Il Duce attraverso il Luce

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Creato Mercoledì, 11 Maggio 2011 07:30
Ultima modifica il Venerdì, 27 Maggio 2016 08:55
Pubblicato Mercoledì, 11 Maggio 2011 07:30
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Il Duce attraverso il Luce

 

 

 

Una confessione cinematografica

di Enzo Antonio Cicchino

Mursia Editore p.830

 

 

 

 

 

 

 

Una presenza al primo impatto ingombrante questo libro di Enzo Antonio Cicchino. Non solo per la mole cartacea (830 p.) quanto per  non prestarsi a una veloce lettura trasversale. Siamo costretti a rallentare, inchiodati a “L’impermeabile giallo” (1° cap.), quello di Hitler, dalla cui ombra rigida “sbucano come fantasmi” le scarpe di vernice (p. 9). Certamente lucide, ci vien subito da pensare, come un pensiero malato in una testa che non seppe contenerlo.

E con lui, che a Mussolini da subito non piace, incontriamo “altri masticatori usciti dalle tane del cielo ed ora ministri della grande Germania, stretti nelle giacche scure sigillate con bottoni dalla testa di morto... in fila come cani al traino” (p. 5).

Dunque fin dalle prime pagine ci coinvolge lo stile narrativo di questa originale confessione cinematografica, assemblata dall’autore  con l’occhio esperto di documentarista che ha dimestichezza con la  propaganda dell’epoca fascista.

Il porre l’attenzione al momento in cui i cinegiornali arrivavano nelle sale porta a ripensamenti su quanto taciuto in quelli precedenti, sempre puntualmente manipolati in una “sintassi mai casuale” (p. 11) che sorvolando sui momenti cruciali delle guerre in corso in Abissinia, Libia o Sicilia, o di quando si moriva assiderati sulle alture della Grecia, si fa storia nel falsarla.

Nel riferirci dei rapporti con Francia e Inghilterra e con lo stesso Fuhrer, le immagini del Luce sono destinate fin dal loro sorgere, nel 1925, a una diplomazia che cerca di sedurre, dimostrando comunioni di fatto che in realtà Mussolini non riuscì mai stabilmente a raggiungere. E Cicchino ce lo racconta bene, sviluppando lo scarto tra quanto veniva propinato e il non detto, ma rilevando che “pur dovendo spaziare sui volti speranzosi degli italiani... chiamati a morire... ottimisti col sorriso di cuoio” (p. 81), i film Luce non sempre riescono a nascondere la verità dell’economia rispetto a quella della propaganda.

Piccola digressione. Come non accorgersi di quanto questa analisi sia attuale?  Di come anche oggi sia necessario non distrarsi per vedere quel che c’è dietro certa “informazione” televisiva che ne palesa l’insincerità, non dissimile a quella dell’Istituto Luce nella sua strategia linguistica vagliata dalla censura di Mussolini?

Venutosi a trovare come regista esperto nella necessità di recuperare più materiale valido possibile, e dovendo al contempo starne attento al contenuto, a non fargli perdere l’inquadratura significativa, l’autore ha escogitato di far seguire ai filmati e alla trascrizione delle registrazioni audio impresse sulla pellicola, la voce silenziosa della sua scrittura come interprete  di  figure e suoni.

Ecco allora che i bambini in braccio non sono solo quelli che porgono i fiori al Duce. Altri hanno “Sguardi parole. Cenciosi. Contorti, Smorti” (p. 90).Sono “Volti di bambini sorti all’improvviso. Generati come topi dalla polvere...” E i combattenti diventano “Soldati preganti col rosario delle armi... schiene dure di ossa di piombo... identici a uccelli che hanno perso le penne”(p. 135).

Dunque nonostante l’intellighenzia cinematografica, le immagini filtrate dalla narrazione danno alla politica, quella vera, un significato diverso dalle apparenze.

Se già nella foto di copertina ci aveva colpito un primo accostamento tra scrittura e gusto figurativo poi, nel libro,  è ancora la scrittura di Cicchino a rendere estraneo alla pellicola il commento volutamente secco e scarno dello speaker che sembra non avere vita né movimento. Se la strategia degli operatori Luce è quella di dare di volta in volta, nelle varie fasi della guerra, cordoglio a questa parte o a quella, per esaltarla od offuscarla a seconda di quale alleato ci si voglia al momento ingraziare,  l’autore se ne  separa per accomunare le stesse parti avverse in un’unica memoria che travalica i fatti per dirci solo del peso della devastazione e delle sofferenze.

Comprendiamo così che la cifra del libro è recupero non tanto nell’analisi dell’elemento storico ma di quello narrativo. Un tentativo di restituire emotivamente le sensazioni del telegiornale non attraverso una oggettività assoluta, ma mettendo in evidenza elementi che nei cinegiornali non ci sono stati.

Ma non ci sono stati perché? Quel che vien fuori è che rispetto a quanto riportato in accordo con lo stesso Renzo De Felice, sul fatto che Mussolini con la sua ambiguità avrebbe rinviato l’invasione dell’Italia di tre anni rispetto a quella della Francia, da acuto osservatore dei mezzi di informazione che fanno politica Cicchino mette in evidenza come fu proprio il sistema d’informazione del Luce a consentire di bilanciare i tempi dell’entrata in guerra. Dunque la sua operazione letteraria con la Storia vuol puntare il dito anche su  qualche intenzione “buona”, che malgrado tutto forse ci fu, nel tentativo maldestro di difendersi dal tranello nazista.

Operazione che però non dimentica gli intrighi funesti e  prosegue in un crescendo narrativo che diventa raccapricciante metafora.

Nel capitolo “Gli incontri fantasma” (p. 707), nel momento in cui veniamo a sapere che il regista del Luce preferito da Mussolini era Roberto Omegna, i cui capolavori erano “La mantide religiosa” e “Vita del ragno crociato”, e che il Duce era  ossessionato e affascinato dalla loro strategia di sopravvivere, ci viene anche riportato il filmato in questione. Come direttore della sezione scientifica dell’Istituto Nazionale Luce, Omegna aveva realizzato oltre un centinaio di film. Uno anche su“La vita delle farfalle”. Organismi evidentemente troppo liberi per il Duce, che si ostinava a voler  conoscere a memoria solo i fotogrammi che tessono la rete e l’agire del ragno per difendersi dalla mantide.

Ci viene raccontato come le guarda e riguarda “ mentre la polvere e le macerie schiacciano i vivi e i morti come nulla più che insetti” (p. 709) Ma chi è la mantide? Chi il ragno? Si domanda e sembra domandarci l’autore. Altrove ci dice che niente si sa di cosa ebbero a dirsi nei loro incontri privati il Duce e il Fuhrer fino al momento dell’imbroglio della falsa pace “Due strette di mano” (cap. XVII), ma  ci viene ricordato che il Fuhrer in gioventù era stato omosessuale e che il suo amore particolarissimo per Mussolini, ostinato quanto incondizionato nella promessa di non abbandonarlo mai “Mai, qualunque cosa accada!” (cap.VII), fa ripensare al fatto che tutta la loro storia politica potrebbe essere raccontata come una incontenibile passione non ricambiata del Fuhrer per il Duce che invece da sempre nutre per lui un odio ben fermo che non sempre riesce a dissimulare.

E dunque tutto quel che seguì, poteva essere ben rappresentato dal filmato dove il ragno impotente è alle prese con una femmina mantide non facilmente trattabile, perché nonostante il maschio cerchi di accaparrarsene le grazie, ancor vivo sarà da lei messo in disparte dopo il pasto e infine ucciso e divorato (p. 709-714).

La metafora senza scampo viene a dirci che per quanto astuto sia l’aracnide nell’ungere le zampe di olio vischioso per salvarsi dalla sua stessa trappola, il potere politico non ottenne lo stesso successo nel tentare la medesima strategia. L’invischiamento di Mussolini con colui che definiva un “pervertito sessuale” divenne e restò “artifizio di eccitazione e morte come essenza del fascismo”.

Dal capitolo “Cuocere nel brodo” (XXVIII) il cinegiornale che riparte dalla numerazione n.1 fa una panoramica su Venezia in tono meno pomposo. Mostra uomini “armati di indifferenza”, che non sono più gli stessi nell’esultare per l’Italia monarchica. Dalle riprese sono totalmente scomparsi l’aquila, i fasci littori e i carri armati. Ci si illude che la fine di Mussolini significhi fine della guerra.

E’ luglio di uomini. Irate donne slacciate. Lune imboscate fra nubi, frammezzate di rosso e di spine.(p. 726)

Poi, nella descrizione del bombardamento su Roma. Un soffio diverso nella scrittura evoca reminiscenze futuriste. Come se le parole stesse,  per una necessità di rapporto con quanto cade dal cielo si pongano come effluvio contaminato dalla identificazione con l’aggressore. Ed è: “Inferno umano d’asfalto. Uomini setacciati. Barelle. Muri, di carne sventrati. Corpi salmistrati. Lingue. Morte. Di mani che fuoriescono. D’un frate che s’aggira. Sconfitto. Senza più soffitto“ (p. 728). E poi ancora: ”Non è la sfrontatezza dei millenni che è umiliata ma i volti tumefatti di quei grossi mosconi umani coventrizzati(...)V’è una dimensione astrale, assoluta. Colpi di obiettivo e della morte. Ma anche di una poesia dell’abisso, del dolore cosmico (p. 748).

Poi, nel capitolo “ E salì a Salò” così sul trasferimento di Mussolini al quartier generale di Hitler: “Sangue di ruggine, cuore di sfinge, Hitler è qualcosa di più di Himmler, l’entomologo della morte. Possiede la perfezione degli antichi veleni, la segretezza delle intime asfissie, il calore distruttore del gelo...” (p. 788)

Se la ricerca scientifica sul fascismo è materia di tale ampiezza e molteplicità di possibili interpretazioni, e se per lo più si pensa che la materia dell’epoca del fascismo può essere compresa soltanto mediante una stretta relazione tra pensiero filosofico e una visione storica, vien da domandarsi dov’è allora questa relazione nel libro di Cicchino. Una risposta potremmo trovarla in quel che molto recentemente si dice a proposito della inadeguatezza della filosofia a interpretare la modernità rispetto ad alcune  narrazioni che sanno meglio esprimersi per immagini. Immagini intese non tanto come figure, quanto per il pensiero che ne sottende le forme. Diverso da quello filosofico che per secoli ha parlato di se stesso senza mai  dirci da dove esso pensiero sorga.

Se fin dal primo capitolo ci siamo sentiti trascinare nella politica della doppiezza ciò vuol dire lo stile dei cinegiornali Luce una sua filosofia ce l’ha. Anche se non  concettualizzata ma sottintesa. Una  filosofia che la narrazione rende tanto più chiara quanto  più ben rappresentata.

Arriviamo così alla pellicola su “Piazzale Loreto” (XXXII e ultimo cap.) che “pare che palpiti”...Dove “Il passato si chiude. Vendetta si schiude...tra le gambe che guardano...i volti che premono...Tra vittime. Carnefici. Spettatori appollaiati come avvoltoi sui lampioni..I fotogrammi durano un lampo...La pellicola è totalmente frantumata... (p. 824)

Ma con essa (dalla quale si è potuto trarre le foto che documentano l’indicibile fino alla fine), ci vien da dire noi vediamo frantumarsi paradossalmente anche “L’essere per la morte” teorizzato da Heidegger. Ritenuto a tutt’oggi grande filosofo dai più, nonostante avesse aderito al partito nazista, Ernst Nolte lo ricorda ne “I tre volti del Fascismo” appellandosi a una sorta di trascendenza riparatrice.

Il narrare attraverso immagini si appella invece alla fantasia interna che è propria dell’uomo. Che vuol ricreare ciò che fu il primo sentire al momento della nostra nascita quando rifiutammo il mondo disumano per cercare in quello umano il rapporto e la vita. Ed è per questo che, come conclude l’autore, “la storia non si cancella attraverso la sepoltura né la follia umana con la vendetta sui colpevoli”. (p. 825)

Una riflessione, questa, che ci accosta al pensiero nuovo teorizzato dalla moderna psichiatria, che con la scoperta della “teoria della nascita” di Massimo Fagioli ha restituito alla realtà umana il sentire originario dell’immagine interna che è sempre stata dei poeti e degli scrittori. Un pensiero qualitativamente superiore che passivizza la razionalità filosofica caratterizzata dal logos del  pensiero occidentale e rende protagonista la storia nel suo farsi realtà umana uguale e al contempo diversa.

di Giovanna Bruco

GiovannaBruco è una pedagogista relazionale nata in Grecia da padre pugliese e madre slava. Ha vissuto per anni a New York dove ha sudiato la psicologia sociale e quella clinica. Si è laureata in pedagogia con indirizzo psicologico a Firenze nel  1975 dove vive e opera. Da allora la sua formazione è legata alla scuola romana di psicoterapia e psichiatria che si ispira all’opera teorica di Massimo Fagioli. Interessata alla metafora letteraria e a quella interattiva nell’intervento pedagogico-relazionale, nel 1998 ha conseguito la relativa qualifica con corso di specializzazione regionale. Ha esordito nella narrativa nel 1997, per Manni Editori, con il romanzo Assemblaggi imperfetti. Nel 2005 ottiene il secondo premio narrativa al Concorso Nazionale Ibiskos con il romanzo La nettarina, e nel 2006 vince il primo premio per la saggistica Onlus Belmoro col testo scientifico La zucca di Cenerentola, (sott.L’errore pedagogico). Il racconto in appendice Pensa la notte condensa la cifra del libro come  metafora della trasformazione del pensiero nel passaggio dalla  veglia al linguaggio dei sogni. Oltre che con articoli su  giornali di pedagogia  collabora con saggi e interventi alla rivista psichiatrica “Il sogno della farfalla”, a quella filosofica “Segni e comprensione” e a quella letteraria “L’immaginazione”.