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Temi globali

Notizie e salute mentale: il report dell'Istituto Reuters

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Le nuove generazioni tendono ad affidarsi più agli influencer e in generale alle personalità che abitano i social media, piuttosto che ai cosiddetti giornalisti tradizionali. A sottolinearlo è il Digital News Report dell'Istituto Reuters, giunto alla sua dodicesima edizione, pubblicato pochi giorni fa. Ogni anno, dal 2012, il Reuters Institute pubblica il "Digital News report", un dossier sul mondo dell'informazione che racconta come oggi ci informiamo. Premettendo che i dati devono essere contestualizzati e che uno studio è un’analisi su un campione e non la verità oggettiva, questi numeri qualcosa ci dicono: lo studio certifica un calo mondiale della fiducia nelle notizie: si attesta al 40%, rispetto al 42% del 2022. “Le ragioni non sono del tutto chiare”, si legge nel report: “Dalla ricerca dello scorso anno sappiamo che molti giovani si sentono sopraffatti dalla negatività che percepiscono nei loro feed social”. La Finlandia, in controtendenza, è il Paese con i livelli di fiducia più alta nelle notizie (69%). Non è un caso che il paese nordico sia in cima anche alla classifica del World Happiness Report. Notizie e salute mentale sono collegate tra loro, si legge nel report: “I have to consciously make the effort to turn away for the sake of my own mental health” (devo fare consapevolmente lo sforzo di allontanarmi per il bene della mia salute mentale). Nessuna novità, basta riprendere le parole di Charlie Skinner, personaggio della serie tv “The Newsroom” del regista Aaron Sorkin, molto attento al mondo del giornalismo: «Gli organi di informazione sono al servizio della comunità e hanno il compito di informare la gente, ma anche l'immenso potere di condizionarla». La conseguenza è che la partecipazione attiva è in declino (22%), mentre cresce la percentuale di persone che sostiene di evitare le notizie, allontanandosi da ogni fonte di news o selezionando solo alcune tematiche. Scappare dalle notizie a favore dell’intrattenimento. Su Facebook e Twitter le testate giornalistiche restano quelle più seguite se si cercano notizie su questi due social, quando ci spostiamo su YouTube, Instagram e TikTok la risposta degli utenti è diversa. Ci si sofferma di più su ciò che raccontano gli influencer e in generale i personaggi più noti. Su TikTok c’è un elemento in più: anche le persone comuni sono considerate una fonte di informazione. Nell’analisi condotta in 46 Paesi, il 56% degli utenti afferma di essere preoccupato perché non riesce a distinguere la differenza tra notizie reali e false su Internet. Solo il 30% pensa che la selezione delle notizie degli algoritmi dei social sia buona, ma è comunque una percentuale più alta di chi preferisce una selezione guidata dalle testate giornalistiche (27%). La direzione intrapresa dai media è quella di una spettacolarizzazione delle news. Sempre più informazione unita all’intrattenimento, che non può non abbassare il livello di informazione, poiché maggiore è l’intrattenimento minore è l’approfondimento. Il rischio è di una superficialità che porti a non risolvere le questioni che il giornalismo porta alla luce, ma che l’informazione diventi solo una forma di intrattenimento, perdendo la sua funzione di gatekeeper della società. 
 
di Daniele Leonardi
 

Come gli Stati Uniti controllano il mondo: le basi USA

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Nella storia dell'umanità è la prima volta che le forze armate di uno Stato sono così tanto presenti nel mondo come quelle degli USA. Al momento ci sono soldati americani operativi in almeno 170 Paesi e gli Stati Uniti hanno almeno 642 basi in 76 Stati. Una presenza così diffusa permette di controllare anche il commercio globale attraverso il controllo dei "choke points" (gli stretti e i canali marini strategici). In Italia ci sono 49 basi, 129 se si considerano tutti i presidi, anche semplici installazioni. Ciò non basta per dare il primato all’Italia: infatti, la nostra penisola è solo il quarto Stato per presenza di basi USA: ne vantano di più solo Germania (123), Giappone (113), Corea del Sud (79). Le basi garantiscono la capacità di reagire in tempo rapido ed efficiente a qualunque minaccia possa sorgere, oltre a tenere sotto controllo gli alleati, impedendo una indipendenza economica e militare di queste nazioni. Le basi europee, che sono vere e proprie isole nelle quali viene ricreato un sistema americano all’interno, non servono nel quotidiano ad esercitare il predominio americano in Europa, ma come piattaforme di lancio per andare nei territori di conflitto. In cambio questi Stati hanno protezione americana, anche se si tratta più di accettare la presenza americana che scegliere di averla. Piccole basi che creano una grande rete di controllo. 
Guardando all’intero globo, più di 100.000 militari nel Pacifico, quasi 90.000 in Europa e più di 20.000 in Medio Oriente. Unendo i presidi militari nelle zone strategiche del mondo si ottiene una linea denominata “collana di perle”, la quale indica la strategia degli Stati Uniti di controllare eventuali avanzate delle forze non alleate, come la Cina, che preoccupa gli Stati Uniti tanto da voler aumentare i presidi nell’Indopacifico. La strategia americana è quella non solo di aumentare le basi ma di redistribuirle, poiché concentrate in poco spazio (Giappone, Guam, Filippine, Corea del Sud, Singapore, Tailandia, Singapore). La vicinanza territoriale rischia di farle diventare un bersaglio facilmente attaccabile. Aumentando i presidi militari nelle Filippine, ad esempio, toglierebbe altro spazio al mare cinese. È difficile però aumentare le basi nell’Indopacifico poiché sono molto gli Stati che non si sentono minacciati dalla Cina, né tantomeno vogliono schierarsi contro la potenza asiatica. Lo scacchiere geopolitico Cina-Usa continua a muovere le sue pedine.  
 
di Daniele Leonardi
 

La pace in Irlanda del Nord, 25 anni dopo

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Durante una manifestazione a Londonderry alcuni uomini a volto coperto hanno attaccato la polizia lanciando molotov, alla vigilia dell'arrivo a Belfast di Joe Biden, il più irlandese e cattolico dei presidenti americani dai tempi di John F. Kennedy. Le origini irlandesi della famiglia di Biden sono in realtà lontane, ma rivendicare i suoi avi rappresenta un segno di vicinanza all’elettorato americano poiché si stimano che circa 30 milioni di persone negli Stati Uniti, ovvero un decimo della popolazione, rivendichi origini irlandesi. La storia d’Irlanda è segnata dagli accordi del Venerdì Santo, nei quali hanno avuto un ruolo centrale gli Stati Uniti e la presenza di Joe Biden ne è una prova: il negoziato avvenne grazie all’intervento degli Stati Uniti, al tempo il presidente era Bill Clinton, Biden era senatore. Era Venerdì Santo il 10 aprile 1998, giorno in cui fu firmato il Good Friday Agreement a Belfast, il quale pose fine a circa trent'anni di conflitto a bassa intensità in Irlanda del nord tra unionisti e indipendentisti. Gli accordi del Venerdì Santo vennero firmati tra il Regno Unito, nella persona del premier Tony Blair, e l'Irlanda, rappresentata dal Taoiseach, cioè dal primo ministro, Bertie Ahern, che ponevano fine ai cosiddetti Troubles, che avevano causano la morte di almeno 3600 persone. Belfast è stata devastata dagli scontri tra l'esercito inglese, gli Unionisti e i militanti dell'IRA, l'Irish Republican Army. L’Accordo, in cui Dublino riconosceva la sovranità britannica sull’Ulster e Londra non chiudeva la porta a una potenziale riunificazione dell’isola, fu poi ampiamente confermato dal referendum in cui il SÌ vinse con il 71.12% dei voti in Irlanda del Nord e il 94% nella Repubblica d’Irlanda. Gli accordi non segnarono l'inizio della pace ma di un processo di pace che va avanti fino ad oggi. L’IRA ha deposto ufficialmente le armi nel 2005, definendo cessata la lotta, ma Belfast è ancora oggi divisa da muri e cancelli denominati linee di pace: lunghi fino a 4 km e alti fino a 8, separano le zone in cui risiedono i cattolici e i protestanti. L’Irlanda del Nord ancora non riesce a fare pace con il suo passato e parlare di IRA è tutt’ora attuale. Ad aggravare la questione è stata la Brexit. l’Irlanda del Nord ha votato per il 55,8% per rimanere nell’Unione Europea. Infatti, un elemento determinante nel facilitare la pacificazione è stata la comune appartenenza di Irlanda e Regno Unito all’Unione europea. Lo stesso Biden, durante il suo intervento all’Università di Belfast ha definito la Brexit “una minaccia per gli accordi del Venerdì Santo”. A tale proposito è stato firmato un protocollo che prevede controlli doganali per le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna, in modo che siano conformi alle regole Ue e possano circolare liberamente anche in Irlanda. Lo scorso 27 febbraio, il premier britannico Rishi Sunak e la presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, hanno concordato la Cornice di Windsor, una nuova intesa che prevede un corridoio verde per le merci destinate alla sola Irlanda del Nord e uno rosso, con controlli doganali, per quelle destinate all’Irlanda. Il Dup, principale partito protestante nordirlandese, intransigente sulla questione, ha boicottato la formazione di un governo condiviso, senza il quale l’amministrazione locale non può esistere, prolungando così uno stallo che va avanti dalle elezioni del maggio 2022. La questione Brexit potrebbe aprire uno spiraglio di un referendum per unificare l’isola, già ipotizzato al tempo degli accordi e sempre più probabile in futuro ma ancora poco realistico oggi. 
 
di Daniele Leonardi
 
 

Iran, donne e rivoluzione

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Negli ultimi mesi in Iran si sono verificate violente proteste che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni economiche per i cittadini, ma l’Iran non è sempre stato così. Le foto che ci arrivano dagli anni Settanta mostrano un ambiente molto diverso da quello che siamo abituati ad associare allo stato persiano. Gli anni Settanta erano figli di una stagione di riforme nota come “rivoluzione bianca”, la quale ebbe molti effetti sulle donne: diritto di voto, divorzio e il divideto della poligamia. Il regime fece sempre maggior uso della forza sugli oppositori per portare avanti le sue difficili riforme. Così, a questa rivoluzione ne seguì un’altra a partire dal 1978. Il re, chiamato “scià”, esercitava il potere con metodi dittatoriali, eliminando ogni oppositore politico. La rivoluzione durò un anno e portò nel febbraio del 1979 all’odierna repubblica islamica. Le donne furono protagoniste di questa rivoluzione, anche grazie all’esperienza della Women’s Organization of Iran. Dopo un referendum, lo stato venne suddiviso in due autorità: una civile costituita da un parlamento e da un presidente con funzioni unicamente amministrative, e una religiosa guidata da Ruhollah Khomeyni, il quale deteneva il potere politico, poiché controllava gli organi amministrativi e suggeriva le indicazioni in ambito giudiziario basandosi sui comandamenti del Corano. La rivoluzione fece crollare la monarchia dello scià Reza Pahlavi dando vita a una repubblica definita islamica, poiché basata sulla sharia, la legge islamica, la quale prevede l’obbligo di indossare il velo, il divieto di divorziare e di consumare alcolici. In realtà la “sharia” non è propriamente la legge islamica, come comunemente tradotta in occidente, ma si tratta di una parola che in arabo significa “sentiero”, la “retta via”. Oggi, tutto questo non è più accettabile e il popolo rivendica maggiore libertà. L’omicidio da parte della polizia iraniana ai danni di Masha Amini, la ragazza di 22 anni uccisa perché indossava il velo, è stata la scintilla che ha scatenato una ondata di proteste che aspettava solo di sfociare. Le proteste sono state esasperate anche dalla crisi economica, aggravata dalle sanzioni europee, la cui linea politica estera non aiuta. La guida suprema Ali Khamenei, che non esercita il potere da solo ma è suddiviso in gruppi di potere, segue una linea di politica estera di vicinanza alla Russia e alla Cina. Il 26 febbraio 1979 prima ancora che venisse proclamata la Repubblica islamica, Khomeini annunciò che le riforme della rivoluzione bianca sarebbero state abrogate il prima possibile. Il 7 marzo fu annunciato che tutte le donne avrebbero dovuto indossare il velo, per lavorare o semplicemente per uscire di casa. Fu così che il giorno dopo in occasione proprio della Festa della Donna dell’8 marzo 1979, 100.000 donne scesero in piazza a Teheran per protestare. Alla manifestazione parteciparono anche tantissime donne velate, le stesse che durante la rivoluzione avevano fatto del cedro un simbolo, ma che non si aspettavano che questa legge fosse imposta su tutte le donne senza possibilità di scegliere. Negli anni 80 furono tanti i diritti che vennero nuovamente negati alle donne, come l'aborto. Furono abolite le leggi sul matrimonio, il divorzio tornò a essere una scelta esclusiva dell'uomo, mentre la poligamia divenne una prassi; gli uomini potevano e possono tuttora avere fino a quattro mogli e un numero illimitato di maglie temporanee. Nel 1982 l'adulterio fu punibile con la pena di morte, l'età legale in cui le ragazze potevano sposarsi venne ribassata 13 anni. Le donne, ancora oggi, non possono vestirsi come vogliono, poiché devono sottostare alla sorveglianza della polizia morale, la stessa che il 13 settembre scorso ha fermato per strada Masha Amini, ragazza di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, colpevole di avere una ciocca di capelli che spuntava fuori dal velo; portata in prigione, la ragazza è stata dichiarata morta tre giorni dopo. La famiglia sostiene che a ucciderla sia stata la polizia, la quale dopo l’arresto l’avrebbe colpita a morte. Le donne, che in passato furono protagoniste nelle piazze contro regimi autocratici, ora sono in quelle piazze ma non sono più sole perché anche gli uomini si ribellano a tale crudeltà: anche nel resto del mondo tante donne hanno espresso solidarietà tagliando una ciocca di capelli e condividendo il tutto in rete. Oggi la stampa internazionale sembra meno interessata alle più le proteste in Iran, ma questo non significa che vi è stata un’attenuazione, anzi: centinaia di ragazze sono state avvelenate nelle scuole. 
 
di Daniele Leonardi
 

Iran: avvelenamento selettivo governativo o complotto bottom-up?

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Da novembre 2022 a oggi, 230 scuole iraniane sono state prese di mira e migliaia di studentesse sono state esposte a sostanze irritanti e nocive per la loro salute. I primi casi sono stati registrati nella città Santa di Qom, nonché il maggior centro di studi religiosi sciiti dell’Iran. Le studentesse colpite hanno sofferto di svenimenti, nausea, senso di soffocamento e altri sintomi nell’istante seguente la propagazione di odori ritenuti sgradevoli e anormali; quindi, si tratta di avvelenamenti attraverso la propagazione area di sostanze tossiche. Alcune di loro sono state ricoverate in ospedale e hanno rischiato di perdere la vita. 
Ad oggi, non vi sono prove evidenti che possano evidenziare un legame tra i suddetti fatti e il governo “dittatoriale” iraniano. Tuttavia, non è sicuramente una coincidenza che questi casi si siano registrati in un contesto già fragile e poco dopo le proteste pubbliche sviluppatosi a seguito della morte di Mahsa Amini, donna simbolo della condizione femminile e della violenza esercitata contro le donne sotto la Repubblica islamica dell'Iran. La condizione femminile è sempre stata un tema fragile in questo Paese dove le donne risultano totalmente sottomesse all’uomo. 
Tutta questa situazione ha causato un dibattito globale riguardo l’attribuzione di responsabilità. Un'ipotesi molto diffusa va ad attribuire la colpa dell’attacco a gruppi religiosi radicali che vorrebbero negare alle donne il diritto all'istruzione, come avvenne nel vicino Afghanistan talebano.
Secondo l’agenzia statale iraniana Irna, il 14 febbraio 2022 le associazioni dei genitori si sono riunite davanti al governatorato della città di Qom per chiedere spiegazioni, ma è stata un’operazione senza risultati. Dieci giorni dopo, il viceministro della salute Youness Panahi ha confermato che «l’avvelenamento è stato intenzionale».
A inizio marzo ci sono stati i primi arresti dei sospettati ed è stato proprio il governo di Teheran a darne comunicazione. Nonostante queste brevi notizie, non c’è chiarezza sulla reale situazione. Rimane il fatto che i presidi delle scuole hanno vivamente consigliato ai genitori di tenere a casa le figlie per non rischiare altri avvelenamenti.
Potrebbe trattarsi di un avvelenamento selettivo da parte del governo per bloccare nuove proteste e ridurre i diritti femminili o di un complotto bottom-up (dal basso verso l’alto) perpetrato da gruppi radicali per scatenare disordini e poter tentare un colpo di Stato. Le ipotesi rimangono in sospeso fino a quando le agenzie di Intelligence non riusciranno a fare luce sui fatti.
 
di Elena Pinton