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Storia militare

La tutela del patrimonio artistico

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Le operazioni a tutela del patrimonio culturale sono strettamente legate alle vicende belliche, ragion per cui l’Esercito ha da sempre assunto un ruolo fondamentale in questo settore. 
Durante il primo conflitto mondiale, con l’utilizzo dei primi velivoli da guerra e l’aumento della potenza delle artiglierie, si provvide a proteggere le città del nord, come Padova, Venezia, Treviso, Milano e Udine, potenzialmente più esposte ai bombardamenti. 
Oltre a ciò l’Esercito fornì aiuti materiali allo sgombero degli oggetti d’arte più importanti dalle città minacciate, come legno per le casse, mezzi per gli spostamenti e personale per le operazioni di carico e scarico. 
Particolarmente interessante è in questo ambito la figura del Generale Roberto Segre (1872-1936), che al termine della Grande Guerra fu a capo della missione militare a Vienna per il rispetto delle clausole di armistizio del 4 novembre. 
Segre, agendo con autonomia, avviò una rigorosa ricerca dell’ingente patrimonio sottratto a chiese, musei e biblioteche nel corso degli anni di occupazione austriaca per richiederne l’immediata restituzione. In Italia rientrarono così antichi codici e pergamene, e numerose opere d’arte, fra cui dipinti del Tiepolo, di Raffaello, del Veronese e del Carpaccio. 
Il codice Discoride del VII secolo. È il manoscritto della Gerusalemme Liberata del Tasso, un tesoro artistico che all’epoca venne stimato oltre 100 milioni di Lire oro dell’epoca.
 
di Antonio Salvatore
 
 
   
 

Dall'Occidente all'Oriente

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Il fronte nord-orientale non fu il solo sul quale combatterono i soldati italiani, già prima dell’ingresso nelle ostilità un contingente italiano aveva infatti occupato in Albania il porto di Valona con il 10° Reggimento Bersaglieri e una batteria da montagna mentre una legione di volontari col nome di “Legione Garibaldina” andava a combattere in Francia nel 1914, dove vennero inviati dal 1917 anche migliaia di operai militari inquadrati nelle T.A.I.F. (Truppe Ausiliarie Italiane in Francia). 
In Libia, inoltre, gli italiani erano già da tempo impegnati in una faticosa guerra contro la resistenza locale. 
Guerra che si legherà al primo conflitto mondiale quando Turchia e Germania interverranno in aiuto degli insorti nel 1915, e che impegnerà il Regio Esercito per oltre un decennio.
Benché il Generale Cadorna fosse contrario, in seguito alle insistenze degli alleati altri contingenti italiani vennero poi inviati in diversi scacchieri della guerra. 
Oltre ai reparti di rinforzo in Albania, furono particolarmente importanti il contingente italiano in Macedonia del Generale Giuseppe Pennella, che prese Monastir per merito della Brigata “Cagliari” e nel 1918, il II Corpo d’Armata del Generale Alberico Albricci inviato in Francia dove conquistò l’importante posizione dello ChemindesDames. 
Minori per dimensione ma significative furono poi le vicende del piccolo contingente in Palestina e della “Legione Irredenta”, arruolata in Russia fra i prigionieri austriaci di lingua italiana e che prenderà parte alla Guerra Civile russa, rimpatriando nel 1919.
 
di Antonio Salvatore
 
   
 

Croce Rossa in grigio verde

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Una delle sfide più grandi che gli eserciti dovettero affrontare nella Grande Guerra fu quella di dotarsi di un sistema di sanità in grado di curare l’enorme numero di feriti e di malati provenienti dal fronte.
Tutti gli eserciti, infatti, si resero conto che il propagarsi di malattie infettive menomava l’efficienza di un’armata non meno di una battaglia perduta, e che i feriti non adeguatamente curati andavano a ingrossare il numero dei morti o degli invalidi.
Anche in Italia dunque venne rivolta una sempre maggiore attenzione all’organizzazione del sistema sanitario militare. 
Dopo la prima fase della guerra vennero creati appositi treni-ospedali per trasportare i feriti gravi dalle retrovie all’interno e fu aumentato il numero dei medici assegnati ai reparti di prima linea, dove furono istituiti i posti di medicazione e primo soccorso.
Per i soldati vittime di malaria, tifo o tubercolosi furono aperti appositi convalescenziari, mentre gli ospedali militari ordinari vennero aumentati di numero e quelli esistenti ampliati.
Poca pubblicità fu data, durante e dopo la guerra, all’assistenza si soldati vittime di shock da combattimento e agli “sfigurati”, per i quali vennero approntati appositi luoghi di cura circondati da un muro di riserbo.
Durante la guerra inoltre, venne data assistenza sanitaria anche agli animali, sui quali era basato quasi tutto il trasporto verso le prime linee. 
Questa consisteva nella profilassi dalle malattie epidemiche e nella cura delle ferite riportate. Per rimettere in efficienza gli animali sfibrati dall’impiego bellico venne fondata inoltre, ad imitazione della croce rossa, l’organizzazione della Croce azzurra. 
 
di Antonio Salvatore
 
 
 

La trincea di carta

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Il carattere “di massa” assunto dalla Grande Guerra permise come mai prima lo sfruttamento della propaganda come strumento bellico per indebolire il morale nemico e cementare gli ideali e la coesione dei soldati e della popolazione.
I giornali vennero mobilitati per sostenere lo sforzo bellico, mentre la stampa di manifesti e volantini venne largamente impiegata per la pubblicità dei prestiti di Stato. 
I manifesti, comprensibili anche dagli analfabeti, recavano immagini che si appellavano ai temi emozionali e identitari di ciascun popolo. 
Nel caso degli italiani: la difesa della famiglia lontana, la lotta contro il “tedesco”, secolare nemico e dopo Caporetto, terra ai contadini come premio per la vittoria.
Per colpire l’immaginazione collettiva vennero utilizzate anche figure carismatiche o eroiche di combattenti come in Germania il Barone Manfred von Richtofen detto il “Barone Rosso”, o in Italia il poeta Gabriele D’Annunzio, che ideò e partecipò ad azioni volte ad impressionare l’opinione pubblica internazionale anche nemica, come il “volo su Vienna”. 
Parte della propaganda era poi rivolta al nemico con frequenti inviti ai soldati avversari a disertare sia per mezzo di volantini sia tramite altoparlanti. 
Tale forma di comunicazione si rivelò particolarmente efficace soprattutto per i soldati dell’esercito austro-ungarico appartenenti alle nazionalità “minori” dell’Impero, come cecoslovacchi, polacchi e romeni che, disertori o prigionieri, alla fine della guerra formarono dei reparti combattenti a fianco del Regio Esercito.
 
di Antonio Salvatore
 
 
 
   
 

1917: l'anno degli imperi centrali

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Nel 1917, malgrado l’ingresso in guerra degli USA il 6 aprile, la situazione dell’Intesa peggiorò decisamente. 
Dopo il sanguinoso stallo di Verdun, cui fece seguito il fallimento dell’offensiva francese allo Chemin des Dames in Russia la rivoluzione di marzo (febbraio nel calendario russo) rovesciò la monarchia instaurando un debole Governo provvisorio a sua volta abbattuto nel novembre (ottobre) dal partito bolscevico di Vladimir Lenin. 
Questo evento causò di fatto l’uscita della Russia dal conflitto. Gli austro-tedeschi poterono così dispiegare gran parte delle proprie forze contro l’Italia, progettando per l’ottobre 1917 una grande offensiva congiunta. 
Per tutto il 1917 il Regio Esercito aveva sferrato decise offensive, giungendo nel settore isontino a far retrocedere la linea nemica quasi a ridosso di Trieste. 
Tali attacchi anche se portarono l’Austria-Ungheria sull’orlo del collasso, costarono però oltre 100.000 morti e 200.000 feriti alle divisioni italiane. 
L’attacco austro-tedesco scattato nella notte del 24 ottobre colse lo schieramento italiano in un momento di crisi e riuscì a sfondarne le difese nell’alto Isonzo fra Plezzo e Tolmino, presso la cittadina di Caporetto. 
Precedute da un breve e violento bombardamento, le unità alpine tedesche si infiltrarono a fondo valle alle spalle della II Armata italiana, occupando i capisaldi della seconda linea di resistenza e costringendo così l’intero schieramento italiano ad una drammatica ritirata per evitare l’accerchiamento. 
Il sacrificio delle nostre retroguardie riuscì tuttavia a consentire alla IIIa Armata schierata sul basso Isonzo di ritirarsi dapprima sul Tagliamento poi sul Livenza e infine, dal 9 novembre dietro il Piave, scelto come ultima posizione di difesa. 
Su questa linea il Regio Esercito, sotto la guida del Generale Armando Diaz, che aveva sostituito Cadorna al Comando Supremo dall’8 novembre, riuscì a respingere la seconda offensiva nemica (Novembre-Dicembre), in quella che fu chiamata “La battaglia di arresto”.   
 
di Antonio Salvatore