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Il Punto del Direttore

Jihad, perché Manchester?

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Premesso che l'Islam non è una minaccia ma che il 15% della popolazione di Manchester è musulmana superiore anche a Londra definita ormai Londonistan, che il 6% dello moschee inglesi è controllato dai wahabiti e che la metà è in mano ai fondamentalisti deobandi e che un terzo dei musulmani presenti rifiuta la cultura britannica soprattutto quelli di seconda e terza generazione, quante probabilità ci sono di arruolare kamikaze per attentati suicidi? Numerosi musulmani di cittadinanza britannica negli ultimi anni hanno lasciato il paese per unirsi ai jihadisti dell’Isis. Il quotidiano inglese “The Indipendent” nel tempo ha raccontato le storie di tanti giovani, uomini e donne partiti per combattere sotto i vessilli neri di Abu Bakr al-Baghdadi. Abu Dugma al-Britani, uno di loro, in un messaggio via Twitter, nel 2014 aveva profetizzato al Regno Unito e agli inglesi un futuro ben preciso: “Occuperemo Downing Street e sgozzeremo a Trafalgar Square tutti quelli che non si vorranno convertire. L’Isis (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) sta arrivando”. Nello specifico, la città di Manchester è sempre stata una base di notevole rilevanza per il terrorismo internazionale. I primi arresti legati a questo fenomeno risalgono al 1995. Nella warehouse city, come riporta la rivista Limes, erano attivi alcuni membri della Algerian connection che controllava la moschea di Finnsbury Park, uno dei principali centri del radicalismo islamico europeo. Manchester ha anche una grande tradizione nell’esportazione di combattenti stranieri. Il foreign fighter più noto è Munir Farooqi, che si unì ai talebani nel 2001. Sempre a Manchester fu trovato nel 2000 il “Manuale di al Qaeda”, un file con i primi precetti per il buon jihadista. Il documento fu recuperato nel computer di Abu Anas al-Libi, un noto terrorista di origini libiche, le stesse del kamikaze dell'Arena. Altro punto debole il fatto che l’attentatore di Manchester fosse già noto alle autorità. Insomma un attenzionato in libera circolazione, il 23enne Salman Abedi che ha deciso di colpire ragazzi e ragazze ad un concerto di una popstar. Ovviamente colpire ragazzi e bambini fa molta più audience da un punto di vista mediatico, uno dei principali obiettivi di una azione terroristica. Eppure tutto ciò era contenuto nella rivista del presunto Stato Islamico “Rumiyah” dove si può leggere che ci “si dovrebbe ricordare che gli infedeli hanno ucciso molte più donne e bambini musulmani. E, comunque, anche se non fosse così, sarebbe ancora consentito colpire le masse di miscredenti senza riguardo per le uccisioni collaterali di donne e bambini”.

Il punto del direttore (dal blog Guerra e Pace - QN)

Trump sgancia la MOAB e avverte la Corea del Nord

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La risposta di Trump al regime di Pyongyang sembra essere l’ama tattica della MOAB. L'Afghanistan è stato colpito dalle armate americane che hanno sganciato per la prima volta in un teatro di combattimento quella che è stata definita la più potente bomba convenzionale del mondo: la MOAB, dal peso di 10.000 Kg. La zona colpita si trova a 200 chilometri dalla capitale Kabul ed è il principale centro delle attività dei jihadisti del Califfato in Afghanistan, dove un soldato dei gruppi speciali statunitensi è stato di recente ucciso in combattimento. “Gli Stati Uniti prendono molto seriamente la lotta contro l'Isis” ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. Per il presidente Donald Trump, si è trattato di “un'altra missione di successo”. Tornando alla MOAB, quest’ultima pesa circa 8400 kg di esplosivo del tipo H6, una mistura di RDX (Ciclotrimetilenetrinitroammina), TNT e alluminio di fabbricazione australiana normalmente usato per le normali bombe convenzionali. Sostanzialmente la MOAB usa la stessa testata di guerra della bomba BLU-120/b ma è dotata di un sistema di guida inerziale e Gps KMU-593/B facendone la più grande bomba guidata da satellite al mondo. Sulla potenza della MOAB restano dei dubbi. I russi infatti hanno sperimentato la FOAB (Aviation Thermobaric Bomb of Increased Power), che hanno propagandato come il “Padre di tutte le bombe”, dalla potenza di 44 tonnellate di tritolo. Un simulatore online chiamato HYDESim (High-Yield Detonation Effects Simulator) mostra su una mappa quali sarebbero i danni generati dalla MOAB a livello del suolo da esplosioni di diversa intensità. Sul sito è specificato che il simulatore mostra quali danni subirebbero gli edifici e non include altri tipi di effetti, come quelli ambientali. Attraverso il simulatore, si può vedere come la MOAB colpirebbe New York, Los Angeles, Londra, Roma, Parigi. La bomba da 14,6 milioni di dollari è stata progettata per provocare il massimo danno al bunker, gallerie e altre aree che possono tipicamente sopportare anche grandi bombe standard o colpi di artiglieria. Può uccidere persone all'interno di alcune centinaia di metri dal punto della detonazione e causare danni ai polmoni e altre lesioni su una superficie ancora più ampia. La bomba GBU-43 / B Massive Ordnance Air Blast (MOAB) ha creato un fungo atomico da essere visto a 20 miglia di distanza. Per via delle sue dimensioni colossali è stata trasportata da un aereo MC-130 essendo opportunamente modificato con un sistema di carrelli e slitte per il trasporto e lo sgancio dell’ordigno. Le grandi dimensioni della MOAB (10 metri di lunghezza), infatti, non le consentono di essere trasportata nelle stive o sotto le ali dei normali bombardieri. L’aspetto curioso è che la MOAB arriva in modo tempestivo come la risposta alle nuove minacce di Pyongyang, un modo per intimidire il regime e metterlo in guardia, un deterrente psicologico contro il nemico.

Il Punto del Direttore

(tratto da blog quotidiano.net)

Trump e la sua agenda politica

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“Non ho bisogno dei soldi di nessuno, non userò i soldi dei lobbisti. Userò i miei. Io sono molto ricco, sono davvero ricco, per questo i lobbisti hanno zero possibilità di convincermi o influenzarmi.” Queste le parole di Donald Trump neoeletto presidente degli Stati Uniti d’America. Per molti è la vittoria del fronte contrario alle lobby americane ben rappresentate dalla Clinton. La cosa che stupisce è che in tutti questi anni in cui la politica estera americana è stata orientata dalle lobby non sia mai nata una lobby italiana negli Usa nonostante i milioni di italoamericani. Trump ha vinto facile per certi aspetti investendo su alcuni concetti chiave come il prestigio di coloro che vogliono mantenere la supremazia degli Usa nel Mondo a danni ad esempio della crescita della Cina. “Riporterò i nostri posti di lavoro da Cina e Messico. Riporterò in America i nostri soldi” alcune dichiarazioni di Trump riferendosi alle delocalizzazioni delle imprese americane e alla manodopera a basso costo che fanno concorrenza sleale. Molti sono preoccupati dall’agenda futura di Trump ma se si dà una occhiata in giro per il Mondo le cose vanno a suo favore. L’Europa non è questo grande problema e soprattutto non sarà mai un blocco compatto. Non avrà mai una politica estera comune e sarà sempre più frammentata, con una periferia filoamericana che circonda un nucleo centrale franco-tedesco scettico, comunque alle prese con altri problemi in primis i migranti. In Russia Putin ancora deve prendere le misure sulla politica estera, in quanto fallisce ogni volta che tenta di riaffermare il suo primato sul cosiddetto estero vicino o anche solo di frenare l’avanzata della Nato nel cuore del suo ex impero vedi la questione Ucraina e non solo. La Cina si moltiplica, ma la sua economia è legata a doppio filo a quella americana, per il cui modello di sviluppo nutre spontanea ammirazione. Ma arriviamo al punto cruciale. Per molti Trump sarà una guerrafondaio sfruttando la potenza militare americana in una ottica di hard power. Il suo nemico è lo jihadismo unito alla delinquenza comune. Le tendenze militaristiche di Trump in Medio Oriente non sono un problema per il mondo arabo che aveva già ufficializzato certe scelte indipendentemente dalla vittoria della Clinton o di Trump. L’idea che Trump voglia bombardare tutti in Medio Oriente è più da slogan propagandistico. E’ più probabile che li abbandonerà al loro destino. Il capitolo mediorientale dell’America First di Donald Trump, insomma non è sinonimo né di aggressività, né di interventismo. Più chiara, invece, la sua posizione sui musulmani che sicuramente non piacerà a molti. Per il resto a sentirlo già dal suo primo discorso dopo la vittoria sembrerebbe prevalere l’arte del restraint.

Il direttore

Trump e "cane pazzo" Mattis

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Il generale in pensione James Mattis è in corsa per guidare il Pentagono. Sessantasei anni, Mattis è una figura leggendaria nel campo militare degli Stati Uniti. All’età di 19 anni si arruola nei Marines per poi prendere parte a vari conflitti: guerra del Golfo, Afghanistan e Iraq. Nel maggio 2004 diede l’ordine di colpire una struttura sospetta a Mukareeb, un piccolo villaggio iracheno. Ma l’obiettivo in questione risultò essere la sede di un matrimonio. Le sue bombe uccisero più di quaranta persone tra uomini, donne e bambini che frequentavano la cerimonia in corso. Mattis è famoso anche per i suoi aforismi come: “Be polite, be professional, but have a plan to kill everybody you meet”, uno slogan che parla da solo oppure “I Marines non conoscono la parola sconfitta”, “Marines don’t know how to spell the word defeat”. Eppure ci sono differenze grandi, anche enormi, tra Mattis e Trump. Mattis, per esempio è un avido lettore con una biblioteca personale di oltre 6.000 libri e contenente Sun Tzu, Ulysses S. Grant, George Patton, e Shakespeare. Mattis addirittura preparò una lista di testi da studiare per i suoi ufficiali prima della missione in Iraq nel 2004 suggerendo le opere di Sir Hew Strachan, suo stratega preferito. Egli stesso è stato coautore di un manuale sulla controinsurrezione volto a limitare le violenze in Iraq, Mattis è poi contrario all’isolazionismo ma favorevole al costante impegno americano nel mondo. E’ inoltre anche un conservatore fiscale e alquanto scettico in merito al taglio delle tasse. Insomma molti sono preoccupati dall’agenda futura di Trump ma se si dà un’occhiata in giro per il mondo le cose vanno a suo favore. L’Europa in questo momento non è un grande problema e soprattutto non sarà mai un blocco compatto. Non avrà mai una politica estera comune e sarà sempre più frammentata, con una periferia filoamericana che circonda un nucleo centrale franco-tedesco scettico, comunque alle prese con altri problemi in primis i migranti e le prossime elezioni politiche tedesche. In Russia Vladimir Putin ancora deve prendere le misure sulla politica estera, in quanto fallisce ogni volta che tenta di riaffermare il suo primato sul cosiddetto “estero vicino” o anche solo di frenare l’avanzata della Nato nel cuore del suo ex impero vedi la questione Ucraina e non solo. La Cina si moltiplica, ma la sua economia è legata a doppio filo a quella americana, per il cui modello di sviluppo nutre spontanea ammirazione. Resta poi aperto il capitolo Corea. L’idea che Trump voglia bombardare tutti in Medio Oriente è più da slogan propagandistico. E’ più probabile che li abbandonerà al loro destino rinegoziando soprattutto l’accordo sul nucleare iraniano. In questo caso Mattis è un suo alleato, vista la sua pozione critica in passato verso l’Iran e che costrinse l’amministrazione di Obama a ritiralo dal suo incarico nel 2013 concedendogli un pensionamento anticipato. Il capitolo mediorientale dell’America First di Donald Trump, insomma non è sinonimo né di aggressività, né di interventismo. Più chiara, invece, la sua posizione sui musulmani che sicuramente non piacerà a molti. Per il resto a sentirlo già dal suo primo discorso dopo la vittoria sembrerebbe prevalere l’arte del restraint.

Il direttore (tratto da www.ilfattoquotidiano.it)

La Libia e le milizie del petrolio

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L’Italia non avrà vita facile in una Libia sempre più frammentata. Il governo nazionale guidato da Al Serray rappresenta meno di un terzo dell’intero Paese. Oltre alla Tripolitania, c’è infatti la Cirenaica ancora in mano al generale Haftar, a Sud ci sono i redivivi Tubu e infine a Ovest i Tuareg. Ma lo scacchiere geopolitico libico può contare anche delle Petroleum Facilities Guards o milizie del petrolio. La PFG è composta da circa 27 mila uomini disposti in tutte le aree petrolifere libiche. Alla guida c’è Ibrahim Jadhran, a cui l’ex governo centrale libico aveva affidato il compito di comandare una forza di polizia responsabile dei terminal petroliferi, ma che invece è diventato un signore della guerra muovendo la PFG sotto i propri voleri. La PFG doveva essere una garanzia bipartisan, ma nel tempo ha creato parecchi ostacoli al processo di pace. Nel marzo del 2014 la PFG caricò di greggio la petroliera “Morning glory” nel tentativo di mettersi a commercializzare in proprio la risorsa: la nave sfondò un blocco di sicurezza, ma il 16 marzo del 2014 ne fu ripreso il controllo da un gruppo di Navy SEALs americani. Nonostante ciò Ibrahim Jedran ha stretto un accordo nel mese di luglio con l'inviato delle Nazioni Unite in Libia, Martin Kobler. I dettagli di quel patto non sono mai stati resi noti, ma i critici hanno ipotizzato un coinvolgimento di miliardi di dollari. D’altra parte però il rapporto tra le milizie del petrolio e il generale Haftar non sembra poi così compromesso tanto da opporre una forte resistenza al generale che tranquillamente potrebbe conquistare importanti pozzi. Non dimentichiamo che Haftar gode del sostegno di diversi paesi arabi. Egli è ampiamente visto come il salvatore della regione orientale della Libia che a lungo aveva sofferto di emarginazione sotto il dominio di Gheddafi. La produzione petrolifera intanto è scesa a 200.000 barili al giorno numeri potenzialmente bassi se si pensa a quelli del periodo di Gheddafi. Eppure questa situazione di impasse politica in cui si andrà ad inserire l’esercito italiano sembra favorire la regione orientale sempre più spinta dalla tentazione di dichiararsi indipendente.

Il direttore

(tratto da Guerra e Pace - QN)