sopracitate davanti alla Corte penale internazionale dopo la guerra. La banca francese Bnp Paribas è finita nel mirino della giustizia di Parigi per "crimini contro l'umanità" a causa delle sue attività in Sudan negli anni 2000. Un precedente che potrebbe pesare sulle decisioni di questi colossi finanziari. Oleg Ustenko ha anche minacciato che a tali banche sarebbe proibito di partecipare alla ricostruzione postbellica dell’Ucraina. Molte aziende, a seguito dell’invasione russa in Ucraina, hanno ridimensionato o cessato le attività. Tuttavia, ancora oggi, alcune istituzioni finanziarie occidentali hanno ancora legami con le compagnie petrolifere russe perché il disinvestimento totale è molto difficile in quanto esso risulta ancora un business molto profittevole per gli istituti erogatori di credito. Non manca ovviamente l’ipocrisia di circostanza: Credit Agricole ha avviato una campagna a favore dell’Ucraina nella home del suo sito. 
 
di Daniele Leonardi
 
 
 

La democrazia contro la guerra

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Il Washington Post e il New York Times hanno trionfato agli Oscar della stampa americana. Il premio più importante, quello per il “giornalismo per il bene pubblico” è andato al Washington Post, premiato per la copertura dell’attacco al Congresso, il 6 gennaio 2021. Il premio Pulitzer venne istituito dal giornalista Joseph Pulitzer nel 1917 e rappresenta il massimo riconoscimento in ambito giornalistico. La selezione è curata dalla Columbia University di New York. A essere premiati soprattutto giornalisti e fotogiornalisti, ma ci sono anche sezioni esterne al mondo dell’informazione. Il New York Times ha conquistato il premio per il racconto investigativo e per la critica culturale con un reportage sui bombardamenti americani in Medio Oriente. La questione su cui porre il focus, però, è un’altra; si potrebbe usare questa notizia in due modi: il primo modo è pensare che le guerre degli americani fanno vittime innocenti. In questo caso potremmo passare per filorussi. L’altra prospettiva vede l’America, a differenza della Russia, come un Paese libero. La libertà di stampa negli Stati Uniti esiste per davvero, e un giornale americano può documentare le stragi delle guerre a stelle e strisce; addirittura, può essere anche premiato. Questa potrebbe risultare una chiave di lettura filoamericana. Entrambe le notizie sono vere, sia che l’America usa con spregiudicatezza la sua potenza militare per comandare nel mondo, sia che l’America è un paese libero, dove vi è la libertà di stampa e di espressione. La notizia di fondo è la stessa, la chiave di lettura cambia. Questa riflessione offerta da Michele Serra, una delle migliori firme italiane, in uno dei talk show più importanti d’Italia, ci ricorda che il fascino della libertà è ciò che attrare l’Ucraina verso l’Occidente. Quello stesso Occidente, però, ha fallito in Afghanistan perché non c’è nessuna guerra in nome della democrazia. Dopo 20 anni di presenza sul suolo afghano (è stata la guerra più lunga affrontata dall’esercito americano) il Pentagono ha annunciato il ritiro delle truppe il 31 agosto 2021. Gli Stati Uniti avevano iniziato la loro missione afghana in seguito agli attacchi dell’11 settembre, rivendicati da Al Qaeda e dal loro leader Osama Bin Laden. Il ritiro dell’esercito americano non solo ha sancito il ritorno al potere dei talebani ma ha spostato l’equilibrio geopolitico verso le dittature. La democrazia e le potenze occidentali ne sono uscite indebolite. Pochi mesi dopo Putin ha deciso di invadere l’Ucraina, forse anche perché gli Stati Uniti e la Nato non facevano più così paura. Gli americani, viceversa, hanno colto la palla al balzo per per trasformare l’Ucraina nel Vietnam o nell’Afghanistan della Russia, cioè, in una guerra di logoramento che indebolisca economicamente e geopoliticamente il Cremlino. "Siamo uniti con l'Ucraina perché se Kiev perde, tutte le democrazie perdono. Se dovesse succedere sarà più difficile sostenere che la democrazia è un modello di governo efficace". Queste sono state le parole del presidente del Consiglio Mario Draghi nel corso del G7 alla quale ha partecipato in collegamento anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. La storia ci ha insegnato che le rivoluzioni nascono dal basso, che esportare la democrazia non si può (anche se le “missioni di pace” erano solo una definizione di facciata), ma che difenderla, però, è un dovere, perché la democrazia è il vero grande valore con cui americani ed europei possono combattere contro Putin ed ogni tipo di dittatura.

di Daniele Leonardi

La guerra in Ucraina e la crisi del gas

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Mentre il Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ha chiesto al Congresso Federale ed agli Stati di sospendere per 90 giorni la tassa federale sulla benzina, arrivata alle stelle (circa 110 dollari al barile), è notizia di queste ore che l’Italia potrebbe vedere diminuiti oppure stoppati i rifornimenti di gas provenienti dalla Russia per ritorsione della stessa nei confronti nel nostro Paese reo di fornire armi alla Nazione guidata da Volodymyr Zelenskyj. Infatti secondo il capo dell'Agenzia internazionale per l'energia, Fatih Birol, “in Europa più ci avviciniamo all'inverno, più comprendiamo le intenzioni della Russia: uno stop completo delle forniture di gas russo per questo inverno. Credo che i tagli siano orientati ad evitare che l'Europa riempia i depositi e ad aumentare la leva della Russia nei mesi invernali. L'accensione di vecchie centrali elettriche a carbone degli Stati dell’Europa, sono sintomo della preoccupazione della crisi energetica in atto. L'Europa dovrebbe essere pronta nel caso in cui il flusso il gas russo fosse completamente interrotto”. Per tale motivo l’Esecutivo guidato da Mario Draghi, anche alla luce dell’aumento delle bollette di luce e gas avvenuto finora, estende per il terzo trimestre il bonus sociale per luce e gas per i nuclei familiari meno abbienti, azzera per i prossimi tre mesi gli oneri generali di sistema nel comparto elettrico e la riduzione dell’IVA per gas che resta al 5%. Ad oggi i giacimenti di metano italiani sono forniti al 55% delle loro potenzialità, ma la strada è ancora lunga per arrivare ad almeno il 90% di prodotto per far fronte alle fredde giornate della prossima stagione invernale.

di Domenico Abiuso

Zelensky è il primo presidente influencer della storia

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Putin e Zelensky hanno adottato due registri comunicativi molto diversi. La strategia comunicativa del capo di Stato russo è quella di colui che deve giustificare l’uso della forza. In questi casi, prima di sferrare un attacco, un leader politico deve creare una narrazione pre-conflitto che giustifichi la folle scelta. Putin ha parlato di un’operazione speciale e non di guerra, facendo intendere, quindi, che si trattasse di un intervento di breve durata. Il leader russo utilizza un linguaggio basato su una retorica antioccidentale. L’ex KGB è un leader rigoroso e impassibile anche nell’abbigliamento. Siede in un’enorme stanza (la Sala di Santa Caterina del Cremlino) e si tiene a distanza dai suoi consiglieri e dai ministri in segno di autorità. Quella di Putin è una comunicazione istituzionale, iconografica, con rimandi al potere. Al centro dei suoi discorsi vi è la correzione della storia: uno strumento politico che i leader usano per giustificare le proprie azioni politiche. In Russia, vi è un’unica comunicazione di regime che vede i principali media affiliati e Putin. Anche Zelensky, ha unificato tutti i canali televisivi in un’unica piattaforma di comunicazione strategica attivo 24 ore al giorno. Anche qui, non c’è molto spazio per l’opposizione. Basta scorrere i post pubblicati sui diversi social media per rendersi conto di quanto sia cambiato radicalmente lo stile di comunicazione del presidente ucraino dopo l’invasione russa. Prima dell’accaduto, Zelensky si mostrava in abito scuro e cravatta. Dopo l’invasione, cade la forma istituzionale: egli è sempre in maglietta color cachi, al fianco dei militari. In uno dei primi video fatti circolare dopo lo scoppio della guerra, il presidente ucraino è circondato dai suoi collaboratori per le strade della capitale, dichiara di non voler lasciare il suo paese, diventando l’eroe della resistenza. Zelensky si rivolge al popolo come un amico. Nel suo discorso al Parlamento inglese, conferma il suo talento da oratore, citando dapprima Shakespeare e poi Winston Churchill. Anche il suo discorso al Parlamento europeo ha provocato commozione, persino all’interprete. E poi c’è la chiusa finale: il pugno destro verso l’alto, simbolo di lotta e resistenza. Zelensky ha più volto battuto il tasto dell’Europa, cercando di creare coinvolgimento attorno alla questione ucraina: se cade l’Ucraina, cade l’Europa. Il governo di Kiev ha anche fatto ricorso alla guerra psicologica, con l’attivazione di un sito web che consente alle famiglie russe di conoscere lo stato dei loro figli, soldati inviati al fronte di cui non hanno più notizie. Ironia della sorte, Zelensky si è fatto conoscere dal grande schermo per avere impersonato un Napoleone alquanto divertente che cercava di invadere la Russia. Zelensky è sempre stato un comico, ma soprattutto un attivista. Queste due facce si sono manifestate nella serie da lui ideata “Servant of the people”, ma ancora prima negli sketch del sabato sera che lo hanno reso celebre in Ucraina. Aleksej Naval'nyj, il principale oppositore interno di Putin, è la dimostrazione che un’altra comunicazione, anche in Russia, è possibile. Da YouTuber a politico, si è candidato a sindaco di Mosca, sfiorando il ballottaggio con il candidato del partito di Putin. Naval'nyj ha costruito la sua figura sui social, in particolare su YouTube. Anche Zelensky è partito da Youtube. In realtà tutto è iniziato da Vasily Petrovich Goloborodko, il professore da lui interpretato nella serie da lui ideata “Servant of the people”. Zelensky impersonava un uomo diventato presidente per caso grazie alla viralità di un video. Dopo cinque anni, lui stesso è diventato presidente, stavolta non per caso, ma sfruttando la popolarità che ha ottenuto con la serie. Questa è la prima volta nella storia che una fiction televisiva diventa un veicolo politico. “Sluha Narodu”, il nome originale della serie, ha avuto un successo senza precedenti in Ucraina: è in assoluto la serie più vista della storia del Paese. Il presidente ucraino non è solo un leader moderno che adotta una comunicazione basata sui social network; Volodymyr Zelensky è il primo presidente influencer della storia. 
 
di Daniele Leonardi
 

Il fronte parallelo digitale

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La legge sulle “fake news” decisa dal governo russo prevede 15 anni di carcere e una multa da un milione e mezzo di rubli. Ciò ha provocato il ritiro degli inviati da parte delle testate straniere e ha limitato (e fermato) il lavoro delle poche testate giornalistiche indipendenti. Restano quindi solo i media affiliati a Putin: Il National Media Group, che muove i fili della macchina della menzogna in Russia, è guidato da quella che sembrerebbe l’amante di Putin, Alina Kabaeva. I giovani, però, hanno uno strumento prezioso: la rete. Non è un caso che Aleksej Naval'nyj, il principale oppositore interno di Putin, ha costruito la sua figura in rete, in particolare su YouTube. Naval'nyj è la dimostrazione che un’altra comunicazione, anche in Russia, è possibile. Sono tanti i ragazzi russi che stanno provando a dissuadere i genitori dalle convinzioni generate dalla propaganda del Cremlino. Nell’opinione pubblica russa è nato uno scontro generazionale tra genitori e figli dovuto proprio al diverso modo di reperire le notizie su quello che sta accadendo in Ucraina. Mentre le emittenti controllate dal Cremlino fanno da cassa di risonanza alle fake news del governo, molti giovani usano i social network e VPN per cercare fonti di informazione alternative ed affidabili. Le VPN sono servizi di reti private virtuali, grazie alla quali è possibile geolocalizzarsi in un altro stato per riuscire ad aggirare le restrizioni. Il sito top10vpn.com, che registra i flussi di accesso e di download delle VPN nei singoli paesi, afferma che la domanda per le reti privati virtuali in Russia nel periodo che va dal 24 febbraio al 10 marzo 2022 è aumentata del 1.092%. Il picco è stato registrato quando le autorità russe hanno bloccato l’accesso a Facebook e Twitter il 4 marzo scorso. Internet sembra essere l’unico modo per contrastare il potere dei media controllato dai governi. Le tv sono di parte, così come le radio ed i giornali. Internet, invece, è un insieme di reti troppo grande per essere controllato, che supera i confini nazionali, seppur i social network siano il frutto delle scelte di aziende private che dettano le loro regole. 
Elon Musk ha messo a disposizione i suoi satelliti (SpaceX) per permettere la connessione all’Ucraina. Anche il collettivo di hacker Anonymous è sceso in prima linea dichiarando guerra (cibernetica) alla Russia. Esiste, quindi, uno scontro su un fronte parallelo digitale, in cui Anonymous ha lanciato “Operation Russia”, una campagna contro il governo Mosca finché la Russia non deciderà di ritirarsi dall’invasione. Una delle mosse del collettivo di hacker è stata quella di interrompere, per una decina di minuti, la programmazione regolare di diversi canali televisivi russi, mostrando immagini della guerra in Ucraina e messaggi nei quali veniva spiegato che il governo russo stava mentendo ai propri cittadini sulle ragioni del conflitto. Una guerra che si sta combattendo nel cyberspazio, tra attacchi informatici, propaganda e strategia della paura. Anonymous ha violato oltre 2500 siti Web di governi russi e bielorussi, organi di stampa statali, banche, ospedali, aeroporti, impianti nucleari, aziende e "gruppi di hacker" filorussi. La rete è la vera protagonista di questa guerra. Essa rappresenta un nuovo modo di combatterla e di documentarla. Un modo per evadere dalla comunicazione di regime, per chiedere aiuto, per cercare la verità. 
 
di Daniele Leonardi
 

Libertà di stampa, fino a che punto?

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Il 3 maggio, in occasione della giornata mondiale della libertà di stampa, il World Press Freedom Index ha pubblicato i dati relativi all’analisi realizzata dal Reporter Sans Frontieres, il quale ha studiato la libertà di stampa a livello globale e l’ha classificata rispetto a cinque diversi parametri: contesto politico, legale, economico, socioculturale e di sicurezza. Il nostro Paese ha perso, in un solo anno, 17 posizioni, scendendo dalla quarantunesima alla cinquantottesima posizione. Il nord Europa apre la classifica con Norvegia, Danimarca e Svezia. L’Italia, superata anche da Gambia e Suriname, si inserisce tra la Macedonia del Nord e il Niger. Un cambio di rotta che inverte una tendenza positiva iniziata nel 2016, che vedeva l’Italia risalire dalla settantasettesima posizione fino alla quarantunesima. Si legge nel report che la motivazione di questo crollo è legata all’autocensura: “i giornalisti (italiani, ndr) a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o della criminalità organizzata”. Sarebbero infatti 44 le intimidazioni ai giornalisti italiani nei primi tre mesi del 2022. I giornalisti in Italia incontrano tanti limiti nell’esercizio del loro lavoro e poca tutela legislativa. Inoltre, pesano le problematiche economiche che costringono i giornali ad avere una dipendenza dagli introiti pubblicitari. E poi c’è la pandemia, che ha reso più complesso per i media nazionali l’accesso ai dati. Ma dove finisce la libertà di stampa e inizia la censura? L’Unione Europea ha acceso i riflettori sulla tendenza italiana a dare grande spazio ai giornalisti russi nei talk show. “Le emittenti in Italia e negli altri Stati membri non devono permettere l’incitamento alla violenza, l’odio e la propaganda russa nei loro programmi, come previsto dalla direttiva UE”, ha avvertito il portavoce della Commissione per il Digitale, Johannes Bahrke. Quanto puntualizzato dalla Commissione Europea arriva sull’onda lunga delle polemiche per l’invito del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al programma Zona Bianca su Rete 4, in cui si è verificato un intervento senza contraddittorio, con annesso “buon lavoro” pronunciato in chiusa finale dal conduttore a favore del ministro russo. Anche il premier Draghi ha speso un breve intervento in conferenza stampa per sottolineare come quello andato in onda su Mediaset sia stato uno spettacolo poco gradevole, ma che in Italia è possibile perché vi è la libertà di espressione a differenza della Russia. Infatti, da quando Putin è salito al potere (1999) sarebbero 31 i giornalisti uccisi in Russia, secondo i dati documentati dal Comitato per la protezione dei giornalisti. Un capitolo iniziato con l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaya (alla cui memoria è oggi intitolata la sala stampa del Parlamento Europeo in Bruxelles). Politkovskaya aveva accusava Putin di aver fatto della Russia uno stato di polizia. L’ultima vittima avrebbe potuto essere Aleksej Naval'nyj, il principale oppositore politico di Putin in Russia, se non fosse stato salvato dai medici del Charité Hospital di Berlino. Naval'nyj perde conoscenza e cade sulla moquette del corridoio di un aereo low-cost nel cielo della Siberia. La televisione di stato russa ha dato una visione diversa, parlando di intossicazione. Oggi l’attivista e blogger russo, accusato e condannato per appropriazione indebita e di oltraggio alla Corte, sconta la sua pena in un carcere di massima sicurezza, dopo un processo farsa. 
Inutile dire che la Russia occupi una delle ultime posizioni, è al 155º posto, su 180. Il quadro completo emerso dall’analisi annuale è critico: nel mondo si registra un aumento del 20% degli arresti di giornalisti rispetto allo scorso anno. Solo nel 2021 sono stati imprigionati in tutto il mondo 488 giornalisti e operatori dell’informazione mentre svolgevano il loro lavoro. Le situazioni più gravi si riscontrano in Bielorussia, Myanmar e Cina. 
 
di Daniele Leonardi
 

L'indifferenza è il peso morto della storia

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L’Anniversario della Liberazione d'Italia avvenuto pochi giorni fa ci offre lo spunto per ricordare le parole di un partigiano, Antonio Gramsci, il quale diceva che vivere è prendere posizione. Nello specifico, nel testo “11 febbraio 1917” egli scrive che il male non lo fanno solo i pochi che lo vogliono ma anche coloro che consentono, con il silenzio omertoso, che esso vada avanti. Egli diceva che “l’indifferenza opera potentemente nella storia”. Parlava di indifferenza ma anche di ipocrisia, quella che spesso circonda l’uso e la vendita delle armi. In questi due mesi di guerra in Ucraina abbiamo sentito dalla diplomazia occidentale parlare solo di armi. Le stesse, alla cui fabbricazione, lo Stato italiano non ha rinunciato, nemmeno durante il lockdown. Gli stabilimenti, infatti, sono rimasti aperti in quanto ritenuti attività di prima necessità. Come se non bastasse, l’Italia si è impegnata a portare le spese militari al 2 per cento del PIL (ora siamo all’1,41 per cento), dapprima entro il 2024 e poi in una più graduale crescita entro il 2028. In realtà, i paesi della NATO cominciarono a parlare della necessità di destinare il 2 per cento del PIL di ciascun paese alle spese militari già nel lontano 2006, al vertice NATO di Riga, in Lettonia. In questo modo, in Italia, le spese annuali dovrebbero passare dagli attuali 25 miliardi di euro a 38 milioni. Tuttavia, non vi è ancora un piano sulla ridistribuzione di queste nuove risorse. La speranza è che un aumento delle spese per la difesa non rappresenti una nuova corsa agli armamenti. Le armi uccidono e distruggono, per la semplice ragione che nascono per questo. Sapere che l’Italia vende gli strumenti necessari affinché ci possa essere una guerra fa male al nostro senso di colpa. Tutto quello che non vogliamo vedere va nascosto. E così, mentre lo Stato vende armi di distruzione, noi siamo persi nelle armi mediatiche di distrazione, perché l’opinione pubblica deve sopire, non essere partecipe. E allora tornano in mente le parole di Antonio Gramsci: “Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa”. Ragione per cui va bene anche il segreto di Stato sulle armi che inviamo all’Ucraina. Il governo italiano ha deciso di schierarsi con l’Ucraina, ma questa non è l’unica guerra in cui abbiamo preso posizione. Decidendo a chi vendere le armi, decidiamo da che parte del conflitto stare. Il principale acquirente degli armamenti italiani è l’Egitto. Non dobbiamo dimenticare però anche Qatar, Turchia e Kuwait, solo per citarne alcuni. Negli anni scorsi, l’Italia ha venduto armi e sistemi militari alla colazione saudita nella guerra contro lo Yemen, salvo poi, tornare indietro sui suoi passi per l’indignazione dell’opinione pubblica e dell’organizzazione per i diritti umani. Se ciò non fosse avvenuto, altri bambini e civili yemeniti sarebbero morti sotto le bombe che portavano il codice A4447, riconducibili alla fabbrica di armi in Sardegna. E quindi, si, “l’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera”. 
La produzione di armi è un business. E l’Italia ama questo tipo di business. 
La legge n. 185 del 1990 stabilisce infatti che le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia” e che “le operazioni devono essere regolamentate dallo Stato secondo i princìpi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. 
La produzione militare italiana, secondo quanto specificato pocanzi, dovrebbe essere indirizzata alla sola difesa e sicurezza del nostro Paese. Eppure, l’Italia è presente nelle aree di maggior tensione del mondo. Quella del business degli armamenti non può più essere un tema marginale. Non in una democrazia. Un’opinione pubblica che ripudia la guerra, deve farlo in ogni suo aspetto, perché l’indifferenza permette e alimenta le ingiustizie. Perché la storia va avanti per il male voluto da pochi e il silenzio omertoso dei tanti. 
 
di Daniele Leonardi