Iran – Usa, la crisi ad una svolta decisiva?

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Creato Mercoledì, 01 Febbraio 2012 09:20
Ultima modifica il Giovedì, 08 Novembre 2012 11:04
Pubblicato Mercoledì, 01 Febbraio 2012 09:20
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È andato in scena nelle ultime settimane l’ennesimo scontro tra l’Iran e gli Stati Uniti, con il Paese degli Ayatollah che torna a mostrare i muscoli e a far aleggiare ancora una volta (almeno nelle minacce) lo spettro nucleare sul mondo; una serie di avvenimenti hanno fornito nuovi tasselli a quel puzzle che oggi compone le difficili relazioni tra l’Iran di Ahmadinejad da una parte e gli Usa del presidente Obama dall’altra. Dapprima la minaccia, arrivata per bocca del vicepresidente iraniano Mohamed Reza Rahimi, di chiudere lo stretto di Hormuz, snodo cruciale per il commercio del petrolio; immediata la replica da parte degli Stati Uniti, con la promessa di pesanti sanzioni qualora questo fosse avvenuto, a cui hanno fatto seguito una serie di esercitazioni militari durante le quali l’Iran ha testato anche diversi missili a lunga gittata, infine l’aperta sfida degli Usa che con una loro portaerei attraversano lo Stretto. Sembrano scene di un film già visto, con le due potenze che battibeccano su questioni ormai note, dando fiato ad un dibattito sempre più nebuloso sulla reale capacità dell’Iran di dotarsi di un arsenale atomico; ma la “questione iraniana” tiene banco ormai da anni e, dopo la caduta di Saddam Hussein e di Gheddafi, dopo l’intervento in Afghanistan, quella dell’Iran appare essere oggi una delle situazioni più pericolose della polveriera mediorientale, una situazione che urge affrontare con risolutezza. È evidente che gli Usa non ci stanno più a giocare al gatto col topo con l’ex sindaco di Teheran e il suo regime e magari attendono l’occasione giusta per poter intervenire in modo deciso ed efficace. Ma le schermaglie delle ultime settimane non sono altro che un pretesto per ognuna delle controparti per “demonizzare l’avversario”, in un gioco che sta diventando sempre più pericoloso, che sembra sempre più avviato ad una svolta non si sa quanto decisiva ma probabilmente drammatica.

Ma andiamo per ordine: i rapporti tra i due Paesi negli ultimi decenni non sono mai stati idilliaci, neanche durante la presidenza del riformista Khatami, ma sicuramente sono precipitati verso il basso con la salita al potere nel 2005 di Mahmud Ahmadinejad, conservatore nazionalista e convinto sostenitore dei piani di riarmo dell’Iran. Proprio questo è il punto dolente della politica del premier iraniano: egli sostiene convintamente la corsa agli armamenti del proprio Paese, non mancando occasione per fare proclami e sbandierare al mondo i progressi raggiunti in campo atomico; da qui il dilemma da parte dell’Occidente: l’Iran è davvero in grado di costruire armamenti atomici o si tratta di un bluff? Analizzando la situazione, compresi gli ultimi episodi e la presunta minaccia atomica, da una diversa angolazione, vengono fuori conclusioni in parte dissimili da quelle diffuse presso l’opinione pubblica.

LA MINACCIA NUCLEARE. Gli ultimi dati contenuti in un rapporto dell’International Atomic Energy Agency (IAEA), in buona parte condivisi dagli esperti di geopolitica, gettano parzialmente acqua sul fuoco in merito alla presunta capacità dell’Iran di dotarsi di bombe atomiche: secondo l’Agenzia infatti Teheran dal 1998 al 2003 avrebbe lavorato alla costruzione di armi atomiche con un programma di arricchimento dell’uranio al 20%, non sufficiente per produrre materiale bombabile ma comunque contrario a quanto previsto dall’Onu; la IAEA però non propone dati certi riguardo alla reale intenzione dell’Iran di produrre armi nucleari, ipotesi suffragata dal riscontro di alcuni programmi di ricerca che potrebbero essere complementari alla realizzazione di armi nucleari. L’Agenzia delle Nazioni Unite insomma rileva che effettivamente una corsa agli armamenti c’è stata, ma questa ha subìto forti rallentamenti a partire dal 2003 e ad oggi la produzione nucleare iraniana è ad un livello rudimentale, mentre viaggia più spedita l’industria missilistica. Alla luce di tale scenario, come si collocano le esercitazioni militari iraniane delle ultime settimane e i test di missili antiaereo e antinave? Una prova di forza secondo gli esperti, una esibizione da parte di Teheran che celerebbe una sostanziale incapacità di sostenere un’eventuale nuovo conflitto nell’area, e una risposta agli Usa che, dopo la provocazione sulla paventata chiusura dello stretto di Hormuz, hanno esplicitamente minacciato nuove sanzioni.

LA CHIUSURA DELLO STRETTO DI HORMUZ. “Più facile di bere un bicchier d'acqua”: queste le parole con le quali il vicepresidente iraniano Rahimi lo scorso 28 dicembre dichiarava al mondo di essere pronto a chiudere lo stretto di Hormuz, un punto di passaggio obbligato e di grande importanza strategica per buona parte del greggio che alimenta il commercio mondiale. Gli Stati Uniti a tale minaccia hanno mostrato i muscoli e lo stesso Obama ha “consigliato” all’Ayatollah Khamenei di non oltrepassare tale “linea rossa”, dando ad intendere che qualora ciò fosse successo, la risposta statunitense sarebbe stata certa; insomma a tal punto un intervento armato contro Teheran non sarebbe stato più procrastinabile, secondo la Casa Bianca. Ma la sortita iraniana e la relativa reazione americana sembrano alquanto pretestuose se si va appena oltre le dichiarazioni: è risaputo che la politica di sanzioni adottata da Washington nei confronti dell’Iran ha provocato grave pregiudizio all’economia dello stato mediorientale e Teheran non manca occasione per mostrare i muscoli allo storico avversario, sperando di portarlo a più miti consigli. Ma quello che sembra meno probabile ad oggi è proprio la paventata chiusura dello Stretto, almeno per due principali motivazioni: la prima è da ricercare nei drammatici effetti che tale misura comporterebbe per le esportazioni iraniane; insomma i danni maggiori li subirebbe proprio l’Iran, mettendo in atto un vero e proprio suicidio economico. La seconda ragione è legata alle dichiarazioni della Casa Bianca che risponderebbe alla chiusura dello stretto con un conflitto: le indiscrezioni trapelate da ambienti vicini ai palazzi del potere di Teheran parlano di una consapevolezza diffusa dell’establishment iraniano di non essere in grado di sostenere un eventuale conflitto nell’area del Golfo Persico e questo potrebbe fare il gioco di quanti da parte Usa sostengano che sia giunto il momento di intervenire.

LE ESERCITAZIONI MILITARI IRANIANE. Una esibizione muscolare, come l’hanno definita gli esperti: insomma l’Iran sarebbe consapevole di non poter sostenere una guerra ma dopo le dichiarazioni di Obama fa sfoggio della propria potenza balistica per mettere in guardia il nemico statunitense, che intanto stazionava al largo dell’Oman con una propria portaerei….

L’UCCISIONE DELLO SCIENZIATO. Non ha contribuito a rasserenare lo scenario l’agguato a Mostafa Ahmadi Roshan, scienziato nucleare iraniano, ucciso nella capitale l’11 gennaio, episodio per il quale il regime iraniano ha apertamente accusato i servizi segreti Usa e quelli israeliano, dando sempre maggiore energia al sentimento anti-statunitense e anti-israeliano nel Paese.

LE “RAGIONI” DI AHMADINEJAD E QUELLE DI OBAMA. Se dalle posizioni contrapposte dei due leader possono trovarsi due punti in comune che giustifichino le loro scelte diplomatiche, questi sono il mantenimento del consenso interno e di quello internazionale. Per capire meglio cosa spinge Ahmadinejad a cercare costantemente lo scontro, è necessario dare un’occhiata alla situazione interna dell’Iran: parlando dei tempi recenti e partendo dalla Rivoluzione Islamica del 1979 che designò Khomeini quale guida suprema il Paese, legato a stretto filo ai dettami religiosi, ha conosciuto periodi di sostanziale chiusura verso l’esterno che non ne hanno favorito lo sviluppo economico, sociale e culturale, unitamente ad altre situazioni contingenti come il conflitto con l’Irak durato otto anni; una maggiore presa di coscienza da parte della popolazione, unita alla promessa di dare risposte alle esigenze dei giovani, consentirono nel 1997 un’ampia vittoria elettorale a Mohammad Khatami. Ma seppure bene accettata da quella parte non trascurabile di popolazione disposta ad aprirsi e modernizzarsi, la politica riformatrice di Khatami era palesemente invisa al clero conservatore, che detiene un potere ben maggiore di quello delle istituzioni elette dal popolo, e che non vedeva ovviamente di buon occhio il pericolo di una leggera ma palpabile “occidentalizzazione”; e così con appoggi più o meno diretti e più o meno legali ottenuti anche dal potere religioso e un programma elettorale mirabolante nel 2005 il Sindaco di Teheran si impose alle elezioni presidenziali. Ahmadinejad, laico ma fortemente conservatore, conquistò l’elettorato con la sua immagine di islamico puro e di persona semplice, garantì attenzione alle classi meno agiate, promise una redistribuzione della ricchezza; allo stesso tempo l’ingegnere di Aradan fece fortemente leva sul sentimento nazionalista, promettendo vita dura ai “nemici dell’Islam e dell’Iran” e la proiezione della propria nazione tra le grandi potenze, anche tramite un rinnovato programma nucleare. Una campagna elettorale insomma dai toni fortemente populistici che conquistò facilmente una popolazione che da una parte era alle prese con una forte incidenza della povertà e dall’altra cominciava tiepidamente a guardare ad altri modelli al di fuori dai propri confini. Ma ben presto si è visto che le promesse di Ahmadinejad hanno faticato a trovare applicazione: le sanzioni internazionali, unite a misure del governo palesemente inefficaci e a pesanti sperperi di fondi destinati alle classi povere (dati diffusi dalla stampa riformista parla di una distrazione di circa 140 miliardi di dollari), hanno contribuito ad affossare l’economia già critica del Paese, creando terreno fertile per la contestazione, nonostante la forte repressione. Le crepe che periodicamente rischiano di compromettere la stabilità del sistema non giovano al Presidente e al clero conservatore e il collante usato dal leader iraniano per tenere insieme i pezzi è quello dell’incitamento del proprio popolo a difendersi dai “nemici”, causa dei mali dell’Iran, in primis gli Stati Uniti, Israele e le Nazioni Unite; da qui il periodico agitarsi dello spauracchio nucleare, al fine di tentare di indurre il resto del mondo a più miti consigli e a rivedere il sistema sanzionatorio contro uno stato con un’economia in ginocchio. La situazione interna che Ahmadinejad si trova ad affrontare è quella quindi di un Paese con immense risorse petrolifere che non possono essere sfruttate come si deve a causa dell’embargo, di una popolazione sempre più povera e di una contestazione latente ma potenzialmente pericolosa; se da una parte governa una nazione ancorata profondamente allo stile di vita dettato dall’Islam, dall’altra non mancano esempi di intolleranza e di apertura verso usi e costumi diversi e richieste di maggiori libertà. È un segnale che passa in trasparenza analizzando solo alcune delle notizie delle ultime settimane: un cittadino canadese, autore di un software utile per caricare le foto sul Web, è stato condannato a morte perché il programma è stato utilizzato da centinaia di utenti per postare foto “indecenti”; notizia certamente raccapricciante, ma passa anche il messaggio che sono tante le persone che sfidano i secolari precetti islamici, forse ormai obsoleti anche nel conservatore Iran, per passarsi immagini “impure” per l’Islam ma magari assolutamente innocenti secondo altri canoni. E ancora: nell’ultimo periodo si stanno facendo sempre più serrati i controlli nei negozi del Paese per evitare che si vendano Barbie: si, la storica bambola della Mattel in Iran è fuorilegge, ma da tempo è nato un mercato nascosto e parallelo allo scopo di soddisfare le crescenti e pressanti richieste della bionda di plastica americana, ormai nei sogni di tante bambine iraniane in barba a quanto stabilito dall’establishment religioso.

Le ultime prove di forza di queste settimane quindi rientrano nell’ambito della strategia usata da Ahmadinejad per tenere stretto il consenso e, facendo leva sul sentimento nazionalista, di dirottare l’attenzione al di fuori dell’Iran, al di sopra dei gravi problemi del Paese e delle promesse non mantenute.

E la risposta degli Usa? Come si colloca? La situazione interna di Obama ha tante affinità con quella del suo “nemico” facendo le dovute contestualizzazioni: l’elezione del presidente afro-americano nel 2008 ha portato una ventata di speranza negli Usa e nel mondo intero, portando addirittura Obama ad essere insignito di un Nobel per la Pace più “sull’onore” che sui fatti; l’inquilino della Casa Bianca si è trovato però ad affrontare situazioni molto dure nel corso del suo mandato, non ultimo il rischio default sventato artificiosamente in extremis lo scorso agosto e si trova ora ad affrontare le elezioni presidenziali con tanti problemi irrisolti sul groppone, con una nazione che non gode di buona salute e con un grado di popolarità sicuramente buono ma che potrebbe non bastare per garantire ad Obama un altro mandato a Washington. A queste situazioni va aggiunta la continua minaccia iraniana che non fa dormire sonni tranquilli alla maggior parte del popolo americano e che richiede quindi un intervento deciso di un Presidente che vuole essere attento alle richieste dei propri connazionali; di certo per Obama sarebbe un sogno quello di liberarsi per sempre di una spina nel fianco come quella costituita dalla questione iraniana, ma gli americani accetterebbero a cuor leggero un altro massiccio intervento armato nella zona del Golfo Persico? Dopo l’ultimo conflitto in Irak, che non è stato una passeggiata per la US Army e che a tratti è stato drammaticamente accostato al Vietnam, ci vogliono ragioni molto forti per giustificare l’impegno in prima linea in una nuova guerra; e poi, l’impelagarsi in una nuova, difficile situazione bellica a pochi mesi dalle elezioni, potrebbe realmente giovare all’inquilino della Casa Bianca?

I POSSIBILI SCENARI. Sicuramente le scadenze elettorali ormai prossime negli USA consigliano prudenza prima di prendere qualsiasi decisione che vada oltre i limiti già varcati nei confronti dell’Iran e cioè qualsiasi cosa vada al di là di minacce di nuove sanzioni o di effettive applicazioni di queste. Ma gli avvenimenti di queste ultime settimane, sembrano andare in controtendenza e portare a ben altri scenari.

Prima ipotesi: Obama ostenta prudenza e non farà passi avventati che possano pregiudicare la sua corsa verso la riconferma alla presidenza; il presidente americano potrebbe avere la certezza che l’Iran non ha, almeno nel futuro prossimo e sulla scorta di quanto dichiarato dal rapporto IAEA, possibilità di creare armi nucleari, per cui non rappresenta un pericolo imminente. Una indiretta conferma potrebbe leggersi nelle parole pronunciate dal leader iraniano durante una visita a Quito, in Ecuador: “Il nucleare è una scusa politica. Tutti sanno che l’Iran non cerca di fabbricare bombe atomiche, il problema posto dall’Iran non è il suo programma nucleare, ma è posto dal suo progresso e dalla sua indipendenza. L’Occidente” ha concluso il presidente Ahmadinejad, rincarando la dose contribuendo a surriscaldare gli animi “ha deciso di fare maggiori pressioni su di noi; insultano il nostro paese e il nostro popolo. È chiaro che il popolo iraniano resisterà”. Il capo dello Stato iraniano sembra quasi ribellarsi a delle pressioni costanti sul proprio Paese e si difende dicendo che non c’è un programma nucleare di tipo bellico, ma semplicemente orientato al progresso; e molti dati rafforzano quanto detto da Ahmadinejad: il rapporto IAEA esclude che Teheran sia in grado di dotarsi di arsenali nucleari e allo stesso tempo i dati sulla ricerca scientifica iraniana danno un’immagine sorprendente, con una serie di successi in campo medico, chirurgico, biotecnologico, robotico, frutto dell’impennata avuta dall’attività di ricerca degli ultimi anni.

Seconda ipotesi: Amadinejad ritiene ormai maturi i tempi, ha innescato negli ultimi tempi una serie di manovre di provocazione (vedi le esercitazioni militari delle ultime settimane) ed è pronto ad opporsi ad eventuali attacchi degli Stati Uniti. È l’ipotesi più remota e surreale: sembra che Teheran abbia la consapevolezza di non reggere ad un eventuale conflitto e quindi non si esporrebbe ad un rischio così elevato; tuttavia dopo la caduta di tanti leader dei Paesi islamici negli ultimi tempi, il presidente iraniano potrebbe aver la lusinga di proporsi come leader politico carismatico dell’area mediorientale, facendo proseliti anche presso tutti quei Paesi a maggioranza islamica vicini alle posizioni iraniane che accetterebbero di schierarsi accanto a Teheran qualora venisse attaccato. Uno scenario comunque più fantasioso che altro, considerando che il rischio di soccombere con conseguenze pesanti sarebbe molto elevato ed è un rischio ben conosciuto e ponderato anche da parte degli inquieti governanti iraniani.

Terza ipotesi: gli Stati Uniti hanno ormai la piena consapevolezza del potenziale offensivo e difensivo iraniano, aspettano solo l’occasione giusta per attaccare e destituire il fastidioso capo del Paese degli Ayatollah. È una ipotesi che può sembrare a tratti inverosimile, sicuramente dai risvolti drammatici, ma comunque suffragata da diversi dati di fatto: il rapporto IAEA potrebbe aver fornito l’ennesima prova agli Usa circa la scarsa consistenza del piano di riarmo nucleare dell’Iran, così come l’incapacità del Paese di sostenere adeguatamente un intervento armato nell’area. Tolti i dubbi sulla reale capacità militare e balistica dell’Iran, la decisione di attaccare una volta per tutte potrebbe essere molto più rapida da prendere, mancherebbe però la motivazione forte che possa giustificare agli occhi degli americani un impegno così gravoso; se tale situazione fosse effettivamente ben oltre lo stato di pura ipotesi di fantasia e ammesso che Obama sia deciso ad accollarsi un rischio così grande, allora risulterebbero maggiormente comprensibili anche alcune manovre apparse a prima vista azzardate da parte degli americani. Dopo la minaccia di chiusura dello Stretto di Hormuz e le esercitazioni militari iraniane, gli Usa hanno risposto con veemenza, prima di tutto con la minaccia di nuove sanzioni, in aggiunta a quelle che hanno già messo in ginocchio l’economia iraniana; da parte di Teheran non c’è stato tuttavia un ammorbidimento dei toni e, anzi, a conclusione della simulazione missilistica nello Stretto di Hormuz, il Comandante delle Forze Armate iraniane, Ataollah Salehi, ha sostanzialmente invitato gli Usa a non avvicinarsi al Golfo Persico con la propria portaerei che in quei giorni navigava nel Golfo dell’Oman, e soprattutto di non farselo ripetere due volte! Gli Stati Uniti tuttavia non solo non hanno raccolto il “gentile” invito, ma anzi ne hanno approfittato per stuzzicare ancor di più la reazione dell’Iran: la portaerei Usa non ha battuto in ritirata ma, anzi, lo scorso 22 gennaio ha attraversato lo Stretto di Hormuz, scortata da navi da guerra britanniche e francesi, in aperta sfida con le minacce iraniane. Una forzatura che potrebbe apparire inopportuna e fuori luogo, atta solo ad inasprire ulteriormente tensioni già al livello di guardia; in realtà si è trattato di una prova del fuoco: se l’Iran avesse osato reagire la situazione sarebbe innegabilmente precipitata e l’ipotesi di un intervento armato massiccio e repentino avrebbe preso immediatamente quota. Ma per ora la situazione resta immutata, l’Iran non ha minimamente reagito al passaggio della portaerei e gli Usa sono, sotto un certo punto di vista, rimasti a bocca asciutta; si, perché al di là dell’Atlantico sembra che più di qualche personaggio influente non veda l’ora che dal Medioriente arrivi un passo falso che dia un via libera alle operazioni belliche, prova ne sia che la portaerei e le navi da guerra a stelle e strisce non si sono mosse dalle acque del Golfo Persico, quasi a sfidare a muso duro i nervi del regime iraniano in attesa di una reazione. Sembra di rivivere scene già viste in passato: nel 1940, in piena Seconda Guerra Mondiale, il Giappone occupò l’Indocina, manovra ostile agli Stati Uniti che avevano il controllo delle Filippine, in quanto temevano di perdere la propria supremazia sull’area, considerando anche che nessuna potenza in Asia poteva opporsi efficacemente al Giappone. Le contromosse statunitensi presero forma con l’embargo verso il Giappone e con il mantenimento di un forte dispiegamento di forze alla base militare delle Hawaii a fini deterrenti; l’economia giapponese arrivò sull’orlo del collasso, il governo del Sol Levante decise per la via diplomatica, preparando in parallelo un piano di attacco contro le basi statunitensi nell’area del Pacifico. Roosevelt sapeva bene che la stragrande maggioranza degli americani non era favorevole alla partecipazione al conflitto, ma in qualche modo era necessario agire in fretta (come oggi d’altronde…) per evitare di dover fare i conti con una egemonia mondiale composta dalle forze dell’Asse; Washington quindi rifiutò sdegnosamente qualsiasi proposta di accordo diplomatico proveniente da Tokio, portando il Giappone all’esasperazione, in una situazione che sembra avere numerosi paralleli con quella attuale tra l’Iran e gli Usa. Il resto è storia tristemente nota: gli Stati Uniti si opposero al Giappone con aria di sfida, la diplomazia, passo che oggi sembra mancare, non ebbe successo e all’alba del 7 dicembre 1941, dalle portaerei giapponesi si alzarono 350 aerei carichi di bombe diretti verso la base americana di Pearl Harbor.

di Michele Moffa