L’insufficiente mediazione politica dell’ONU
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- Creato Sabato, 04 Novembre 2023 17:18
- Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:19
- Pubblicato Sabato, 04 Novembre 2023 17:19
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Lo scorso aprile la Russia ha presieduto la presidenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ad ognuno dei 15 Paesi che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, infatti, tocca presiedere il Consiglio per un mese, secondo una normale turnazione alfabetica.
Sebbene il presidente del Consiglio che presiede le riunioni abbia poca capacità di influenza sullo stesso, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato di un "fallimento dell'istituzione", mentre il suo ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha parlato di "schiaffo in faccia alla comunità internazionale". Oltre al danno la beffa: l'ultima volta che la Russia ha avuto la presidenza è stato proprio a febbraio 2022, mese in cui ha lanciato l'invasione dell’Ucraina.
L'Assemblea Generale dell'ONU si è riunita il 2 marzo 2022 per votare la risoluzione di condanna dell'invasione russa dell'Ucraina. I voti a favore della risoluzione sono stati 141; quelli contrari sono stati solo 5: Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord e Siria. Gli astenuti sono stati 35, tra cui i Paesi BRICS.
I sostenitori dell'Ucraina vorrebbero l’espulsione della Russia dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ma affinché ciò accadesse, sarebbe necessario un voto del Consiglio di sicurezza e quindi anche della Russia, la quale mantiene il diritto veto. Infatti, secondo l’articolo 27 dello statuto, per approvare tutte le questioni che non siano procedurali (questioni relative alla pace alla risoluzione dei conflitti e a sanzioni e persino all'ingresso di paesi dell’ONU) occorrono 9 voti minimi favorevoli, i quali devono includere il favore di tutti e 5 i membri permanenti.
Quindi il voto contrario di uno di loro diventa implicitamente una sorta di veto. I cinque membri permanenti dell’ONU sono Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina, cioè i cinque vincitori della Seconda guerra mondiale. L’articolo 27 consacra la superiorità di alcuni Stati su tutti gli altri; solo ai cinque membri permanenti spetta stabilire cosa sia una minaccia per la pace, un'aggressione o un atto di conquista. Nello specifico, nell'articolo 27 dello Statuto sono stabilite due diverse maggioranze a seconda dei due tipi di questioni da sottoporre al voto del Consiglio: le questioni procedurali, cioè quelle formali che stabiliscono lo svolgimento della seduta che richiedono il voto favorevole di almeno nove membri tra permanenti e non permanenti; poi ci sono le decisioni su ogni altra questione che richiedono sempre una maggioranza di nove voti, ma che comprenda i voti dei cinque membri permanenti. Il parere contrario di uno dei cinque non può bloccare la deliberazione sul nascere come permetterebbe un vero diritto di veto, ma può comunque annullarla in fase di voto. i membri non permanenti godono però di un simile potere, il cosiddetto veto di blocco, per cui anche se i cinque membri permanenti votano favorevolmente mancherebbero comunque ancora quattro voti per raggiungere la maggioranza di nove, e si eserciterebbe se il fronte di non permanenti si schierasse compatto per un voto contrario.
Questo diritto di veto svolgerebbe una funzione di prevenzione per impedire che scoppi un conflitto tra i cinque membri permanenti. Eppure, il veto non è servito ad evitare crisi internazionali, anzi: è stato utilizzato per ostacolare la designazione dei segretari generali o per impedire l'ingresso di alcuni Stati nell’ONU. È stato il caso della Repubblica Popolare Cinese, che ricorse al veto per impedire l'ingresso del Bangladesh e di altri Paesi che riconoscevano Taiwan. Un consiglio così strutturato è impossibilitato a prendere provvedimenti in caso di conflitti di dimensioni globali perché in questi conflitti c'è sempre il coinvolgimento di almeno uno dei cinque membri permanenti. L’unico modo sarebbe la sospensione di un Paese dall’Onu, ma bisognerebbe passare dal voto del paese stesso. La Russia mise il proprio veto alla risoluzione che voleva aprire un'indagine sull'incidente della Malaysia Airlines nel Donbass, così come non passò la condanna per l'annessione della Crimea, così come non passarono nel 2011 nel 2012 le risoluzioni contro il regime di Assad in Siria, e ancora prima il veto degli Stati Uniti aveva respinto il riconoscimento del genocidio in Ruanda.
"La verità è che se uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza è coinvolto in un conflitto armato non c'è nulla che il Consiglio di sicurezza possa fare per fermarlo, perché quello Stato eserciterà il proprio veto come la Russia sta facendo ora sull'Ucraina, come potrebbe fare la Cina su Taiwan e gli americani sull'Afghanistan e l'Iraq", ha dichiarato Andrew Macleod del King's College London's Department of War Studies.
Oggi aderiscono all’ONU 193 Paesi che avrebbero bisogno di un Consiglio di sicurezza più rappresentativo della popolazione mondiale; per farlo occorrerebbe aumentare la rappresentanza africana e dell’America latina, estendere il seggio permanente a Brasile, India e Germania oppure trasformare il seggio francese in un maxi-seggio dell’Unione Europea. Questi difetti di struttura determinano il mal funzionamento della macchina, una struttura che forse aveva senso nel dopoguerra ma che non rispecchia più gli equilibri geopolitici attuali, diventando un organismo sempre meno influente e di fatto sostituto nei suoi compiti dalla Nato. Tuttavia, l’Onu ha ancora un ruolo importante nei servizi di assistenza umanitaria ai profughi, come dimostrato anche a Gaza o attraverso l’UNIFIL (la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite. Il problema è che ha perso il grande ruolo per cui è nata, quello di mediazione la politica internazionale.
di Daniele Leonardi
L'economia di guerra
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- Creato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:23
- Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:24
- Pubblicato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:23
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Nell’ultimo decennio, la spesa per le armi nei Paesi NATO della UE è cresciuta quattordici volte più del loro Pil complessivo. In Italia la spesa per i nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi. Gli Stati Uniti sono passati da 320 miliardi nel 2000 a 754 miliardi nel 2022, una cifra che rappresenta il 10% del budget federale. Questo business attualmente è quasi esclusivamente generato da cinque grandi aziende americane: Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Beoing, Northrop Grumman e General Dynamics. Il resto delle posizioni della top ten è occupato da industrie cinesi, fatta eccezione per la BAE Systems britannica. Il primo produttore di armi dell’UE è italiana, la Leonardo. La Turchia è stato il primo Paese destinatario delle esportazioni di armi italiane nel periodo 2010-2020. A seguire, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Gli Stati Uniti, invece, sono il principale fornitore di Israele.
Più di un terzo delle armi globali vendute in tutto il mondo negli ultimi cinque anni è di provenienza U. S. e circa la metà di queste armi sono vendute in Medio Oriente, il quale negli ultimi anni si è dimostrato il principale acquirente di armi a livello globale. In particolare, l’Arabia Saudita ha il primato di essere il più grande importatore di armi al mondo. Anche il Qatar si è fiondato sugli armamenti registrando un +360% nel quadriennio che va dal 2016 al 2020. Tuttavia, sul podio degli importatori dietro i sauditi non c'è il Qatar, ma ci sono India ed Egitto, il quale ha registrato nello stesso periodo un incremento del 136%. Mentre l'Egitto ha acquistato sempre meno armi dagli Stati Uniti in favore di Russia e Francia, oltre che essere il principale acquirente italiano, i sauditi nel 2017 hanno firmato un accordo sotto la Presidenza Trump per una commessa di armi dell'ammontare immediato di 110 miliardi di dollari e l'impegno a pagarne altri 350 nei successivi dieci anni. Con queste armi i sauditi stanno conducendo una guerra interminabile in Yemen, dove secondo l’agenzia di stampa francese AFP alla fine del 2021 si sarebbero contati quasi 380.000 morti. Dall'altro fronte del conflitto in Yemen c'è l'Iran che arma invece gli Houthi. A testimoniarlo sono i quasi 1500 AK47 e 220.000 munizioni che sono state rinvenute in una nave cargo partita dall’Iran e diretta verso lo Yemen.
La Russia vanta il secondo posto in termini di vendita di armi a livello globale. A partire dal 2000, cioè dal primo mandato di Putin, il governo russo ha avviato un programma per rinnovare gli armamenti di fattura sovietica. Dal 2016 l’esportazione russa di armi rappresenta circa il 20% delle vendite globali di armamenti. In particolare, gli aerei costituiscono il 50% delle esportazioni. In risposta alle sanzioni occidentali risalenti al 2014, il governo russo ha istituito un massiccio programma di sostituzione delle importazioni per ridurre la sua dipendenza da armi estere. Dal 2016 l’India è il principale importatore di armi russe. Le sue esportazioni sono diminuite del 22% tra il 2016 e il 2020, ma ciò è dovuto principalmente a una riduzione del 53% delle vendite all’India. Allo stesso tempo, ha notevolmente migliorato le sue vendite in paesi come Cina, Algeria ed Egitto.
L’economia di guerra non riguarda solo la compravendita di armi: nel 2003 la Halliburton, multinazionale del settore petrolifero, avrebbe guadagnato quasi 40 miliardi di dollari soltanto dai contratti federali legati al conflitto. Come rinvenuto da un'inchiesta del Congressional Research Service, oltre 400.000 azioni della Halliburton erano già nelle tasche del vicepresidente americano Dick Cheney al momento della guerra. La Halliburton non fu un caso isolato, ma rappresenta un nuovo modo di fare business in guerra. Le compagnie militari private arricchiscono questo quadro: ha preso la scena delle cronache internazionali il gruppo Wagner che ha i suoi interessi in Africa. Le privatizzazioni dei gruppi militari sono molto in uso negli Stati Uniti: una delle più famose è l’Accademy. Aziende come la Blackwater sono esplose a partire dal 2001. Il dipartimento di Stato americano ha fatto sempre più affidamento a servizi offerti da queste realtà. Un'inchiesta di Time ha evidenziato che il magnate e fondatore della Blackwater, Erik Prince, con finanziamenti CIA, avrebbe avuto colloqui privati con Andriy Yermak, capo di gabinetto del presidente Zelensky. Secondo l’inchiesta, la Blackwater starebbe progettando la creazione di un esercito privato in collaborazione con la compagnia Lancaster 6 e l’intelligenza ucraina, da affiancare ad altri battaglioni. Poi c’è la questione del traffico di armi illegali, con il rischio di far arrivare queste armi nelle mani delle organizzazioni criminali. L’Ucraina, infatti, è un Paese con importanti problemi di corruzione. Di conseguenza, c’è il timore che dopo la guerra una parte delle armi, alcune molto avanzate, inviate al Paese finiscano nel mercato nero.
L’economia di guerra però non è caratterizzata solo dalla vendita di armamenti: a guadagnare più di tutti dalla guerra in Ucraina sono state le compagnie energetiche. Sfruttando l’aumento dei prezzi degli idrocarburi, e quindi dell’energia in generale, diverse realtà del settore hanno potuto realizzare nel 2022 gli utili più alti della loro storia. Secondo uno studio di Greenpeace, i dieci più grandi fondi speculativi al mondo ci avrebbero ricavato quasi due miliardi di dollari.
In un contesto di emergenza, molte sono le speculazioni che provocano maggiori incassi nel breve termine, dal settore energetico a quello alimentare, ed in particolare dei cereali, ma nel lungo termine sono proprio le aziende di armi che dovrebbero trovare i maggiori profitti. Inoltre, se scoppiassero altre guerre, la domanda di armi potrebbe superare l’offerta.
di Daniele Leonardi
Netanyahu e la questione palestinese
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- Creato Sabato, 14 Ottobre 2023 17:14
- Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:15
- Pubblicato Sabato, 14 Ottobre 2023 17:14
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Ha governato per 16 degli ultimi 27 anni, ha messo in grande difficoltà il processo di pace con i palestinesi, e ha spostato l'asse del Paese sempre più a destra: è il ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il suo attivismo politico inizia nel 1979, anno in cui fonda il “Jonathan institute”, intitolato a suo fratello Yoni, vittima dell’operazione “Fulmine”. Netanyahu iniziava già allora a parlare di quello che lui definisce “terrorismo palestinese”. Nel 1996 viene assassinato Yitzhak Rabin, primo ministro laborista, simbolo del tentativo di pacificazione tra Israele e Palestina, vittima di un estremista nazionalista. Il primo ministro in sostituzione Shimon Peres decide di andare ad elezioni per avere un mandato più forte e proseguire i processi di pacificazione. Il suo avversario è Benjamin Netanyahu, che nel frattempo è diventato leader del partito del Likud. I sondaggi lo danno sotto di quasi 30 punti percentuali rispetto a Peres. Si profila uno scontro impari: da una parte Peres, politico di esperienza, grande oratore e leader stimato dentro e fuori Israele; dall'altra parte il poco conosciuto Benjamin Netanyahu, il cosiddetto ultimo arrivato. Tuttavia, una mossa fece saltare il banco, e fu la chiamata di Netanyahu ad Arthur J. Finkelstein, uno degli strateghi politici più conosciuti negli Stati Uniti. Il tempo passato negli Stati Uniti, infatti, aveva insegnato a Netanyahu quanto fossero importanti le abilità in tema di comunicazione politica, e questo lo portò ad affidarsi a quello che oggi definiremmo uno spin doctor, un uomo che aveva lavorato con Reagan, George Bush senior e che si vocifera avesse addirittura profetizzato la carriera politica di Donald Trump. Finkelstein seguiva una formula che adattava ad ogni contesto: il “negative campaigning” (che lui ribattezzò in “rejectionist voting”), un tipo di campagna elettorale in cui si preferisce attaccare un avversario invece di difendere il proprio programma. In parole più semplici: la credenza alla base della sua strategia era che scoraggiare le persone fosse molto più facile che motivarle. Brad Parscale, che ha gestito la campagna digitale di Trump, l’ha definita uno degli strumenti più importanti delle presidenziali statunitensi del 2016. Il metodo è una sorta di moderno manuale d’istruzioni del populismo di destra.
Il passato da sondaggista e programmatore nel campo della finanza ha maturato le abilità di Finkelstein, il quale registrava i dati sulla popolazione: età, residenza, candidato preferito, convinzioni politiche, numero di presenze in chiesa. Con la conoscenza di questi parametri, egli era stato capace di individuare i temi che suscitavano maggiore interesse nella popolazione. La sua strategia consisteva nel polarizzare al massimo l’elettorato, mettere gli elettori gli uni contro gli altri, giocando sulle paure della popolazione; una tecnica che sarebbe poi diventata tra le più usate in materia di comunicazione politica. Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Richard Nixon lo capì a sue spese quando, durante lo scandalo Watergate, si presentò in tv dicendo «Non sono un imbroglione» con il risultato che tutti pensarono a lui come tale. Infatti, la negazione di un frame, non solo ha per effetto la sua attivazione, ma addirittura lo rafforza. Netanyahu utilizza questo schema addossando un’etichetta al suo avversario, dichiarando che il suo rivale volesse concedere parte della Città Santa ai palestinesi. Questo ha creato una polarizzazione dell’elettorato: chi sosteneva Peres adesso sosteneva anche la divisione di Gerusalemme, a danno della sicurezza del paese. Il resto lo ha fatto Hamas, che, ironia della sorte, è stata (inconsapevolmente) alleata di Netanyahu, dando credito alle paure che Netanyahu alimentava. La questione palestinese rimase sempre prioritaria per Netanyahu, il quale, a fronte della decisione del governo Sharon di abbandonare la Striscia di Gaza, decise di dimettersi da ministro delle finanze. Nel 2009 Netanyahu diventa nuovamente premier e porta di nuovo avanti la questione palestinese. Con Obama i rapporti sono ai minimi storici, ma la vicinanza con la presidenza Trump porterà alla firma dei famosi Accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Netanyahu riesce comunque a convincere i Paesi arabi del fatto che le opportunità economiche a cui potrebbero accedere valessero più di un loro sostegno alla Palestina. Le dinamiche di politica interna portano in seguito alle dimissioni di Netanyahu, il quale torno però al governo nel 2022 con una coalizione di estrema destra capeggiata da Itamar Ben-Gvir, leader di “potere ebraico”, contraddistinto da un forte odio verso i palestinesi. Quest’ultimo ricoprirà il ruolo di ministro per la sicurezza nazionale nel nuovo governo Netanyahu. Un governo di estrema destra che con la sua riforma del sistema giudiziario voleva limitare il potere della corte suprema, suscitando grandi proteste nel paese. Il governo di Netanyahu esaspera la questione palestinese favorendo la creazione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, permettendo violenze nei campi profughi palestinesi e rafforzando la segregazione della Striscia di Gaza. Dal 2007 nessun palestinese può più uscire dalla striscia di Gaza senza permesso israeliano. La mattina del 7 ottobre, il giorno dopo il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom kippur, Hamas lancia circa 2000 missili diretti verso Israele e alcuni miliziani sfondano il confine; come cinquant'anni prima, Israele è colta di sorpresa. L'intelligence non ha previsto l'attacco e i miliziani di Hamas entrano nel Paese con una sorprendente facilità. facendo centinaia di ostaggi e vittime. Netanyahu risponde con bombardamenti a tappeto nella Striscia di Gaza, senza distinzioni tra i cittadini, riducendoli a vivere senza elettricità, cibo e acqua. Da una parte Hamas ha ottenuto risultati militari senza precedenti ma allo stesso tempo ha innescato una catena di eventi che potrebbero avere conseguenza mai registrate. Netanyahu si trova a dover rimediare ad uno dei più grandi fallimenti dell'intelligence israeliana, trovandosi a gestire l'operazione militare contro Israele più vasta dai tempi della guerra Yom Kippur, cioè dal 6 ottobre 1973.
di Daniele Leonardi
Save Ukraine
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- Creato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:16
- Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:17
- Pubblicato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:16
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La Russia ha messo in atto un’opera di deportazione di bambini ucraini in Crimea, iniziata già prima dell'invasione del 2022: migliaia di bambini inviati nei campi estivi in Crimea, trattenuti il tempo sufficiente per essere affidati ad una famiglia russa. Infatti, vi è una normativa russa per cui se un bambino resta senza genitori per almeno sei mesi può essere dato in affidamento ad un'altra famiglia. Un’opera di importazione di bambini avente lo scopo di eliminare una generazione di giovani ucraini trasformandoli in nuovi russi. I soldati russi hanno fatto irruzione nelle case, aiutati dalle segnalazioni di ucraini filorussi. Orfanotrofi svuotati a Donetsk e Lungansk. Lo testimonia il direttore dell’orfanotrofio di Kherson ha messo in salvo più di 50 bambini. Un tentativo di cancellare il futuro all’Ucraina. Per recuperare i propri figli, ai genitori ucraini non restava che la possibilità di andarli a prendere di persona in Crimea, ma questo spesso non avveniva per i difficili costi da sostenere per il viaggio, oltre che per le difficoltà legate ai bombardamenti. In soccorso dei genitori si è mossa Save Ukraine, l'associazione non governativa che dall'inizio della guerra si occupa di dare una mano agli ucraini che sono dovuti scappare dalle zone occupate dai russi.
Nei confronti di Putin e della Commissaria per i diritti dei bambini per la Federazione Russa, Maria Lvova-Belova, pende un mandato di arresto del tribunale internazionale dell’Aja per la deportazione e il trasferimento illegale di bambini ucraini in Russia. Il presidente russo e la Commissaria Maria Alekseyevna Lvova-Belova non potranno mettere piede nei 123 Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma. Tra i Paesi che non hanno firmato il Trattato c’è la Russia, mentre gli Stati Uniti non l’hanno ratificato. L’accusa nasce dal lavoro fatto da Save Ukraine, la quale ha inviato una lista di 19.000 bambini deportati in Russia, ma tanti altri non stati identificati. Un mese prima dell'invasione russa, dalle stime di Save Ukraine, quasi 60.000 bambini sono stati portati via dal Donbass e nessuno sa dove siano adesso. L’Organizzazione, che si occupa di cercare e trovare i minori deportati in Russia per riportarli indietro, ha salvato 128 bambini, ma sono un milione e mezzo i bambini che sono finiti sia nei territori occupati dell'Ucraina sia nella Federazione Russa. Questi bambini oggi sono sotto il dominio dell'occupante e la politica della Russia è quella di eliminare la loro identità Ucraina. In Ucraina c'è un grosso calo demografico, a cui si aggiunge il fatto che milioni di donne e bambini sono scappati all'estero e non si sa se faranno ritorno. L’Ucraina ha perso il 50% della popolazione di bambini, passando dal 2014 ad oggi, da più di otto milioni di bambini ad una stima di quattro milioni e mezzo. A molti di questi bambini che hanno la cittadinanza russa è stato inculcato l’odio verso l’Ucraina a partire dalla scuola. Dopo l’invasione è cambiato il programma scolastico russo: gli argomenti principali sono legati ad aspetti della tradizione del Paese, per stimolare negli studenti l’amore per la patria. Quella che viene studiata è una versione diversa della storia, basata su falsi storici. Tutto questo avviene perché anche la Russia ha un enorme problema demografico. Il governo del Cremlino ha riorganizzato l’istruzione promuovendo una narrazione unilaterale e alterata degli eventi storici per giustificare le offensive militari. Libri di storia scritti in pochi mesi che cambiano la narrazione degli eventi, una manipolazione della storia raccontata nelle scuole per creare una nuova generazione di bambini che conosca una solo narrazione filorussa della storia. La propaganda russa è riuscita dividere gli ucraini tra filorussi (spesso anziani) e filogovernativi: fratture di una guerra che si contende anche i bambini.
La narrazione secondo cui l’Ucraina sia colma di nazisti, tra cui il suo presidente, giustifica l’aggressione con il tentativo di una pulizia etnica e un ritorno all’ordine sotto il comando russo. Una narrazione inculcata nella mente delle persone, soprattutto quelle più anziane che non hanno avuto modi diversi di informarsi se non quello della propaganda del governo attraverso i media: radio, tv, giornali. La libertà di informazione che internet ha offerto riesce a scardinare la narrazione imposta dall’educazione sovietica, per cui la maggior parte di coloro che non approvano il conflitto russo-ucraino sono i ragazzi, mettendo contro figli e genitori. La continua caccia al nazismo si deve alla storica vittoria russa contro i tedeschi, che si ricorda ogni anno nella Giornata della Vittoria, e che ricorda ogni anno come i nazisti siano ancora oggi il nemico da combattere. Le ambizioni coloniali in politica estera trovano spesso giustificazioni con il ricorso alla storia, attraverso la narrazione di rappresentazione condivise. Prima vi è la costruzione di un nemico e poi questa narrazione viene fatta veicolare nell’opinione pubblica. L’educazione sovietica cerca di inculcare ai bambini un forte nazionalismo attraverso l’addestramento militare e la manipolazione della storia secondo cui esisterebbe una russofobia in Occidente. E così, chi deporta i bambini accusa l’altro di nazismo.
di Daniele Leonardi
La Repubblica di Artsakh non esiste più
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- Creato Lunedì, 09 Ottobre 2023 15:42
- Ultima modifica il Venerdì, 23 Febbraio 2024 14:42
- Pubblicato Lunedì, 09 Ottobre 2023 15:42
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Il 19 settembre scorso, l’Azerbaigian ha attaccato l’area sotto il controllo armeno del Nagorno-Karabakh, una regione interna all’ l’Azerbaigian ma indipendente, abitata da armeni cristiani. Una Repubblica indipendente che aspirava al ricongiungimento con l'Armenia. Alle origini di questa situazione c'è stato un errore abnorme dell'Unione Sovietica che nei primi anni ‘20 stabilì che l’Artsakh (a maggioranza armena) dovesse essere incorporato in un'altra Repubblica Socialista Sovietica, ossia l’Azerbaigian. Con la fine dell’Unione Sovietica, questo territorio divenne oggetto di contesa e causando lo scoppio di tre conflitti: quello che va dal 1988 al 1994, quello del 2020 e l’ultimo il mese (2023). Negli anni ‘90 fu l'Armenia a prevalere, grazie al sostegno russo. A circa trent'anni di distanza però, le parti si sono invertite e l’Azerbaigian, che ha notevolmente potenziato le sue risorse militari grazie ai proventi dei fossili e al sostegno di alleati come Turchia e Israele, si è praticamente ripreso il Nagorno Karabakh.
Per la Turchia, un collegamento diretto con l’Azerbaigian, senza dover passare dal Nagorno Karabakh, significherebbe un accesso diretto per il Mar caspio e con l'Asia centrale, favorendo i collegamenti eurasiatici della Turchia. La Turchia deve passare per la Georgia per arrivare all’Azerbaijan e per il resto dei collegamenti euroasiatici. L'apertura di questo corridoio consentirebbe da un lato ovviamente di legare in modo più stretto Turchia e Azerbaijan, dall'altro di ridurre la dipendenza di entrambi dalla Georgia.
Gli azeri, forti della loro alleanza con la Turchia (dall’indipedenza dell’Azerbaijan in poi, la Turchia si descrive come un solo Stato con quello azero), il 19 settembre hanno condotto un'operazione antiterrorismo per contrastare alcuni presunti sabotatori armeni. Il 26 settembre una forte esplosione ha colpito l'area di Stepanakert (che gli azeri invece chiamano Xankənd), la capitale dell'auto proclamato Stato dell’Artsakh, causando la distruzione di un deposito di carburante, provocando decine di morti e centinaia di feriti. Nemmeno gli armeni sono intervenuti in sostegno dei propri connazionali, probabilmente nella consapevolezza della superiorità militare degli azeri, sia in termini di uomini che di mezzi. La Russia, storico alleato dell’Armenia, non si è esposta in difesa degli armeni per non inimicarsi la Turchia. L’Armenia ha partecipato a esercitazioni militari con gli americani, cosa non gradita a Mosca. Il governo armeno ha maturato un avvicinamento agli Stati Uniti, confinato con l’allora speaker della Camera Nancy Pelosi Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, l'Armenia, non solo ha inviato aiuti a Kiev, ma ha anche ratificato lo statuto della Corte penale internazionale, cioè l’organo che ha emesso un mandato di cattura contro Putin per i crimini commessi in Ucraina.
Mentre il governo di Baku dichiara di voler “giungere a una risoluzione delle problematiche che separano Baku ed Yerevan”, i profughi armeni nella più totale disperazione hanno scelto di dare alle fiamme le loro proprie case per lasciare terra bruciata agli azeri. Il Nagorno-Karabakh trova ancora una volta un triste epilogo, che, da ormai trent’anni, è scritto con il sangue. La sconfitta ha provocato in Armenia delle tensioni interne, soprattutto dai reduci di guerra, ma la sensazione è che l’Armenia, nella consapevolezza di non potersi contrapporre, si sia rassegnata a perdere il controllo Nagorno-Karabakh, con la conseguente fine della Repubblica di Artsakh.
di Daniele Leonardi
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