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Dietro Guernica c’è Mariupol

La terra trema, la gente scappa. Il terremoto a Mariupol si è abbattuto dall’alto. 
Quel bombardamento civile di cui raccontava Picasso in Guernica ha trovato nuova vita in Ucraina. A Mariupol c’è la storia che si ripete. 
Sulla capitale religiosa e storica dei paesi baschi si abbatterono aerei tedeschi e italiani nell’aprile 1937. Anche italiani, perché nessun popolo è sottratto da responsabilità, tantomeno noi. Perché l’indignazione che proviamo verso le morti innocenti ucraine deve essere la stessa dei bambini colpiti dai bombardamenti in Siria o in Yemen, perché non esistono vittime di serie A o di serie B. Perché le guerre sono tutte uguali: Guernica è Mariupol, ma anche Vietnam, Afghanistan, Yemen, Palestina, Bosnia, Siria, Cecenia. 
Vittorio Arrigoni, attivista filopalestinese, oltreché giornalista e scrittore italiano, diceva che “il silenzio del «mondo civile» è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte”. Egli parlava di silenzio, lo stesso che ha dipinto Picasso, perché nel silenzio c’è l’ipocrisia. Quell’ipocrisia che ha visto, negli stessi minuti, gli aerei russi bombardare l’ospedale pediatrico di Mariupol e Putin discutere di diritti dell’infanzia dei bambini delle Repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Questa triste verità, che conosceva bene Picasso, è da lui rappresentata nel dipinto dal cavallo centrale raffigurato con una texture che ricorda le pagine dei giornali: quella stampa di regime, che, nel negare l’accaduto, ha ucciso al pari delle bombe. Quell’ipocrisia che ha visto il riconoscimento dei bombardamenti di Guernica solo nel processo di Norimberga, in cui, tra l’altro, si è anche appurato che si trattava di un test: “Guernica fu per la Lutwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”. Queste le parole di Hermann Goering, allora generale tedesco.
Forse perché la storia è ciclica, la Russia ha fatto lo stesso a Mariupol. Perché se bombardi un ospedale è un test. Un messaggio rivolto all’occidente, visto indebolito dalla democrazia, per testare la sua capacità di sopportare l’orrore. Ma se è vero che ci si abitua a tutto, a tutto non ci si può abituare. Infatti, secondo la filosofa Susan Sontag, “la nostra capacità di sopportare il crescente grottesco delle immagini e delle parole scritte ha un prezzo oneroso. Alla lunga non è una liberazione ma una riduzione dell’io: una pseudo-familiarità con l’orribile rafforza l’alienazione e diminuisce la nostra capacità di reagire ad esso nella realtà”. Ci siamo abituati a vedere nella nostra quotidianità le immagini della guerra facendo finta di nulla, perché in fondo la guerra era fisicamente e culturalmente lontana e, quindi, «giustificabile». Ora è caduta una bomba sull’Europa, che ci ha svegliato da un sonno apparente. 
Nel Donbass e nel mondo si combatte per dei confini, ma Vittorio Arrigoni ci ha insegnato che quest’ultimi non esistono, che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, quella umana. La guerra non è scoppiata oggi, è solo più vicina.
 
Daniele Leonardi