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Creato Mercoledì, 28 Giugno 2023 13:48
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Ultima modifica il Martedì, 17 Ottobre 2023 11:49
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Pubblicato Mercoledì, 28 Giugno 2023 13:48
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Una guerra mediatica, quella alle ong, che serve al governo italiano per creare una narrazione. Creare una storia in cui c'è un nemico da combattere per alimentare il proprio consenso. Le ONG, secondo il ministro dell’Interno Piantedosi attraggono i migranti (nella sua informativa al Senato dello scorso novembre ha dichiarato: "La presenza di navi Ong continua a rappresentare un fattore di attrazione). Non è questa la sede per discutere la veridicità o meno di queste dichiarazioni, anche se è evidente che i migranti non vedano nel mare un porto sicuro e che nessuna accusa di collusione tra ong e trafficanti si è rivelata fondata finora, ma queste parole ci offrono soprattutto lo spunto per intraprendere una riflessione più ampia: strumentalizzare un tema complesso come quello dell'immigrazione significa abbassare il livello della questione. Quella che si combatte in mare è una vera e propria guerra e merita di essere trattata come tale. A certificarlo sono i numeri impietosi delle vittime: secondo l'Oim (l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nei primi sei mesi del 2023 sono morti o dispersi circa 1.300 migranti nel tentativo di raggiungere l'Europa attraverso il Mar Mediterraneo: è il dato più alto dal 2017 ed è una sottostima del numero reale.
Il tema della gestione dei flussi migratori è tornato prepotentemente ad essere motivo di tensione tra Francia e Italia. L’arrivo al potere di Giorgia Meloni ha riacceso una crisi bilaterale che va avanti da tempo. Entrambi i Paesi stanno vivendo tensioni interne sulle questioni migratorie, ma il problema è ad un livello diverso. La vera questione è la personalizzazione della politica e politicizzazione dei temi che inasprisce le relazioni bilaterali. Prima era il leader Macron vs il sovranista Salvini nel 2018-19, ora è un nuovo scontro con la destra impersonificata dalla Meloni. La personalizzazione della politica, che ha visto il suo avvento con la figura di Berlusconi, ha abbassato il livello del dibattuto politico. Da un linguaggio argomentativo la politica si è spostata ad un linguaggio assertivo, abbassando il livello del dibattito, riempendo la politica di superficialità e slogan. Il giornalismo ha il compito di smontare questa narrazione e riportare il livello dell’agenda politica ad un gradino più alto. Le norme del diritto internazionale dicono che i naufraghi vanno salvati sempre, qualsiasi sia la loro condizione. la Commissione europea ha dichiarato che il primo obbligo dei paesi è salvare vite in mare senza fare differenze tra navi delle ong e altre navi. Uno studio sugli sbarchi tra il 2014 e il 2019 ha dimostrato che i migranti ignorando la possibilità di essere soccorsi: su 650.000 persone partite in questi anni e solo 115.000 sono state soccorse dalle ong, cioè il 18%. La Commissione europea ha detto che il meccanismo di solidarietà tra i paesi europei rimarrà attivo, nonostante Parigi abbia rifiutato di ricollocare 3.500 richiedenti asilo dall’Italia, dopo che Roma a sua volta ha negato un porto di sbarco alla nave umanitaria Ocean Viking, la quale aveva portato in salvo 234 persone. La Francia ha contemporaneamente annunciato che non parteciperà più al meccanismo di ricollocamento, approvato nel giugno 2022 per emendare il regolamento di Dublino, secondo il quale a prendere in carico le domande di asilo devono essere i primi paesi di ingresso in Europa, motivo per il quale l’Italia soffre più delle altre nazioni la questione migratoria. Ma il resto dell’Europa non resta a guardare: nel 2021 la Svezia ha accolto un numero di migranti pari al 2.3% della sua popolazione e la Germania l'1.5%, l’Italia lo 0,2%. Il tema dell’immigrazione serve a creare una guerra mediatica, dimenticando la vera guerra è in mare e ha prodotto il dato più alto di morti dal 2017.
di Daniele Leonardi
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Creato Venerdì, 16 Giugno 2023 13:47
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Ultima modifica il Martedì, 17 Ottobre 2023 11:47
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Pubblicato Venerdì, 16 Giugno 2023 13:47
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Le nuove generazioni tendono ad affidarsi più agli influencer e in generale alle personalità che abitano i social media, piuttosto che ai cosiddetti giornalisti tradizionali. A sottolinearlo è il Digital News Report dell'Istituto Reuters, giunto alla sua dodicesima edizione, pubblicato pochi giorni fa. Ogni anno, dal 2012, il Reuters Institute pubblica il "Digital News report", un dossier sul mondo dell'informazione che racconta come oggi ci informiamo. Premettendo che i dati devono essere contestualizzati e che uno studio è un’analisi su un campione e non la verità oggettiva, questi numeri qualcosa ci dicono: lo studio certifica un calo mondiale della fiducia nelle notizie: si attesta al 40%, rispetto al 42% del 2022. “Le ragioni non sono del tutto chiare”, si legge nel report: “Dalla ricerca dello scorso anno sappiamo che molti giovani si sentono sopraffatti dalla negatività che percepiscono nei loro feed social”. La Finlandia, in controtendenza, è il Paese con i livelli di fiducia più alta nelle notizie (69%). Non è un caso che il paese nordico sia in cima anche alla classifica del World Happiness Report. Notizie e salute mentale sono collegate tra loro, si legge nel report: “I have to consciously make the effort to turn away for the sake of my own mental health” (devo fare consapevolmente lo sforzo di allontanarmi per il bene della mia salute mentale). Nessuna novità, basta riprendere le parole di Charlie Skinner, personaggio della serie tv “The Newsroom” del regista Aaron Sorkin, molto attento al mondo del giornalismo: «Gli organi di informazione sono al servizio della comunità e hanno il compito di informare la gente, ma anche l'immenso potere di condizionarla». La conseguenza è che la partecipazione attiva è in declino (22%), mentre cresce la percentuale di persone che sostiene di evitare le notizie, allontanandosi da ogni fonte di news o selezionando solo alcune tematiche. Scappare dalle notizie a favore dell’intrattenimento. Su Facebook e Twitter le testate giornalistiche restano quelle più seguite se si cercano notizie su questi due social, quando ci spostiamo su YouTube, Instagram e TikTok la risposta degli utenti è diversa. Ci si sofferma di più su ciò che raccontano gli influencer e in generale i personaggi più noti. Su TikTok c’è un elemento in più: anche le persone comuni sono considerate una fonte di informazione. Nell’analisi condotta in 46 Paesi, il 56% degli utenti afferma di essere preoccupato perché non riesce a distinguere la differenza tra notizie reali e false su Internet. Solo il 30% pensa che la selezione delle notizie degli algoritmi dei social sia buona, ma è comunque una percentuale più alta di chi preferisce una selezione guidata dalle testate giornalistiche (27%). La direzione intrapresa dai media è quella di una spettacolarizzazione delle news. Sempre più informazione unita all’intrattenimento, che non può non abbassare il livello di informazione, poiché maggiore è l’intrattenimento minore è l’approfondimento. Il rischio è di una superficialità che porti a non risolvere le questioni che il giornalismo porta alla luce, ma che l’informazione diventi solo una forma di intrattenimento, perdendo la sua funzione di gatekeeper della società.
di Daniele Leonardi
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Creato Domenica, 21 Maggio 2023 13:44
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Ultima modifica il Martedì, 17 Ottobre 2023 11:45
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Pubblicato Domenica, 21 Maggio 2023 13:45
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Nella storia dell'umanità è la prima volta che le forze armate di uno Stato sono così tanto presenti nel mondo come quelle degli USA. Al momento ci sono soldati americani operativi in almeno 170 Paesi e gli Stati Uniti hanno almeno 642 basi in 76 Stati. Una presenza così diffusa permette di controllare anche il commercio globale attraverso il controllo dei "choke points" (gli stretti e i canali marini strategici). In Italia ci sono 49 basi, 129 se si considerano tutti i presidi, anche semplici installazioni. Ciò non basta per dare il primato all’Italia: infatti, la nostra penisola è solo il quarto Stato per presenza di basi USA: ne vantano di più solo Germania (123), Giappone (113), Corea del Sud (79). Le basi garantiscono la capacità di reagire in tempo rapido ed efficiente a qualunque minaccia possa sorgere, oltre a tenere sotto controllo gli alleati, impedendo una indipendenza economica e militare di queste nazioni. Le basi europee, che sono vere e proprie isole nelle quali viene ricreato un sistema americano all’interno, non servono nel quotidiano ad esercitare il predominio americano in Europa, ma come piattaforme di lancio per andare nei territori di conflitto. In cambio questi Stati hanno protezione americana, anche se si tratta più di accettare la presenza americana che scegliere di averla. Piccole basi che creano una grande rete di controllo.
Guardando all’intero globo, più di 100.000 militari nel Pacifico, quasi 90.000 in Europa e più di 20.000 in Medio Oriente. Unendo i presidi militari nelle zone strategiche del mondo si ottiene una linea denominata “collana di perle”, la quale indica la strategia degli Stati Uniti di controllare eventuali avanzate delle forze non alleate, come la Cina, che preoccupa gli Stati Uniti tanto da voler aumentare i presidi nell’Indopacifico. La strategia americana è quella non solo di aumentare le basi ma di redistribuirle, poiché concentrate in poco spazio (Giappone, Guam, Filippine, Corea del Sud, Singapore, Tailandia, Singapore). La vicinanza territoriale rischia di farle diventare un bersaglio facilmente attaccabile. Aumentando i presidi militari nelle Filippine, ad esempio, toglierebbe altro spazio al mare cinese. È difficile però aumentare le basi nell’Indopacifico poiché sono molto gli Stati che non si sentono minacciati dalla Cina, né tantomeno vogliono schierarsi contro la potenza asiatica. Lo scacchiere geopolitico Cina-Usa continua a muovere le sue pedine.
di Daniele Leonardi
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Creato Martedì, 25 Aprile 2023 13:40
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Ultima modifica il Martedì, 17 Ottobre 2023 11:44
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Pubblicato Martedì, 25 Aprile 2023 13:40
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Negli ultimi mesi in Iran si sono verificate violente proteste che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni economiche per i cittadini, ma l’Iran non è sempre stato così. Le foto che ci arrivano dagli anni Settanta mostrano un ambiente molto diverso da quello che siamo abituati ad associare allo stato persiano. Gli anni Settanta erano figli di una stagione di riforme nota come “rivoluzione bianca”, la quale ebbe molti effetti sulle donne: diritto di voto, divorzio e il divideto della poligamia. Il regime fece sempre maggior uso della forza sugli oppositori per portare avanti le sue difficili riforme. Così, a questa rivoluzione ne seguì un’altra a partire dal 1978. Il re, chiamato “scià”, esercitava il potere con metodi dittatoriali, eliminando ogni oppositore politico. La rivoluzione durò un anno e portò nel febbraio del 1979 all’odierna repubblica islamica. Le donne furono protagoniste di questa rivoluzione, anche grazie all’esperienza della Women’s Organization of Iran. Dopo un referendum, lo stato venne suddiviso in due autorità: una civile costituita da un parlamento e da un presidente con funzioni unicamente amministrative, e una religiosa guidata da Ruhollah Khomeyni, il quale deteneva il potere politico, poiché controllava gli organi amministrativi e suggeriva le indicazioni in ambito giudiziario basandosi sui comandamenti del Corano. La rivoluzione fece crollare la monarchia dello scià Reza Pahlavi dando vita a una repubblica definita islamica, poiché basata sulla sharia, la legge islamica, la quale prevede l’obbligo di indossare il velo, il divieto di divorziare e di consumare alcolici. In realtà la “sharia” non è propriamente la legge islamica, come comunemente tradotta in occidente, ma si tratta di una parola che in arabo significa “sentiero”, la “retta via”. Oggi, tutto questo non è più accettabile e il popolo rivendica maggiore libertà. L’omicidio da parte della polizia iraniana ai danni di Masha Amini, la ragazza di 22 anni uccisa perché indossava il velo, è stata la scintilla che ha scatenato una ondata di proteste che aspettava solo di sfociare. Le proteste sono state esasperate anche dalla crisi economica, aggravata dalle sanzioni europee, la cui linea politica estera non aiuta. La guida suprema Ali Khamenei, che non esercita il potere da solo ma è suddiviso in gruppi di potere, segue una linea di politica estera di vicinanza alla Russia e alla Cina. Il 26 febbraio 1979 prima ancora che venisse proclamata la Repubblica islamica, Khomeini annunciò che le riforme della rivoluzione bianca sarebbero state abrogate il prima possibile. Il 7 marzo fu annunciato che tutte le donne avrebbero dovuto indossare il velo, per lavorare o semplicemente per uscire di casa. Fu così che il giorno dopo in occasione proprio della Festa della Donna dell’8 marzo 1979, 100.000 donne scesero in piazza a Teheran per protestare. Alla manifestazione parteciparono anche tantissime donne velate, le stesse che durante la rivoluzione avevano fatto del cedro un simbolo, ma che non si aspettavano che questa legge fosse imposta su tutte le donne senza possibilità di scegliere. Negli anni 80 furono tanti i diritti che vennero nuovamente negati alle donne, come l'aborto. Furono abolite le leggi sul matrimonio, il divorzio tornò a essere una scelta esclusiva dell'uomo, mentre la poligamia divenne una prassi; gli uomini potevano e possono tuttora avere fino a quattro mogli e un numero illimitato di maglie temporanee. Nel 1982 l'adulterio fu punibile con la pena di morte, l'età legale in cui le ragazze potevano sposarsi venne ribassata 13 anni. Le donne, ancora oggi, non possono vestirsi come vogliono, poiché devono sottostare alla sorveglianza della polizia morale, la stessa che il 13 settembre scorso ha fermato per strada Masha Amini, ragazza di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, colpevole di avere una ciocca di capelli che spuntava fuori dal velo; portata in prigione, la ragazza è stata dichiarata morta tre giorni dopo. La famiglia sostiene che a ucciderla sia stata la polizia, la quale dopo l’arresto l’avrebbe colpita a morte. Le donne, che in passato furono protagoniste nelle piazze contro regimi autocratici, ora sono in quelle piazze ma non sono più sole perché anche gli uomini si ribellano a tale crudeltà: anche nel resto del mondo tante donne hanno espresso solidarietà tagliando una ciocca di capelli e condividendo il tutto in rete. Oggi la stampa internazionale sembra meno interessata alle più le proteste in Iran, ma questo non significa che vi è stata un’attenuazione, anzi: centinaia di ragazze sono state avvelenate nelle scuole.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 10 Aprile 2023 10:43
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Ultima modifica il Domenica, 23 Luglio 2023 08:36
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Pubblicato Lunedì, 10 Aprile 2023 10:43
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Durante una manifestazione a Londonderry alcuni uomini a volto coperto hanno attaccato la polizia lanciando molotov, alla vigilia dell'arrivo a Belfast di Joe Biden, il più irlandese e cattolico dei presidenti americani dai tempi di John F. Kennedy. Le origini irlandesi della famiglia di Biden sono in realtà lontane, ma rivendicare i suoi avi rappresenta un segno di vicinanza all’elettorato americano poiché si stimano che circa 30 milioni di persone negli Stati Uniti, ovvero un decimo della popolazione, rivendichi origini irlandesi. La storia d’Irlanda è segnata dagli accordi del Venerdì Santo, nei quali hanno avuto un ruolo centrale gli Stati Uniti e la presenza di Joe Biden ne è una prova: il negoziato avvenne grazie all’intervento degli Stati Uniti, al tempo il presidente era Bill Clinton, Biden era senatore. Era Venerdì Santo il 10 aprile 1998, giorno in cui fu firmato il Good Friday Agreement a Belfast, il quale pose fine a circa trent'anni di conflitto a bassa intensità in Irlanda del nord tra unionisti e indipendentisti. Gli accordi del Venerdì Santo vennero firmati tra il Regno Unito, nella persona del premier Tony Blair, e l'Irlanda, rappresentata dal Taoiseach, cioè dal primo ministro, Bertie Ahern, che ponevano fine ai cosiddetti Troubles, che avevano causano la morte di almeno 3600 persone. Belfast è stata devastata dagli scontri tra l'esercito inglese, gli Unionisti e i militanti dell'IRA, l'Irish Republican Army. L’Accordo, in cui Dublino riconosceva la sovranità britannica sull’Ulster e Londra non chiudeva la porta a una potenziale riunificazione dell’isola, fu poi ampiamente confermato dal referendum in cui il SÌ vinse con il 71.12% dei voti in Irlanda del Nord e il 94% nella Repubblica d’Irlanda. Gli accordi non segnarono l'inizio della pace ma di un processo di pace che va avanti fino ad oggi. L’IRA ha deposto ufficialmente le armi nel 2005, definendo cessata la lotta, ma Belfast è ancora oggi divisa da muri e cancelli denominati linee di pace: lunghi fino a 4 km e alti fino a 8, separano le zone in cui risiedono i cattolici e i protestanti. L’Irlanda del Nord ancora non riesce a fare pace con il suo passato e parlare di IRA è tutt’ora attuale. Ad aggravare la questione è stata la Brexit. l’Irlanda del Nord ha votato per il 55,8% per rimanere nell’Unione Europea. Infatti, un elemento determinante nel facilitare la pacificazione è stata la comune appartenenza di Irlanda e Regno Unito all’Unione europea. Lo stesso Biden, durante il suo intervento all’Università di Belfast ha definito la Brexit “una minaccia per gli accordi del Venerdì Santo”. A tale proposito è stato firmato un protocollo che prevede controlli doganali per le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna, in modo che siano conformi alle regole Ue e possano circolare liberamente anche in Irlanda. Lo scorso 27 febbraio, il premier britannico Rishi Sunak e la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, hanno concordato la Cornice di Windsor, una nuova intesa che prevede un corridoio verde per le merci destinate alla sola Irlanda del Nord e uno rosso, con controlli doganali, per quelle destinate all’Irlanda. Il Dup, principale partito protestante nordirlandese, intransigente sulla questione, ha boicottato la formazione di un governo condiviso, senza il quale l’amministrazione locale non può esistere, prolungando così uno stallo che va avanti dalle elezioni del maggio 2022. La questione Brexit potrebbe aprire uno spiraglio di un referendum per unificare l’isola, già ipotizzato al tempo degli accordi e sempre più probabile in futuro ma ancora poco realistico oggi.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 27 Marzo 2023 19:05
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Ultima modifica il Lunedì, 27 Marzo 2023 19:14
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Pubblicato Lunedì, 27 Marzo 2023 19:05
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Da novembre 2022 a oggi, 230 scuole iraniane sono state prese di mira e migliaia di studentesse sono state esposte a sostanze irritanti e nocive per la loro salute. I primi casi sono stati registrati nella città Santa di Qom, nonché il maggior centro di studi religiosi sciiti dell’Iran. Le studentesse colpite hanno sofferto di svenimenti, nausea, senso di soffocamento e altri sintomi nell’istante seguente la propagazione di odori ritenuti sgradevoli e anormali; quindi, si tratta di avvelenamenti attraverso la propagazione area di sostanze tossiche. Alcune di loro sono state ricoverate in ospedale e hanno rischiato di perdere la vita.
Ad oggi, non vi sono prove evidenti che possano evidenziare un legame tra i suddetti fatti e il governo “dittatoriale” iraniano. Tuttavia, non è sicuramente una coincidenza che questi casi si siano registrati in un contesto già fragile e poco dopo le proteste pubbliche sviluppatosi a seguito della morte di Mahsa Amini, donna simbolo della condizione femminile e della violenza esercitata contro le donne sotto la Repubblica islamica dell'Iran. La condizione femminile è sempre stata un tema fragile in questo Paese dove le donne risultano totalmente sottomesse all’uomo.
Tutta questa situazione ha causato un dibattito globale riguardo l’attribuzione di responsabilità. Un'ipotesi molto diffusa va ad attribuire la colpa dell’attacco a gruppi religiosi radicali che vorrebbero negare alle donne il diritto all'istruzione, come avvenne nel vicino Afghanistan talebano.
Secondo l’agenzia statale iraniana Irna, il 14 febbraio 2022 le associazioni dei genitori si sono riunite davanti al governatorato della città di Qom per chiedere spiegazioni, ma è stata un’operazione senza risultati. Dieci giorni dopo, il viceministro della salute Youness Panahi ha confermato che «l’avvelenamento è stato intenzionale».
A inizio marzo ci sono stati i primi arresti dei sospettati ed è stato proprio il governo di Teheran a darne comunicazione. Nonostante queste brevi notizie, non c’è chiarezza sulla reale situazione. Rimane il fatto che i presidi delle scuole hanno vivamente consigliato ai genitori di tenere a casa le figlie per non rischiare altri avvelenamenti.
Potrebbe trattarsi di un avvelenamento selettivo da parte del governo per bloccare nuove proteste e ridurre i diritti femminili o di un complotto bottom-up (dal basso verso l’alto) perpetrato da gruppi radicali per scatenare disordini e poter tentare un colpo di Stato. Le ipotesi rimangono in sospeso fino a quando le agenzie di Intelligence non riusciranno a fare luce sui fatti.
di Elena Pinton
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Creato Sabato, 18 Marzo 2023 08:55
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Ultima modifica il Sabato, 15 Aprile 2023 08:56
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Pubblicato Sabato, 18 Marzo 2023 08:55
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Il conflitto in Ucraina anticipato l'uso dell'intelligenza artificiale in guerra: la Russia, ad esempio, utilizza le cosiddette "munizioni vaganti" (o "droni kamikaze") contro l'Ucraina: un mix tra un drone "normale" e un razzo in grado di colpire un'area specifica, cercando e determinando autonomamente il bersaglio. il primo caso registrato di un sistema autonomo che ha ucciso una persona senza il coinvolgimento di un operatore, tuttavia, si è verificato nella primavera del 2020 in Libia (secondo le Nazioni Unite). Software come Chat GPT l’ha fatta conoscere al grande pubblico ma l’intelligenza artificiale non è una scoperta recente, anzi la utilizziamo quotidianamente da diverso tempo (quando usiamo Google Maps o quando parliamo con gli assistenti vociali, ad esempio). Il termine stesso di "Intelligenza artificiale" è stato utilizzato in relazione ai vari software sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ma dall'inizio degli anni 2000, l'Ia ha fatto passi da gigante. In 200 anni, gli esperti considerano quattro grandi rivoluzioni: l’introduzione delle macchine meccaniche, poi quelle elettromeccaniche, l’avvento del digitale e l’intelligenza artificiale. Michael Horowitz, professore all’Università della Pennsylvania, paragona l’intelligenza artificiale alla scoperta del motore a combustione interna o dell’elettricità, dividendo le sue applicazioni militari in tre categorie: la prima consiste nel permettere alle macchine di funzionare senza supervisione umana, la seconda nel processare e interpretare ampi volumi di dati, e la terza nel contribuire, o addirittura nel dirigere in prima persona, le attività belliche di comando e controllo.
Durante il Web Summit sulle tecnologie che si è tenuto a Lisbona, Stephen Hawking ha dichiarato: “Il successo nella creazione di un AI efficace potrebbe essere il più grande evento nella storia della nostra civiltà, o il peggiore, non lo sappiamo; quindi, non possiamo sapere se saremo infinitamente aiutati dall'AI, o distrutti da essa”. Elon Musk, coinvolto inizialmente nel progetto “OpenAI”, un’azienda di intelligenza artificiale fondata nel 2015 a San Francisco, ha definito l’intelligenza artificiale “un rischio per l’umanità”. L’intelligenza artificiale è “pronta a cambiare la natura stessa del campo di battaglia del futuro”, ha dichiarato il dipartimento della difesa degli Stati Uniti nel suo primo documento strategico relativo all’intelligenza artificiale, del febbraio 2019. Nell’estate 2018 il Pentagono ha lanciato il Centro di coordinamento per l’intelligenza artificiale (Jaic) e quest’anno a marzo si è riunita per la prima volta la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale. Ha avuto luogo all’Aia, in Olanda, il primo vertice globale sull'intelligenza artificiale responsabile nel dominio militare (REAIM), che ha visto la partecipazione di rappresentanti di oltre 60 paesi, inclusa la Cina. Non è stata invitata la Russia, mentre l’Ucraina non ha partecipato. Un primo risultato è stato ottenuto con la firma di un accordo per mettere l'uso responsabile dell'IA in cima all'agenda politica, firmato dalla maggior parte dei partecipanti, confermando l’impegno nello sviluppo e utilizzo dell'IA militare in conformità con "obblighi legali internazionali e in un modo che non comprometta la sicurezza, la stabilità e la responsabilità internazionali”. L'amministratore delegato di Palantir, azienda statunitense specializzata nelle nuove tecnologie e nell'analisi di big data che ha partecipato al REAIM, ha parlato del coinvolgimento della propria azienda nel conflitto in Ucraina: “Siamo responsabili della maggior parte degli attacchi” ha detto Alex Karp di Palantir. La sua impresa sfrutta l'intelligenza artificiale per colpire obiettivi russi. Fra i servizi di Palantir la possibilità di analizzare i movimenti satellitari e i feed dei social media per aiutare a visualizzare la posizione di un nemico. Secondo Vincent Boulanin, direttore dello Stockholm Peace Research Institute (SIPRI), vi è sempre rischio teorico che il robot esegua un'azione che non ci si aspetta, noto come il “problema della scatola nera”. è necessario insegnare ai militari a non affidarsi troppo all'Ia: non è un "robot che non sbaglia mai", ma un ordinario sistema creato dall'uomo che ha i suoi limiti e svantaggi. Vi è poi un rischio potenziale legato alla diffusione di queste tecnologie al di fuori dell’ambito militare e consegnarlo alla criminalità.
di Daniele Leonardi
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Creato Martedì, 21 Febbraio 2023 10:46
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Ultima modifica il Sabato, 15 Aprile 2023 08:47
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Pubblicato Martedì, 21 Febbraio 2023 10:46
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Un popolo, quello europeo, abituato a vedere la guerra solo in Call of Duty, si ritrova la crudeltà del conflitto reale nei feed social dei propri smartphone, improvvisamente. Le immagini della guerra irrompono nella nostra quotidianità. I social non sono più solo il luogo di condivisione della nostra quotidianità ma diventano anche uno strumento di informazione, il media con cui Zelensky decide di costruire la sua strategia di comunicazione. La connessione diventa fondamentale non solo da un punto di vista sociale, ma anche all'interno di una strategia di propaganda. La sera del 26 febbraio il ministro della Difesa ucraino chiede aiuto a Elon Musk proprietario di Starlink, un sistema di satelliti che assicura copertura Internet anche in mancanza di infrastrutture sul suolo. Questa contromossa non prevista da Putin spariglia le carte in tavola. In questo modo l'isolamento dell'ucraino non può più avvenire, ciò a cui Putin auspicava. Il presidente russo mirava a distruggere le infrastrutture ucraine. Una svolta che arriva lontano dai campi di battaglia e assicura il racconto della guerra in diretta, al resto del mondo. In questo modo, attraverso le moderne tecnologie, la guerra ci viene restituita e documentata in tempo reale. Oltre alle comunicazioni sull’andamento del conflitto, sui social, in particolare Telegram, si possono trovare indicazioni per raggiungere i rifugi antiaerei o lasciare il paese in sicurezza, istruzioni per costruire bombe molotov, cercare parenti e amici dispersi. Ma anche tanta disinformazione e propaganda russa. La verità è un confine sottile nelle immagini che popolano i nostri feed. Una guerra che fa i conti con la verità e le fake news che circolano in rete. Viene messa in discussione l’oggettività dell’immagine, e la verità che racconta viene messa in discussione. Testate come il New York Times hanno fatto un lavoro di verifica di veridicità delle immagini che circolano in rete. La strategia del presidente russo è di isolare l’ucraina: prima avvertendo nel videomessaggio iniziale che ci sarebbero state conseguenze per chi avesse aiutato l’ucraino, poi cercando di interrompere le loro comunicazioni e successivamente isolando l’ucraina dal punto di vista energetico. Niente luci e niente riscaldamento in pieno inverno. Una guerra, che si combatte con le armi tradizionali ma anche con la comunicazione: quella di Zelensky, moderna e social, di grande impatto emotivo, e quella di Putin, novecentesca, rigida, basata sul terrorismo. Questo anno di guerra in Ucraina ci ha insegnato che una nazione non ha bisogno di possedere satelliti o avere un forte programma spaziale per partecipare e prosperare nelle guerre moderne. Meno di 24 ore dopo l'invasione dell'Ucraina, Anonymous ha dichiarato guerra alla Russia di Putin, dando il via ad una cyber-guerra. In un video postato su Twitter, il collettivo parla al mondo attraverso un uomo incappucciato e col volto coperto dalla celebre maschera di Guy Fowks. Una mobilitazione senza precedenti di hacker e cyberattivisti in ogni parte del mondo, i quali hanno messo a segno diversi colpi ma ridimensionati sempre ad episodi di breve durata. “Il cyberspazio è stato in realtà importante per tutto ciò che era prima del conflitto, tramite la propaganda, o attacchi a siti di informazioni”, ha dichiarato Stefano Mele, avvocato e membro del Comitato atlantico italiano, in un’intervista sul canale YouTube dell'esperto di sicurezza informatica e amministratore delegato di The Fool, Matteo Flora. All’inizio dell’invasione, l’Ucraina non aveva alcuna capacità spaziale nazionale. Ma la disponibilità di servizi satellitari commerciali esistenti e crescenti e di tecnologie avanzate ha drasticamente alterato l’accesso di tutte le nazioni allo spazio e quindi alla guerra moderna. Lo spazio è fondamentale per la condotta della guerra moderna, sia in termini di puntamento di precisione con armi a guida GPS, comunicazioni commerciali o sorveglianza satellitare.
di Daniele Leonardi
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Creato Domenica, 22 Gennaio 2023 10:40
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Ultima modifica il Sabato, 15 Aprile 2023 08:42
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Pubblicato Domenica, 22 Gennaio 2023 10:40
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Per gli Stati Uniti, Pechino è da tempo diventato il primo rivale. Gli Usa hanno spostato il centro della loro strategia geopolitica nell’Asia-Pacifico. Nel settembre 2015, in un discorso tenutosi a Seattle, il presidente cinese Xi Jinping ha evocato la trappola di Tucidide per esortare gli Stati Uniti e la stessa Cina ad evitare il tipico confronto dal prevedibile sbocco violento tra potenza consolidata e potenza emergente, come accadde fra Sparta e Atene. Senza andare a sindacare la bontà di tale metafora, il suo richiamo storico basta ad intendere come la tensione tra Cina e Stati Uniti negli ultimi anni sia sempre più alta. Ad accendere ancora di più la miccia, è stata la recente visita della speaker della camera statunitense Nancy Pelosi in Taiwan. Taiwan, che dà il nome all'isola di Formosa, rappresenta il corpo principale del territorio oggi amministrato dal governo di Taipei. L’isola è abitata da 23 milioni di persone, ha una posizione strategica e un'economia fiorente, tra le prime 20 del pianeta. Taiwan cerca di tutelare una indipendenza molto complessa: la Cina considera Taiwan territorio nazionale dal 1945, e vuole annetterla entro il 2049, come dichiarato da Xi Jinping, per aumentare l'influenza militare sul Pacifico. Una data non casuale, nel 1949 Taiwan si proclamò come Repubblica Popolare Cinese. Ancora oggi la Repubblica di Cina è il nome ufficiale di Taiwan. Da allora entrambe le entità affermano di essere l'unica autorità legittima dell'intera Cina, ma nel corso dei decenni successivi la quasi totalità della comunità internazionale ha riconosciuto il governo di Pechino invece che quello di Taiwan. Due Stati che affermano di rappresentare il popolo cinese. Nel mondo oggi solo 15 stati riconoscano Taiwan come stato indipendente, tra di essi non compaiono gli Stati Uniti. Gli Usa, infatti, riconoscono Pechino come depositario ufficiale della Cina, eppure continuano a sostenere Taipei in chiave anticinese. Mentre il governo taiwanese continua a professare la propria autonomia e indipendenza dalla Cina continentale, la Cina considera l’isola una provincia ribelle da annettere. La volontà cinese provoca l'opposizione degli USA, poiché, se Taiwan dovesse essere assorbita dalla Cina, gli Stati Uniti perderebbero un baluardo piazzato a metà strada tra il Mar Cinese Meridionale e Orientale. Per questo, dopo anni di freddezza Washington è tornata ad avvicinarsi a Taiwan. Con la presidenza di Donald Trump, il governo americano ha rifornito di armi Taipei e rassicurato l’isola di tutto il sostegno militare necessario in caso di possibili minacce da parte di Pechino. Taipei punta sul sostegno militare degli Stati Uniti, i quali difendono i loro interessi economici e geopolitici. Biden ha proseguito la linea intrapresa da Trump e la visita di Nancy Pelosi ha accresciuto la tensione che intercorre tra la Repubblica Popolare cinese e la Repubblica di Cina. Apparentemente sono molti i fattori di correlazione con la situazione Ucraina-Russia, ma in realtà, ci sono profonde differenze: sembra scontato, ma la Cina non è la Russia e Taiwan non è l’Ucraina. Kiev è il sessantasettesimo partner commerciale di Washington, Taipei (capitale di Taiwan) il nono. Taiwan è la ventunesima economia al mondo ed è la patria della produzione dei semiconduttori. Nonostante le tensioni politiche e militari, nel 2021 le esportazioni di Taipei verso Pechino sono cresciute del 24,8%, raggiungendo il loro massimo storico. La questione si poggia su un delicato equilibrio che sembra vacillare sempre più: gli Stati Uniti hanno ribadito di insistere sulla risoluzione pacifica delle divergenze tra le due parti, ma hanno scelto da che parte stare. Joe Biden, nell’ottobre 2021, disse: “Se Taiwan fosse attaccata, certo che interverremmo”. Dichiarazione che va di pari passo con le esercitazioni militari pubbliche dei marines con le forze armate taiwanesi. Se una visita presidenziale costituisce un riconoscimento di fatto della sovranità del paese in cui si è ospiti, Pechino vede la visita di Pelosi, terza carica statunitense, come un tentativo di Washington di oltrepassare i contorni di quella linea rossa invalicabile. il presidente Xi Jinping ha inviato un chiaro messaggio al collega Joe Biden: “chi gioca col fuoco, finisce per bruciarsi”. La Cina tiene molto alta la tensione, ritenendo che solo aumentando la tensione sia possibile far ragionare tutti. Dal 4 agosto la Cina sta svolgendo una grande esercitazione militare con munizioni vere, cominciata non appena Pelosi ha lasciato l’isola. Il richiamo a Tucidide del presidente cinese Xi Jinping, suggerisce che molti ritengano il contesto internazionale attuale, nella sua essenza, non differente da quello di cui Tucidide scriveva, con la politica internazionale che sembra non cambiare mai.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 16 Novembre 2020 15:53
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Ultima modifica il Lunedì, 16 Novembre 2020 16:16
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Pubblicato Lunedì, 16 Novembre 2020 15:53
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«I chose to say with my own body what the Arab leaders could not say. My body is a case of gunpowder that blows up enemies. To the Arab leaders who are watching, I say WAKE UP. Do your duty. It is shameful that Arab soldiers remain asleep while the daughters of Palestine fight. While they go towards their deaths». These are the last words of Ayat Akhras, taken from the traditional video-heading of the 16-year-old human-bomb, born and raised in the Dheisheh refugee camp in Bethlehem. It was recorded before being blown up in the name of the Alqsa Martyrs Brigades on 29 March 2002 in a supermarket on the outskirts of West Jerusalem. Ayat's mother says: «My little star was tender. She was very sweet. She was also always happy. And she was smart. She was one of the best at school. She never felt discouraged. She believed in the one God, Allah, like all of us. But she was modern. Only in public she used to cover her hair with the veil. Just like God wants. But she didn't wear the Jilbab . I didn't know about her contacts with the armed activists. If I'd known, I'd have locked her in the house. And we didn't even know that she had joined the Alqsa Brigades. But here everyone is fighting for our land. Oh, my daughter actually always had an interest in politics. And she cried a lot when she heard about Palestinians being killed by Israeli soldiers. But she was leading a normal life. She loved to study. She was in her high school and always said obsessively that she wanted to continue her studies. She dreamed of becoming a nurse or a journalist».
Another testimony is that of Reem al Rayashi:«Yes, yes, since I was 13 I've dreamed of becoming a martyr and dying for my people», says 20-year-old Reem at Rayashi in her video-heading. «I've always wanted to turn myself into mortal splinters against the Zionists and knock on the doors of Heaven with their skulls. I've always wanted to be the first woman to sacrifice herself in the name of Allah. And my joy will be complete when the parts of my body fly everywhere». Reem was hired by Hamas because she was an adulteress. And leaving her husband for another had stained herself with an unforgivable guilt for Islam. Only by martyrdom she could have regained her honour. On 14 January 2004 she exploded, killing 5 people and injuring 12.
«With this action I have decided to send the occupants the message that there is no security for the Jews on our land. To attack, according to God's will, the arrogants of the damn checkpoint and kill them». These are the words that the woman-lama left written in her spiritual will in a letter to her family. While in a second letter she asks her classmates not to forget at all to grow up, to educate their children in love with the Jihad. «Pray, pray, pray», concludes the text, «so that God will not fail to accept me as a martyr. Fight for the freedom of your country».
Imane and Sanae, 14-year-old Moroccan twins who were born together, decide to die together. And it is by martyrdom that they want to interrupt the life spent on the margins of society, to redeem the miserable existence with a striking gesture. As a kamikaze. «Because they have been too much fascinated by the attack of September 11th in the USA», say friends and acquaintances. Theirs is the classic profile typical of women-bombing: psychological graft poured into a mix of indoctrination and desire to clean up their image. In the neighborhood they are considered prostitutes, women who are now lost. To get by, they make do as they can. They ask for alms, they offer themselves. They don't have any real family behind them.
di Noemi Genova