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Lotta al terrorismo: Italia vs Danimarca

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In Italia il testo unificato delle proposte di legge C. 243 e C. 3357 contiene le misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista, proponendo programmi di deradicalizzazione e integrazione socio-culturale dei soggetti coinvolti (c.d. foreign fighters). Tale iniziativa prevede anche l’istituzione di alcuni centri specifici, quali il Centro nazionale sulla radicalizzazione (CRAD) e i Centri di coordinamento regionali (CRR).
A tal proposito, la Commissione Europea definisce la radicalizzazione come “un fenomeno che vede persone abbracciare opinioni, pareri e idee intolleranti suscettibili di portare all'estremismo violento". In seguito alla risoluzione adottata dal Parlamento europeo in data 25 novembre 2015 in materia di prevenzione della radicalizzazione, l’Italia ha integrato le sue disposizioni giuridiche con il D.L. n.7 del 2015. Il suddetto provvedimento prevede la pena della reclusione da 5 a 8 anni per i c.d. foreign fighters e per chiunque organizzi, finanzi o propagandi viaggi all’estero con finalità di terrorismo; inoltre, è prevista la reclusione da 5 a 10 anni per coloro che pongono in essere comportamenti violenti attraverso l’uso di armi da fuoco o di esplosivi. In quest’ambito sono state inserite anche due contravvenzioni: la prima sanziona con pena di arresto fino a 18 mesi e ammenda fino a 1000 euro chiunque introduca, detenga, utilizzi o metta a disposizione di terzi sostanze definite “precursori di esplosivi”; la seconda prevede arresto o ammenda per coloro i quali non segnalino all’autorità preposta il furto o la sparizione delle suddette sostanze.
In aggiunta, sono previste ulteriori aggravanti per il possesso e la fabbricazione di documenti falsi, nonché per i reati di terrorismo commessi attraverso strumenti telematici e informatici. Queste disposizioni sono state affiancate dall’introduzione nell’ordinamento dell’articolo 12, comma 1, del suddetto testo unificato sul delitto di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”, che prevede la reclusione da 2 a 6 anni per chiunque, consapevolmente, si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali, armi da fuoco, sostanze chimiche o batteriologiche con l’obiettivo di compiere atti di violenza terroristica.
Come appena visto, l’approccio italiano risulta essere maggiormente repressivo a differenza di altri Paesi dalla strategia preventiva, tra i quali spicca la Danimarca. A partire dal 2005, la Danimarca si è proposta di trovare misure integrative alla pura repressione dando vita dieci anni più tardi al modello “Aarhus”. Quest'ultimo prevede una rete di collaborazione tra tutti gli attori a livello nazionale, regionale e locale con l’obiettivo di istruire, sensibilizzare e informare la popolazione in merito a rischi e conseguenze di atti a finalità terroristica. La particolarità risiede nella partecipazione su base volontaria, che tuttavia non comporta uno sconto di pena a coloro che hanno abbracciato l’ideologia jihadista. Tale approccio, quindi, non deve essere visto come un’alternativa alle misure detentive, ma si integra nel piano nazionale di lotta contro la criminalità. 
Il codice penale danese tratta alla sezione 114 (a-e) i reati quali omicidio, aggressione, sequestro di persona, sequestro illecito di mezzi di trasporto pubblico, violazione grave della legislazione sulle armi e sugli esplosivi, incendio doloso, esplosione e diffusione di gas nocivi, possesso e uso di sostanze radioattive. I suddetti reati implicano un’aggravante fino al 50% della pena massima se commessi a scopo terroristico. Rispetto all’ordinamento giuridico italiano, le pene previste da quello danese risultano meno rigide. 
È comunque doveroso sottolineare che il modello danese è stato soggetto a critiche, dato che permette una quasi “eccessiva” integrazione degli immigrati senza fare distinzione tra richiedenti asilo per motivi umanitari e coloro i quali tornano in patria dopo essersi volontariamente inseriti nelle dinamiche del terrorismo internazionale. All’esempio della Danimarca guardano però diversi Paesi europei, a loro volta indecisi su come difendersi dai combattenti jihadisti di ritorno.
 
di Elena Pinton, Lucrezia Menegon e Matteo Colnago