Arance amare

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Creato Martedì, 31 Gennaio 2012 20:53
Ultima modifica il Giovedì, 08 Novembre 2012 11:04
Pubblicato Martedì, 31 Gennaio 2012 20:53
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“Venti, sessanta, cento anni … la vita

 

a che serve se sbagliamo direzione.

 

Se vivere significa essere chiusi

 

nell’egoismo, pensare solo a sé stessi

 

non alzare lo sguardo oltre i confini

 

del proprio essere.

 

Ciò che importa, è oltrepassare

 

le frontiere, per incontrarsi

 

… in quelle terre di nessuno

 

Per affermare la dignità, la giustizia

 

e non dimenticare che tutti,

 

ognuno con le proprie possibilità

 

anche pagando

 

in prima persona, siamo i costruttori

 

di un mondo nuovo”

 

(Giuseppe Puglisi)

 

 

 

 

 

Il 7 gennaio 2010 nella città di Rosarno (in provincia di Reggio Calabria) si verifica un evento di tale importanza da segnare indelebilmente la storia dell’immigrazione italiana. Gli immigrati irregolari impiegati nella raccolta delle arance nei campi intorno alla città, dopo aver subito costanti abusi e vessazioni da parte dei datori di lavoro, si ribellano apertamente e drasticamente allo sfruttamento lavorativo e alle condizioni di vita precarie ed indegne in versano durante il periodo del lavoro stagionale.

 

Secondo le stime ufficiali a Rosarno sono presenti 1600 braccianti tutti di nazionalità italiana con l’eccezione di 36 persone ma la verità drammatica che viene alla luce all’indomani della rivolta del 7 gennaio è alquanto differente: i lavoratori sono infatti 1200 e per la maggior parte provenienti dal continente africano (Donadio, 2010). Essi vengono rigorosamente retribuiti in nero e dispongono nella migliore delle ipotesi di circa trenta euro al giorno per vivere. Un cifra che altrove non gli consentirebbe neppure di sopravvivere e che in una delle aree più povere d’Italia garantisce loro la sola facoltà di nutrirsi quotidianamente e neppure in maniera adeguata.

 

Nonostante gli immigrati lavorino da anni nelle campagne di Rosarno non è stato loro concesso di divenire parte integrante del tessuto sociale della città. Anzi nel momento in cui essi hanno tentato di rivendicare i propri diritti la popolazione si è mostrata ostile nei loro riguardi. A seguito delle proteste del 7 gennaio infatti gli autoctoni hanno inaugurato una vera e propria “caccia allo straniero”, iniziando a perseguitarli nei campi e ciò è accaduto nonostante l’intervento delle forze di pubblica sicurezza (Mora, 2010). In tal senso può affermarsi con Donadio che “la rivolta degli immigrati va dritta al cuore della difficile trasformazione dell’Italia da Paese di emigranti a Paese di immigrati”, un processo ancora lungi dal concretizzare la possibilità di un’inclusione degli stranieri nella società ad opera dei cittadini del Bel Paese.

 

Il clima instauratosi a Rosarno a partire dalla prima decade del gennaio 2010 diviene sempre più incandescente e gli immigrati vengono costretti ad abbandonare la città per non cadere vittime delle violenza perpetrate ai loro danni da alcuni dei residenti. La mancanza di tolleranza e comprensione degli autoctoni circa le loro rivendicazioni è rivelatrice di una mentalità che tende a considerare lo sfruttamento lavorativo dello straniero come un dato naturale e irrinunciabile della configurazione del mercato agricolo. In base a questa logica se l’immigrato si ribella a tali circostanze – non rileva minimamente il fatto che egli chieda solo ed esclusivamente il rispetto dei propri diritti in quanto uomo – egli deve essere allontanato. Ed infatti a seguito della cosiddetta “rivolta delle arance” i clandestini sono stati trasferiti in altre regioni italiane tramite autobus messi a disposizione dalle forze dell’ordine. Alcuni hanno scelto di andar via in treno, dopo aver regolarmente acquistato il biglietto. Forse non avevano una meta ma a Rosarno non gli era più concesso di restare.

 

 

 

E’ una tiepida giornata di febbraio. Incontro alcuni immigrati di Rosarno in uno degli edifici occupati da “Action”, situato in Via Antonio Tempesta a Roma, luogo in cui gli stranieri possono beneficiare dell’esistenza di uno sportello preposto a fornire loro assistenza nelle pratiche per la richiesta del permesso di soggiorno. Ci accoglie Luciana, che da tempo lavora per fornire aiuto e sostegno a persone straniere in difficoltà e vengo da lei introdotta in una stanza umile ma ben pulita ed ordinata. In un angolo siedono gli immigrati rispettosi del proprio turno e di un ossequioso silenzio mentre sulle pareti gridano allo sdegno gli articoli di giornale stampati a seguito degli eventi del 7 gennaio. Mi avvicino e chiedo di poter parlare con loro. Non si negano, devono attendere ancora diversi minuti prima di sottoporre la propria pratica a Luciana.

 

Il primo a presentarsi è Samuel. Ha venticinque anni e proviene dal Ghana. E’ fuggito dal suo Paese per sottrarsi alle persecuzioni religiose dei Musulmani. Egli, infatti professa la religione cristiana. Si trova in Italia da tre anni e dal momento del suo arrivo non ha più visto sua moglie e i suoi due figli. Prima di giungere in Italia è stato tenuto in carcere dalle autorità libiche ed ha dovuto pagare 900 dinari (circa 600 euro) per potersi sottrarre alla prigionia. Dice di aver lavorato a Rosarno e di aver provato molta rabbia per ciò che gli è accaduto: “ I feel angry because I am not an Italian citizen and so I cannot react against exploitation and abuses”. Pensa che chi non è cittadino italiano non possa ribellarsi alla mancata tutela di diritti perché in tal caso è costretto poi ad abbandonare il Paese. E aggiunge che i Rosarnesi non consideravano lui e gli altri stranieri loro pari. Afferma che gli abitanti di Rosarno credevano che fosse giusto il modo in cui venivano trattati, ma sottolinea che di certo loro non avrebbero lavorato per la paga di un euro a cassetta di arance raccolte. Non è stato mai vittima di violenza da parte degli italiani ma ritiene che alcuni di loro siano cattivi, anche se non ha mai pensato di usare violenza contro di loro. Adesso ha paura di essere denunciato perché non possiede i documenti ed inoltre vorrebbe trovare un lavoro il prima possibile per poter mandare del denaro alla sua famiglia. Tornerebbe a casa se le persecuzioni religiose terminassero e se avesse la possibilità di lavorare e guadagnarsi da vivere. Sorride dicendomi che anche se adesso sente paura, dolore e tristezza, Dio provvederà a dargli la serenità.

 

Si avvicina Daoda ha vent’anni ed un bel sorriso ed è approdato in Italia nel 2009 dopo essersi imbarcato dalle coste libiche con un “biglietto” di sola andata costato 1000 dollari. E’ arrivato in Sicilia e poi è stato trasferito a Roma, dove ha presentato domanda di asilo, alla quale però è stata data una risposta di diniego. Dice che nel suo paese, la Costa d’Avorio, i ribelli combattono contro il governo e la situazione è talmente grave che la vita è diventata impossibile. Per questo è venuto in Italia dove è finito a lavorare a Rosarno. Mi racconta che non lavorava tutti i giorni ma solo dai due ai quattro giorni a settimana. Arrivava sul posto di lavoro su un furgone guidato dal datore di lavoro e una volta terminato il suo compito rientrava nel suo alloggio, una tenda che condivideva con altre nove africani, montata alla periferia della città. I suoi amici si lamentavano spesso perché subivano molti maltrattamenti e le persone del posto non erano gentili. I ragazzi della città tiravano loro le pietre e gli adulti erano ostili. Sostiene che la sua ribellione e quella degli altri lavoratori non voleva essere un atto di violenza affermando - è l’unico degli immigrati che comprende e parla l’italiano - “volevamo solo far vedere al governo che eravamo maltrattati, la violenza non porta a nulla!”. Dice di aver lasciato Rosarno subito dopo gli scontri, ma di non essere salito sugli autobus della polizia per mancanza di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Così ha raggiunto Roma in treno e una volta nella capitale, proprio quando lo sconforto stava prendendo il sopravvento, ha incontrato una donna che si è gli ha fornito una prima assistenza e lo ha indirizzato all’ospedale di San Giacomo. “E’ stata una fortuna incontrarla – e sottolinea - non solo perché si è presa cura di me ma anche perché dopo i fatti di Rosarno pensavo che tutti gli italiani sono cattivi perchè non solo ho dovuto di dormire per settimane in una tenda dentro un capannone abbandonato, senza ricevere solidarietà dagli abitanti della città, ma ho dovuto anche essere maltrattato quando ho chiesto i miei diritti”. Secondo Daoda l’Italia non è un Paese civile. Ha scelto di venire qui perché è lo Stato europeo più semplice da raggiungere partendo dalla Libia. Credeva che, dal momento che in Africa aveva avuto modo di visionare immagini del Vecchio Continente in cui questo veniva presentato come benestante ed opulente, in Italia sarebbe vissuto decentemente. E invece una volta arrivato ha compreso immediatamente che agli stranieri è riservato un destino differente. Sta ricominciando a credere nel fatto che tra gli italiani ci siano persone di cuore grazie ai volontari di Action che si sono sin da subito preoccupati di fornirgli cibo, coperte, scarpe e vestiti. Daoda è il ragazzo maggiormente integrato tra quelli presenti in loco e con cui ho modo di parlare. Conosce bene la lingua italiana tanto che sentirlo parlare in maniera a tal punto corretta mi sorprende piacevolmente. E’ affabile e scherzoso nonostante questa terra gli abbia finora riservato tanto dolore. Alla fine della nostra conversazione mi dice che desidererebbe tornare nel suo Paese e che avverte molto la mancanza della sua famiglia. A Roma ha trovato degli amici che gli consentono di sentirsi meno solo ma il suo pensiero vola spesso verso casa. Grazie ad internet riesce a tenersi in contatto con delle persone rimaste nel suo luogo natio in Costa D’Avorio ma un computer non può mai sostituire uno sguardo o un abbraccio di una persona cara. Ci scambiamo i numeri di telefono e promette di venirmi a trovare presto, intanto si siede accanto a me per assistere alle successive conversazioni.

 

Nomoko mantiene gli occhi bassi, sembra arduo riuscire ad aprire una breccia nel muro della sua timidezza. Quando decide di avvicinarsi e raccontarmi la sua storia mantiene la voce bassa e continua a guardare per terra, poi pian piano si tranquillizza e nelle poche volte in cui mi guarda negli occhi mi trafigge come una lama. Ha uno sguardo sofferente, è l’unico tra gli altri lavoratori di Rosarno a non regalarmi un sorriso. Nomoko è originario del Sudan e proviene esattamente dalla regione del Darfur tragicamente nota come una delle zone più calde del Pianeta. Il Sudan meridionale è infatti dilaniato da un conflitto sanguinario ed estenuante che ha causato e continua a causare milioni di morti tanto da indurre gli osservatori internazionali a parlare di un vero e proprio genocidio. Ha ventisei anni ed ha attraversato il deserto per raggiungere la Libia, un viaggio costatogli ben 800 dollari e che non avrebbe mai potuto affrontare senza il sostegno economico dei genitori. Loro volevano che partisse per non vederlo cadere vittima della guerra. In Darfur, dice, si combatte perché il governo non vuole gli Arabi e i bianchi si oppongono ai neri. Afferma che lo stato di guerra nel suo Paese è una condizione permanente tanto che ha dovuto adeguarsi ed abituarsi a vivere in un tale contesto dal momento della nascita. Il conflitto ha dimensioni così vaste ed è pervasivo a tal punto da colpire indistintamente tutta la popolazione cosicchè anch’egli sarebbe potuto andare incontro alla morte se avesse deciso di restare. Quando è arrivato in Italia nel luglio del 2009 grazie a dei contatti con suoi connazionali presenti in Calabria è giunto a Rosarno, luogo in cui ha trovato impiego nel lavoro di raccolta nei campi. Afferma che per recarsi sul posto di lavoro i caporali caricavano lui e gli altri stranieri su dei furgoni e per il trasposto esigevano un corrispettivo. Lavorava dalle sette e trenta alle sedici e trenta e durante quelle ore non gli erano concesse pause, per questo durante la raccolta quando non era osservato mangiava le arance. I datori di lavoro erano brutali e un giorno nel frangente di una lite scoppiata tra due caporali ha assistito ad una scena di violenza nei confronti di un altro immigrato che è stato gratuitamente picchiato ad una gamba da uno dei due mentre era chinato per raccogliere i frutti. Al termine del suo lavoro stremato ritornava nel posto in cui trascorreva il resto della sua giornata, una fabbrica dismessa che condivideva con circa cinquecento stranieri. Mi dice che quando è arrivato in Italia non si aspettava di vivere così, ammassato con altre centinaia di uomini in un capannone, senza acqua potabile, senza riscaldamento, costretto a rifornirsi di acqua da un pozzo, a lavarsi con acqua fredda e ad utilizzare il gas per scaldare quella utilizzata per cucinare. E poi è esplosa la rivolta nel gennaio del 2010. Secondo la sua opinione il governo italiano sapeva delle condizioni in cui gli immigrati erano costretti a lavorare ma è rimasto in silenzio. Al momento della ribellione ricorda che la gente di Rosarno si è mostrata fortemente intollerante e che molti affermavano che non era affatto giusto che “noi animali ci ribellassimo” e aggiunge: “cosa avremo dovuto fare? Eravamo sfruttati, lavoravamo come schiavi e non avevamo né elettricità né acqua potabile. Come potevamo vivere con venticinque euro al giorno? Ci hanno anche sparato addosso, hanno sparato ad un mio amico. Non ci credevo, per me gli italiani sono esseri umani!”. Nomoko crede che l’appartenenza al genere umano di per sé non giustifichi simili comportamenti e che gli uomini debbano rispettarsi già solo per il fatto di essere tali, senza distinzioni di alcun genere. Eppure a Rosarno è stato bastonato – mi mostra le cicatrici sul braccio e sulla gamba destra – e non si è nemmeno recato in ospedale per paura di essere segnalato e rispedito a casa e lui non vuole tornare a casa. Teme di essere rimpatriato e desidera continuare a restare in Italia per lavorare con onestà e mantenendo la sua dignità di persona. Ha inoltrato una domanda di asilo quando è arrivato nel Paese ma non gli è stata accettata - forse qualcosa è andato storto durante il colloquio – è adesso spera che il governo faccia qualcosa per lui perché “ogni posto del mondo è meglio del Darfur, anche Rosarno”. Mi coglie alla sprovvista quando afferma che ha fiducia nello Stato italiano e che non tutti qui sono razzisti, c’è anche qualche anima buona. Nomoko guarda con fiducia al futuro anche se sa che non è facile. Se guarda indietro rivede l’imbarcazione di fortuna che lo ha condotto in Italia, e gli sovviene l’immagine nitida di quattro persone sofferenti nella barca. “La Croce Rossa italiana ci ha salvati altrimenti saremmo finiti in mare, da allora pensavo che la mia vita sarebbe solo potuta migliorare. Se Dio ha deciso di farmi sopravvivere devo andare avanti e sperare in un futuro migliore in cui cercare di stare bene e di costruire una famiglia tutta mia, magari con una donna italiana”. Ed è a questo punto che gli si illuminano gli occhi e mi rivolge finalmente un sorriso. Gli chiedo cosa direbbe se avesse la possibilità di rivolgere un pensiero al popolo italiano e afferma: “non ho mai pensato, neanche nei momenti più difficili trascorsi a Rosarno di fare del male ad un italiano” poi mi saluta, è arrivato il suo turno.

 

Si è creato un bel clima, Daoda chiacchiera in maniera spensierata, mangiamo della cioccolata insieme ed insieme ascoltiamo un’altra storia, l’ultima, quella di Alì, 25 anni, anch’egli arrivato in Italia dalla Libia. Ha dovuto seguire la rotta libica perché i canali di accesso all’Europa dal Marocco sono bloccati e così è sbarcato in Italia nel 2008. E’ originario del Burkina Faso dove ha lasciato una moglie ed un bambino e ciò lo preoccupa molto perché nel Paese è in corso un conflitto dovuto a motivazioni di natura politica. Daoda mi fa da interprete e così apprendo che Alì è finito a lavorare a Rosarno dopo essere stato contattato telefonicamente da alcuni suoi connazionali che si trovavano già sul posto. Al pari degli altri era sfruttato dai caporali e retribuito dai 23 ai 25 euro al giorno. Quando i lavoratori immigrati sono insorti lui ha scelto di unirsi alla protesta ed ha reagito agli affronti della popolazione ma a causa di ciò è stato bloccato da alcuni residenti e picchiato. “Gli italiani sono razzisti e il governo non è buono – afferma- ci hanno imposto di vivere come bestie in una fabbrica – diversa da quella in cui si trovava Nomoko -dovevamo cucinare e riscaldare l’acqua con una bombola a gas che tenevamo nella tenda in cui dormivamo correndo un grave rischio per le nostre vite. Sono scappato da Rosarno in treno ed ora mi trovo a Foggia dove vivo alla giornata, ma ho bisogno di lavorare per mandare del denaro alla mia famiglia. Con la raccolta delle arance riuscivo a mettere da parte dalle cinquanta alle sessanta euro al mese da inviare a mia moglie, ma con questa cifra lei non riusciva a sopravvivere”. Alì ricorda che la popolazione di Rosarno era cattiva e che gli stranieri venivano aiutati solo dalla Croce Rossa che forniva loro cibo e coperte. Anche a Foggia adesso riceve aiuto dalla Caritas. Non vuole ritornare nel suo Paese perché ritiene che in Italia si possa nonostante tutto vivere meglio e spera di riuscire a ricongiungersi un giorno il suo bambino e la sua compagna. Vorrebbe vivere qui con loro e lavorare in condizioni di parità rispetto ai cittadini italiani.

 

L’incontro con gli immigrati di Rosarno ha termine. Ci salutiamo con un abbraccio e scattiamo delle foto. Daoda mi promette che ci sentiremo e che ci rivedremo.

 

Mentre affronto il viaggio in treno per tornare a casa penso che non dimenticherò mai gli occhi Nomoko e l’espressione del suo volto quando pieno di speranza mi ha parlato del suo futuro. Le persone con cui ho parlato hanno una caratteristica in comune, non provano rancore. Hanno si provato molta rabbia in quei primi giorni gennaio ma nella loro concezione l’appartenenza al genere umano reca con sè il perdono delle ingiustizie subite dai propri simili ed essi hanno perdonato. Chiedono una possibilità al nostro Paese, non vogliono delinquere ma lavorare per il proprio benessere e quello delle proprie famiglie. E naturalmente il loro impiego è salutare anche per l’economia del nostro Paese. Non bisogna dimenticare che gli stranieri vengono occupati in settori nei quali la manodopera italiana è carente e che senza il loro lavoro la sopravvivenza delle attività legate ai settori medesimi (soprattutto l’edilizia e l’agricoltura) sarebbe seriamente compromessa. Tuttavia nel sistema occupazionale italiano gli immigrati (irregolari e non) continuano a subire discriminazioni e vengono pagati fino al trenta per cento in meno degli italiani.

 

Il caso di Rosarno dimostra che gli immigrati non sono più disposti a consentire che i loro diritti vengano calpestati. La loro presa consapevolezza rispetto a ciò che è dovuto ad un onesto lavoratore, in primo luogo un salario che sia il corrispettivo della produttività del lavoro, rappresenta un monito per coloro i quali continuano a perpetrare le logiche dello sfruttamento. Il risveglio delle coscienze, oramai, ha spezzato le catene di ingiustizia sociale del nuovo millennio.

 

di Francesca Varriano