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Creato Giovedì, 28 Dicembre 2023 09:30
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Ultima modifica il Martedì, 02 Aprile 2024 07:32
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Pubblicato Giovedì, 28 Dicembre 2023 09:30
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Fin dall'inizio del conflitto, il punto debole dell'Ucraina è sempre stato il cielo, poiché l’aeronautica russa è di gran lunga superiore a quella di Kiev. L’Ucraina ha dovuto ricorrere ai droni militari, ma anche questi non sono risultati vincenti poiché facilmente individuati dalla contraerea russa. L’Ucraina ha così deciso di utilizzare i droni civili della DJI, nati con lo scopo di realizzare foto e video, convertendoli in armi da guerra. Droni abbastanza piccoli ed economici da non essere rintracciati dai radar dell’aeronautica russa. I droni permettono una visuale di ricognizione dall’alto, aiutando i soldati che lanciano bombe dai cannoni a colpire con maggiore precisione. L’azienda cinese DJI non entusiasta che i suoi prodotti vengano usati a scopi bellici ha deciso di impedire che i droni arrivino in Ucraina; non bisogna dimenticare anche la vicinanza geopolitica della Cina alla Russia. Sono entrati in gioco a questo punto i droni FPV, molto più facili da assemblare con componenti economiche e più facili da personalizzare con una stampante 3D. Da questo momento in poi, nascono veri e propri laboratori di civili in cui ingegneri, tecnici, studenti e volontari ucraini creano droni senza sosta, poiché i soldati ucraini utilizzano circa 10.000 droni al mese. Il dato così elevato è giustificato dal fatto che questi velivolispesso sono abbattuti o utilizzati come droni kamikaze. Non si tratta di una nuova forma di economia sostenuta dal governo o dall’esercito, ma di un’iniziativa dei cittadini a sostegno della loro patria che ha visto una rapida diffusione e un pesante impatto nelle dinamiche del conflitto.Se i velivoli DJI svolgevano una funzione strategica con cui prendere informazioni, una sorte di occhi nel cielo per studiare il territorio e migliorare la precisione dei colpi osservando dove questi vanno a finire, i droni FPV rappresentano, invece, l’arma da guerra per colpire l’avversario, poiché sono portatori di esplosivi. Nonostante la Russia abbia un avanzato sistema di aeronautica, per cui non ha bisogno di ricorrere ai droni per avere degli occhi nel cielo, anch’essa è ricorsa ad una grande flotta di droni: il drone suicida Lancet, prodotto dalla stessa azienda dei Kalashnikov, ha rappresentato un’arma molto importante per abbattere i carri armati europei, tanto da spingere il ministero della Difesa russo a richiedere un aumento della produzione degli stessi. Si differenziano dai dronipre-programmatiShadid iraniani perché vengono pilotati in tempo reale da un operatore, permettendo quindi di sfuggire ai tentativi di abbattimento e di raggiungere anche soggetti in movimento. Nonostante essi siano meno potenti dei razzi di cui dispone l’esercito russo, questi droni volando bassi permettono di evadere i sistemi di difesa aerea, risultando più efficaci. Un altro modo di difendersi per la Russia è attraverso una guerra elettronica con cui cerca di disturbare il segnale radio, senza il quale il pilota non può controllare lo strumento da remoto. A loro volta i soldati ucraini cercano di creare una sorta di ponte del segnale radio per potenziarlo. A questo proposito è molto importante il drone ucraino Baba Yaga che riesce a svolgere la funzione di ripetitore di segnale radio, oltre che di trasporto di mini-velivoli per missioni “kamikaze”. Non solo: è stato ultimato da Kiev un nuovo mezzo, il drone d’attacco Backfire, il quale avrà al suo interno tre velivoli capaci di trasportare due bombe da 2kg l’una su ciascuno dei tre mezzi, e grazie a un’antenna GPS molto protetta, il drone sarà capace di eludere i sistemi di guerra elettronica. Con questi velivoli a lunghissimo raggio e autoprodotti, Kiev è riuscita a contenere l’avanzata e ribaltare l’inerzia del conflitto che sembrava procedere velocemente verso l’avanzata russa; i droni rendono vulnerabile qualsiasi presidio russo e aprono la strada ad una nuova era: la guerra dei droni.
Come anzitempo detto, i droni svolgono anche la funzione di documentazione del conflitto: la diffusione di video in cui vengono mostrati gli obiettivi colpiti con successo alimenta la propaganda della resistenza e della vittoria, riuscendo a raccontare il conflitto in tempo reale. Questo nuovo scenario in cui si intrecciano tecnologia, armi e immagini, cambierà per sempre la guerra per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi: è il trionfo dell’intelligenza artificiale al servizio della guerra.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 23 Dicembre 2023 09:28
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Ultima modifica il Martedì, 02 Aprile 2024 07:29
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Pubblicato Sabato, 23 Dicembre 2023 09:28
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In un contesto di grave corruzione interna, con l’insurrezione russa nel Donbass e la perdita del Crimea, un capo di Stato quale Poroshenko che prende tempo sulla possibilità di valutare concretamente la richiesta popolare di adesione alla Nato, un insegnante di storia lotta contro la corruzione prendendo le difese della classe media, tanto da farsi chiamare “servitore del popolo”. Un pericolo reale per il leader Poroshenko, se solo quel professore non fosse il protagonista di una serie tv ucraina. Quell’insegnante, che in realtà è un comico e un attore, però si candida e quelle elezioni le vince per davvero. Il 31 marzo 2019, a sorpresa, Zelensky ottiene oltre il 30% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali, Poroshenko si attesta al 16%. Zelensky si professa per la pace, tanto da usare un misto di russo e ucraino nel suo discorso inaugurale per chiedere l’unità nazionale. La sua popolarità però cala abbastanza rapidamente per la sua incapacità di risolvere i problemi del Paese. Un rapporto delle Nazioni Unite afferma che “di particolare preoccupazione è la mancanza di responsabilità per minacce e violenze nei confronti di difensori dei diritti umani, operatori dei media e individui che esprimono opinioni online o tentano di partecipare all’elaborazione delle politiche. L’OHCHR ha documentato 29 incidenti contro giornalisti, professionisti dei media, blogger e individui che esprimevano opinioni critiche nei confronti del governo o delle narrazioni tradizionali. Nel 2020-2021, sono stati presi di mira giornalisti investigativi e operatori dei media che si occupavano di argomenti politici come la corruzione e l’attuazione delle restrizioni del Covid-19”. Colui che aveva promulgato leggi per esautorare il potere degli oligarchi come quali Poroshenko, aveva perso la fiducia del popolo con la sua linea politica e con la sua partecipazione nello scandalo dei Pandora Papers, in cui emerse che Zelensky possedeva denaro in conti bancari esteri. La sua parabola discendete si è arenata con la drammatica invasione russa del 24 febbraio, evento che dà nuova linfa alla popolarità del presidente ucraino: cambia la strategia di comunicazione di Zelensky: toglie i panni del politico e assume la parte di un “presidente al fronte”; già a marzo 2022 il suo consenso è risalito all’80%.Nella sua uniforme verde militare, con un atteggiamento e un'enfasi degna dei migliori film di guerra, un presidente attore che sa bene che la sua vittoria passa dalla alleanza con gli Stati esteri, dal favore dell'opinione pubblica e della stampa. La comunicazione di Zelensky è impeccabile: nonostante la situazione di emergenza, la freddezza che traspare dalle sue comunicazioni è rassicurante: accoglie uno ad uno i leader del mondo, dedica ore della sua giornata al telefono, comprende persino l'importanza di prestarsi ai fotografi e ai giornalisti. È invitato nei più importanti eventi dello spettacolo occidentali: Golden Globe, Festival di Cannes, Grammy, Eurovision, Festival del Cinema. Raggiunge l'apice della popolarità internazionale con l'intervista rilasciata nei sotterranei della metropolitana di Kiev allo show di David Letterman.
In una situazione di emergenza, il leader ucraino ha trovato nelle nuove frontiere della comunicazione, una via per la sopravvivenza. Zelensky ha deciso di documentare quotidianamente, anche con i rischi che esso comportava, la guerra e l'emergenza che il suo Paese stava vivendo. Zelensky è passato dall’essere il primo presidente-influencer della storia, per il massiccio e vincente uso che ha fatto dei social, ad essere “il primo presidente-reporter della storia”. Il leader ucraino ha raccontato il conflitto in prima persona, aggiornando il mondo sull’ evoluzione del conflitto. Egli ha compreso che la vittoria, o quantomeno la resistenza, sarebbe passata attraverso la comunicazione, l’opinione pubblica, il morale del paese. Alcuni lo hanno definito folle a causa del suo tentativo di opporsi a ogni mediazione con Putin, nel suo pretendere un ritiro della Russia quando l’Ucraina sembrava spacciata. Altri lo hanno definito fantoccio della NATO, definendo quella con la Russia una guerra per procura che in realtà voleva combattere la Nato. Nella conferenza stampa di fine anno a Kiev, Volodymyr Zelensky ha dichiarato: "Non stiamo perdendo la guerra con la Russia, anche se non sappiamo quando finirà". Rispondendo ai giornalisti ucraini e internazionali, Volodymyr Zelensky, ha incitato alla resistenza in ogni modo possibile: “Sul campo, con le alleanze e a parole”. In questa frase, vi è tutta la strategia del presidente ucraino: combattere sul campo, stringere alleanze, pronunciare le parole giuste. "L'Ucraina sarà la prossima stella sulla bandiera dell'Ue" ha poi aggiunto Zelensky, indicando la bandiera dell'Unione europea visibile sullo schermo dietro le sue spalle. Il picco della sua popolarità e la narrazione del presidente-eroe hanno portato nel dicembre 2022 il Time a nominare Volodymyr Zelensky persona dell'anno, rimarcando la loro decisione come la più chiara a memoria d'uomo. D'altronde, due giorni prima anche il Financial Time aveva riservato al presidente ucraino lo stesso conferimento. Un anno dopo, però, la parabola di Zelensky è di nuovo calante. Il suo mandato scadrà a marzo ma Zelensky ha escluso la possibilità di elezioni durante la guerra. La sua candidatura alle elezioni post-belliche passerà per la vittoria del conflitto, l’unico risultato con cui Zelenky potrebbe presentarsi alle urne. Gli ultimi sondaggi dell’Istituto di sociologia di Kiev (KIIS) indicano che il 62% degli ucraini sostiene il presidente, contro l’84% dello scorso anno, maggiore fiducia viene riposta nelle forze armate (96%) e nello stesso generale Zaluzhny (88%). Non bisogna poi dimenticare gli oligarchi ucraini che stanno sostenendo economicamente le forze armate, cambiando la loro immagine agli occhi del popolo. Quello che è certo è che la spinta popolare che ha dato la guerra a Zelensky sta svanendo, anche per via del logoramento del conflitto e la sempre meno ed inevitabile attenzione internazionale al conflitto, poiché, come accaduto in Siria e in altre guerre, quando le crisi sono di lunga durata non fanno più notizia.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 16 Dicembre 2023 07:19
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Ultima modifica il Martedì, 02 Aprile 2024 07:19
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Pubblicato Sabato, 16 Dicembre 2023 07:19
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La Striscia di Gaza è una fascia di terra della Palestina situata tra Israele ed Egitto che affaccia sul mar Mediterraneo, ed è lunga circa 365 kmq con una densità abitativa tra le più alte al mondo: oltre due milioni dipersone vivono all’interno di quello che è una zona delimitata da un lungo muro perimetrale che isola il territorio.
Sebbene l’ONU affermi che Israele non occupi più questo presidio di terra (sul piano politico, infatti, è controllata dal 2006 da Hamas), Israele ne continua di fatto a detenere il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali, dei passaggi di confine, delle infrastrutture civili (tra cui la rete elettrica) e della gestione del censo palestinese (l’anagrafe).
La storia del conflitto israelo-palestinese non è una questione che va avanti da secoli, o come si dice, da sempre. È storia del secolo scorso. Le origini di questa contesa sono rintracciabili nel primo dopoguerra. Precedentemente, infatti, l’area era sotto il controllo dell’impero ottomano. Ai turchi subentrarono gli inglesi, i quali diedero vita al Mandato britannico per la Palestina (1919-1948). Nei primi decenni del XX secolo si trasferirono migliaia di ebrei europei nella Palestina britannica, i quali in un primo momento consentirono l’immigrazione. Tuttavia, il sempre maggiore numero di ebrei che andavo stabilizzandosi in Palestina, iniziarono a produrre le prime tensioni nella convivenza con gli arabi. Gli inglesi decisero di limitare l’immigrazione ebraica, provocando la formazione di milizie ebraichedecise a combattere sia gli arabi che gli inglesi. Dopo secoli di persecuzioni, compresa l’ultima nazista, gli ebrei credevano che solo uno stato ebraico rappresentasse per loro la salvezza. Nel 1947 l’ONU approvò un piano per dividere la Palestina britannica in due: uno stato ebraico (Israele) e uno stato arabo (Palestina). Da questo momento in poi inizia una guerra tra le due fazioni, con gli arabi palestinesi che non vedono di buon occhio la spartizione e puntano a ripristinaretutti i territori della Palestina britannica. Se l’origine della questione palestinese è rintracciabile nel primo dopoguerra, quello della Striscia di Gaza risale al 1948, anno in cui fu attaccato il neonato Stato di Israele, ritenuto illegittimo dagli arabi di Palestina. Il territorio della striscia fu occupato dall’Egitto. Israele vinse la guerra ma si spinse oltre i suoi confini, conquistando la metà occidentale di Gerusalemme e parte del territorio che spettava alla Palestina. Fu allora che emerse il concetto di “Striscia di Gaza”, intesa come territorio separato, perché quest’ultimo fu l'unico tratto della costa mediterranea della Palestina che Israele non riuscì a conquistare. Questa fascia di terra restò sotto il controllo dell'Egitto fino alla guerra dei sei giorni del 1967, quando fu occupata dalle truppe israeliane e dopo la quale iniziò la realizzazione nell'area di colonie sioniste. Il sionismo è il movimento nato alla fine dell‘800 bassato sul principio di diritto autodeterminazione del popolo ebraico e alla costituzione di uno Stato ebraico. Israele adesso occupava tutti i territori palestinesi, compresa la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, precedentemente controllata dalla Giordania. Israele ed Egitto arrivarono a concordare una pace con la quale lo Stato ebraico restituì il Sinai. Nel corso degli anni anche altri Stati arabi accettarono pacificamente la nuova situazione, pur senza firmare accordi di pace ufficiali, limitando il conflitto alle sole due fazioni israelo-palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata negli anni ’60, smise di rivendicare tutti i territori della precedente Palestina britannica, dichiarando di aver accettato la divisione della terra, ma continuando a lottare per la liberazione di essa. La questione divenne ancora più complessa quando gli israeliani iniziarono a trasferirsi nei territori palestinesi: questi furono denominati coloni, e iniziavano a creare i loro insediamenti in Cisgiordania e Gaza con la protezione dei soldati israeliani. Ciò che li mosse fu sia la rivendicazione dei territori, sia le agevolazioni economiche del governo di Israele. L’ONU ha dichiarato illegale l’insediamento dei coloni, che ha reso l’occupazione molto più difficile per i palestinesi, costretti a condividere la loro terra, facendo crescere il loro sentimento di frustrazione, sfociato poi nella prima intifada (rivolta).
Un contesto di questo tipo ha maturato la sfiducia nella OLP e favorito la nascita di un nuovo movimento di resistenza islamica, dalla quale nascerà Hamas: un'organizzazione che combatte per l'autonomia degli arabi palestinesi, imponendo i principi dell'Islam. In particolare, l’origine di Hamas è da rintracciare nel Centro islamico, un’organizzazione di assistenza sociale che decise di sostenere la prima intifada, iniziando ad occuparsi di questioni politiche, ponendo le basi per la nascita di Hamas, un ramo militare a sostegno dei musulmani di Palestina. Hamas all'inizio indirizzò le sue azioni soprattutto contro gli arabi palestinesi accusati di collaborare con lo Stato ebraico, ma contemporaneamente si occupava anche di assistenza sociale istituendo mense, ospedali e servizi per gli arabi palestinesi più poveri. Gli accordi di Oslo sancirono la restituzione di Gaza alla Palestina e istituirono la creazione dell'Autorità Nazionale Palestinese: un nuovo organismo politico guidato da Fatah. Hamas non approvava il processo di pace intrapreso da Fatah, il partito guidato da Yasser Arafat, che tutt'oggi controlla la Cisgiordania e che seguiva una linea politica nazionalista e laica. In realtà, gli estremisti di entrambe le fazioni non accettarono l’accordo. I tentativi di trovare un compromesso non riuscirono a fermare le stragi di Hamas. Nemmeno la colonizzazione sionista si fermò, facendo maturare la consapevolezza generale che non si trattasse più di risolvere un conflitto ma di convivere con esso. E così, dove non c’è modo di costruire ponti, vengono innalzati i muri. Il governo israeliano eresse così una barriera intorno alla striscia, lasciando aperti solo pochi punti di passaggio, i cosiddetti checkpoint. Isolare la Striscia di Gaza significava non solo bloccare gli arabi-palestinesi, ma anche isolare circa 9000 ebrei disposti in 21 insediamenti. Questi rimasero lì fino al 2005, anno in cui il governo israeliano decise di smantellarli e di trasferire gli abitanti, dopo 5 anni di scontri cruenti nella regione che presero il nome di seconda intifada.
Hamas nel 2006 partecipò per la prima volta alle elezioni politiche dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il movimento risultò vincitore a scapito di Fatah, l'altro partito. Israele reagì imponendo un blocco navale totale nei confronti della striscia di Gaza che va avanti ancora oggi, poiché considerava Hamas, non un partito ma un’organizzazione terroristica. Dopo le elezioni scoppiò una guerra civile tra Hamas e Fatah, che provocò la divisione della Palestina in due parti: Gaza (controllata da Hamas) e Cisgiordania (controllata dall’ANP). Tuttavia, la Cisgiordania rimane ancora oggi in parte occupata da Israele, provocando altre tensioni. Con la risoluzione 446 del 1979, l’ONU ha dichiarato che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non hanno alcuna validità giuridica e rappresentano un serio ostacolo per la pace. Inoltre, sempre secondo l’ONU, Israele sarebbe tenuto a rispettare gli obblighi di una potenza occupante, i quali sono stabiliti dalla Quarta Convenzione di Ginevra, per cui un conflitto armato o un'occupazione non esonera uno Stato dal tutelare i diritti umani.
Hamas è considerata un’organizzazione terroristica non solo da Israele, ma anche dall'Unione Europea, dagli Stati Uniti e da altri Paesi; tuttavia, è riconosciuta dalla maggior parte dei Paesi del mondo. Dal 2012, inoltre, l'Onu ha accettato che una delegazione dell’ANP fosse denominata Stato di Palestina, e ne ha riconosciuto la condizione di Stato osservatore non membro: può partecipare alle assemblee generali dell’ONU, senza poter votare. In particolare, dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, 163 Stati hanno riconosciuto Israele, 138 la Palestina. La questione israelo-palestinese non può quindi essere una diatriba ristretta all’Oriente, ma comprende dinamiche e scenari globali che interessano appieno l’Occidente.
Secondo uno studio del 2020, il numero di ebrei nel mondo è di poco inferiore ai 15 milioni di persone, di cui quasi 7 milioni vivono in Israele, e quasi sei milioni negli Stati Uniti, con il restante altrove. Negli Stati Uniti la comunità ebraica è molto forte: offre un sostegno costante a Israele e nel 1953 si è dotata di un'organizzazione, l'American Israel Public Affairs Committee, l'IPAC, di cui fanno parte anche americani non ebrei. Lo scopo dell’organizzazione è spingere le istituzioni statunitensi a sostenere lo Stato ebraico; oggigiorno l'IPAC è considerata una delle lobby più influenti degli Stati Uniti, politicamente vicina al primo ministro israeliano Netanyahu.
di Daniele Leonardi
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Creato Mercoledì, 13 Dicembre 2023 09:23
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Ultima modifica il Martedì, 02 Aprile 2024 07:24
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Pubblicato Mercoledì, 13 Dicembre 2023 09:23
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L’informazione che circola a Gaza è un problema: da un lato si tende a non fidarsi ciecamente dal numero delle persone uccise fornito dal Ministero della Salute di Gaza, cioè Hamas, dall’altro le autorità israeliane hanno imposto un rigido controllo sui giornalisti internazionali che entrano a Gaza, peggiorando la credibilità di Israele agli occhi dell'opinione pubblica. Un accordo di 12 pagine stabilito tra le autorità israeliane e alcune testate internazionali con cui Israele impedisce alla stampa indipendente di accedere alla Striscia di Gaza, sostenendo di non poterne garantire la sicurezza. Secondo TPI, tra i media firmatari ci sarebbero: Cnn, Abc, Nbc, Channel 4, New York Times e Fox News. L’unica testata italiana sarebbe Repubblica. A confermarlo è stata Francesca Mannocchi in un’intervista rilasciata a Rai Tre, in cui la la reporter freelance ha denunciato le condizioni in cui i giornalisti di tutto il mondo sono costretti a lavorare: “Gli accessi sono stati limitati a due/tre giorni in cui alcune testate internazionali tra cui una italiana hanno potuto avere accesso per pochissime ore alla Striscia di Gaza, firmando un accordo con le forze israeliane lungo 12 pagine in cui sostanzialmente noi giornalisti siamo chiamati a far vedere e revisionare sia i nostri articoli scritti sia le immagini filmate all’interno della Striscia. E non è stato naturalmente possibile per nessuna troupe internazionale poter parlare con civili palestinesi”. Questo accordo, quindi, prevede che i giornalisti e i loro operatori possano entrare a Gaza ma senza circolari liberi per questioni di sicurezza, e con l’obbligo di sottoporre tutto il materiale del girato alla visione dell'esercito, il quale avrebbe poi la facoltà di decidere o meno la pubblicazione dello stesso. Le testate hanno tutto l'interesse a documentare anche se parziali ma è giusto chiedersi la validità di questi reportage dopo aver firmato un accordo così vincolante, in cui una delle parti in causa controlla la narrazione. Il rischio è che i reporter diventino semplici portavoce dell’esercito israeliano, trasformando l’informazione in propaganda. Sul fronte però ci sono anche reporter palestinesi che riescono a documentare in maniera egregia e coraggiosa il conflitto: è il caso, ad esempio, di Matoz Azaiza, il reporter che racconta su Instagram i bombardamenti e il massacro nella Striscia di Gaza. Il suo profilo ha superato i 7 milioni di follower, i suoi contenuti sono ripresi dai media di tutto il mondo. SI tratta di un fotografo freelance che lavora per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA, The United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East). Matoz Azaiza è uno dei reporter più seguiti perché è sul campo, ma non è l’unico a raccontare da dentro la guerra, ci sono tanti altri giornalisti, reporter e creator digitali: Ahmed Hijazi, Mahmoud Zuaiter, Anadolu Ali Jadallah e Ali Nisman, morto in un bombardamento il 13 ottobre. Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ),Comitato per la Protezione dei Giornalisti, in due mesi di guerra, cioè dall'inizio del conflitto, almeno 63 tra giornalisti e operatori hanno perso la vita; secondo i dati forniti da Freedom Forum, si tratta della stessa cifra dei giornalisti deceduti nei 10 anni di guerra in Vietnam e molto vicina al numero di quelli uccisi nella Seconda guerra mondiale (69).
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 09 Dicembre 2023 09:13
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Ultima modifica il Sabato, 09 Dicembre 2023 09:13
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Pubblicato Sabato, 09 Dicembre 2023 09:13
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«Gli Stati Uniti devono guidare il mondo nella produzione dei microchip». Questa è stata la dichiarazione di Trump nell’agosto 2022durante l'evento che ha visto la partecipazione degli amministratori delegati di Micron, Intel, Lockheed Martin, HP e Advanced Micro Devices. Il primo chip semiconduttore fu inventato negli anni’50 da ingegneri statunitensi e consisteva in un pezzo di silicio con quattro transistor su di esso. Maggiore è il numero dei transistor, più potente è il chip. Negli anni successivi, a partire dagli anni’60, gli ingegneri avevano già realizzato un chip con quattro volte il numero dei transistor precedenti. Il fondatore di Intel, Gordon Moore, predisse con successo nel 1965 che la potenza di calcolo prodotta da un singolo chip sarebbe raddoppiata ogni anno. Un tempo gli Stati Uniti non avevano bisogno di far molto per difendere la scoperta dei suoi scienziati. Nella California centrale, una valle avrebbe preso il nome dal materiale che avrebbe dato il via alla nuova era tecnologica: Silicon Valley. Gli Stati Uniti vogliono tornare a produrre i semiconduttori autonomamente, tuttavia, non esiste un’azienda, e quindi un Paese, autonomo nella produzione dei microchip: l’industria dei semiconduttori ha una catena di approvvigionamento complessa, vi è bisogno di aziende che si trovano in Stati Uniti, Olanda, Corea del Sud, Taiwan e Giappone. Potremmo semplificare la catena di produzione dei chip dicendo che: gli Stati Uniti producono le macchine, il software e i progetti; il Giappone produce metalli e prodotti chimici peri trucioli, i Paesi Bassi producono la macchina laser UV per scolpire i trucioli e Taiwan produce i chip nei FABS. ossia, stabilimenti di produzione di microchip. Nel 1987, per contrastare la corsa al silicio del Giappone, il governo statunitense impose una tassa del 100% sui chip giapponesi importati in USA. Poi c’è il Taiwan, il cui governo decise di richiamare i suoi ingegneri che lavoravano per aziende statunitensi per creare una propria Silicon Valley. L’obiettivo del governo di Taiwan non era competere con gli Stati Uniti ma diventare centrali nel processo di creazione, specializzandosi in una mansione in cui gli USA erano carenti: i Fabs. Taiwan creò una società a capitale statale, la «Taiwan Semiconductor Manufacturing Company» (TSMC). Questo accordo è stato vantaggioso per gli Stati Uniti poiché ha permesso loro di concentrarsi solo sulla parte di sviluppo e progettazione, malo è stato ancora di più per Taiwan perché ha stretto un’alleanza con gli Stati Uniti, fondamentale in vista della sempre minacciosa avanzata cinese, facendo entrare a pieno titolo i semiconduttori nel quadro geopolitico. Il 92% di questi chip è realizzato a Taiwan, l’8% in Corea del Sud. I transistor sono diventati la base per quasi tutti i dispositivi elettronici. Ma non è solo una questione tecnologica: tutte le industrie utilizzano la tecnologia a transistor nella vita quotidiana. L’amministrazione Biden ha inserito restrizioni senza precedenti alle esportazioni di tecnologie software e macchinari statunitensi utilizzati per produrre chip, vietando alle aziende di qualsiasi parte del mondo di venderli alla Cina. L’obiettivo degli USA è estromettere la Cina nella catena di approvvigionamento dei microchip più avanzati per rallentarne il progresso tecnologico, il che potrebbe impattare nel tempo anche su altri settori strategici della ricerca scientifica come quello dell'intelligenza artificiale applicata al comparto militare su cui il governo cinese sta puntando molto. La tecnologia a uso civile e militare su cui gli americani non vogliono che la Cina metta le mani sono i super chip utilizzati per le applicazioni più avanzate dell'intelligenza artificiale. Nel 2021 il Washington Post ha riferito che la Cina stava costruendo laboratori di ultima generazione per testare armi di grande portata, comprese quelle nucleari, e per farlo utilizzava la tecnologia americana dei semiconduttori. Il paradosso è che le aziende americane vendevano chip e software ad aziende cinesi che permettevano non solo l’avanzamento tecnologico cinese, ma fungevano da copertura per il progresso tecnologico dell’esercito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso e infuriare gli Stati Uniti è stata la presentazione di un test di lancio di una testata nucleare cinese attraverso un sistema missilistico ipersonico, che gli USA non solo non erano in grado di replicare, ma nemmeno di rintracciarlo nei radar. La tecnologia cinese è riuscita a superare quella americana grazie alla stessa tecnologia americana dei microchip. Da qui, la decisione di Bidendi vietare la vendita di microchip alla Cina. Una decisione che potrebbe avere anche un secondo risvolto: potrebbe rappresentare una mossa preventiva per svincolarsi dall’alleanza con Taiwan, preparandosi a fare a meno dei suoi FABS. Attraverso il chips Act, infatti, il governo ha stanziato miliardi di dollari alle aziende statunitensi di microchip per creare questi stabilimenti negli USA. In questo modo Taiwan, che si trova nel fuoco incrociato tra Cina e Stati Uniti, si ritroverebbe solo contro la minaccia cinese. Tuttavia, nella visita di Nancy Pelosi a Taiwan, evento cheha fatto inasprire i rapporti con la Cina e ha permesso alla Speaker della Camera USA di visitare la TSMC, la terza carica dello Stato americano ha ribadito il sostegno statunitense a Taiwan. Anche Biden in risposta all'esercito cinese che ha circondato Taiwan con esercitazioni militari congiunte di Aeronautica e Marina dopo la partenza dall'isola della speaker della Camera Usa, ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero disposti a difendere militarmente Taiwanse vi fosse bisogno. In questo scenario, però,manca un attore fondamentale: l’Europa. Al Chips Act americanoha fatto seguito l’«European Chips Act», con il quale l’Unione Europea si impegna a produrre entro il 2030 un quinto dei semiconduttori globali, sganciandosi dalla dipendenza estera ed entrando negli equilibri economici di questo settore al pari di Cina e Stati Uniti. La rivoluzione del transistor ha dato il via all’epoca moderna e a quella che potremmo definire la guerra fredda dei microchip. Gli Stati Uniti e la Cina stanno combattendo una guerra a suon di regolamenti e sanzioni per impedire al proprio rivale di prendere un vantaggio nel controllo della produzione dei semiconduttori. Non sappiamo che impatto avranno le sanzioni americani sullo sviluppo tecnologico della Cina, ma sappiamo che la guerra dei microchip stabilirà il primato di una potenza sul nuovo equilibrio geopolitico mondiale;avere il controllo della produzione dei microchip significa avere la più alta tecnologia in campo militare.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 04 Dicembre 2023 15:45
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Ultima modifica il Venerdì, 22 Marzo 2024 15:42
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Pubblicato Lunedì, 04 Dicembre 2023 15:45
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Heinz (poi divenuto Henry) Kissinger è morto all'età di 100 anni, lo scorso 29 novembre. È stato uno dei personaggi più controversi della scena politica internazionale. Esperto di relazioni internazionali, consigliere e stratega di diversi presidenti, fino a diventare uno degli uomini più influenti negli anni della guerra fredda. Se consideriamo tutto l’operato di Henry Kissinger, quello che emerge dalla sua carriera politica è una serie di scelte contradditorie, probabilmente fatte con l’unico scopo di restare al potere: «Ciò che mi interessa è ciò che si può fare con il potere», è la frase rilasciata in un’intervista del 1972 ad Oriana Fallaci. L’unico pensiero prevalente di Kissinger è il potere come ossessione, pagare «qualsiasi prezzo», la certezza, appresa da Machiavelli, che «per difendere i principi devi restar vivo, se no a che vale?». Campagne di bombardamenti segrete, sostegno ai dittatori, sabotaggio di colloqui di pace. Kissinger ha avuto influenza e potere. Kissinger è stato sempre caratterizzato da tante incoerenze, ma nonostante questo il suo nome è stato volto da un’area quasi mitologica da chi il potere ce l’ha, che ha impedito che lui pagasse per tutti i crimini di guerra a cui lui ha partecipato.
Da sempre repubblicano di ferro sposato due volte con due figli, Kissinger dovette l'inizio della brillante carriera politica a una persona al miliardario Nelson Rockefeller che conobbe in occasione di un seminario del 55 fu Rockefeller a offrire al giovane ricercatore di incarico di direttore degli studi speciali presso la Fondazione di famiglia grazie a questa fondamentale entratura Kissinger iniziò le sue attività di collaborazione con varie amministrazioni presidenziali mai interrotte nonostante il mutare del colore politico Eisenhower Kennedy Johnson tutti questi si avvalsero dei suoi servigi. Persona stimata dai potenti al comando, a prescindere dallo schieramento, che trova riscontro nel fatto che difficilmente Kissinger non ha mosso una vera critica ai governanti; forse Eisenhower fu l’ultimo presidente criticato da Kissinger. Da consigliere politico delle amministrazioni Nixon e Ford ha plasmato la politica estera statunitense in anni chiave della guerra fredda. Se la sua storia personale si intreccia con i grandi eventi storici della politica internazionale ci fa comprendere l’influenza della sua personalità. A Kissinger si deve la fine della guerra in Vietnam, che gli valse un Nobel per la pace, con una serie di visite tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese che presero il nome di diplomazia del ping pong. Il Nobel per la pace, attribuito anche al suo omologo vietnamita, resta però un riconoscimento alquanto anomalo perché il suo nome è legato agli stessi bombardamenti Vietnam, senza dimenticare quelli in Cambogia e Laos, oltre che al sostegno al colpo di Stato in Cile che destituì il presidente cileno Salvador Allende che portò al potere generale Augusto Pinochet. Il suo nome si lega anche alla regia dell'implacabile operazione condor che segnò la storia dell’America Latina e delle sue dittature militari. Una volta che fu lui ad aprire la strada al viaggio del febbraio 72 di Nixon in Cina, attraverso i suoi precedenti viaggi segreti, Kissinger è diventato una sorta di interlocutore privilegiato della Repubblica popolare cinese e simboleggia l'idea che Cina e Stati Uniti sono due grandi potenze che si devono sostanzialmente devono condividere gli oneri dell'egemonia e della governance globale e devono farlo attraverso un rapporto di e più paritetico ma anche cooperativo. In qualche modo, potremmo dire che Kissinger fu il primo americano a riconoscere la potenza della Cina, simboleggiando il rispetto dell’Occidente verso la Cina. Lo scandalo che fece vacillare Kissinger fu il Watergate, ma a cadere fu solo Nixon, che ancora una volta rimase al suo posto, affiancando il governo Ford, l’ultimo suo incarico ufficiale, salvo poi comunque mantenere la sua influenza nello scenario politico internazionale.
Nel 2022, nelle sue uscite pubbliche, in occasione del World Economic Forum di Davos in Svizzera, ma anche al FTWeekend Festival di Washington e alla Strategic Investment Conference, Kissinger ha espresso tre consigli sull’attualità: il primo è che la guerra in Ucraina non deve diventare una guerra alla Russia per il bene del globo altrimenti rischiamo di scivolare in uno scontro, per cui l’Ucraina avrebbe dovuto cedere parte del territorio alla Russia per raggiungere un trattato di pace. Il secondo punto riguarda l’altra faccia del conflitto, Mosca, la quale non va isolata ma reintegrata in un futuro sistema europeo per non relegarla a Pechino. La terza considerazione non può che essere sulla Cina, con la quale secondo lui va cercata un'intesa senza fare di Taiwan la questione principale, altrimenti sarà guerra e devastazione per l'umanità. In questi tre punti emerge l'impostazione di Kissinger fondata sulla «realpolitik» che gli attirò come sempre molte critiche, come quelle dell’analista geopolitico George Friedman.
Kissinger non è portatore di un pensiero unico prevalente. Consigliere per la sicurezza nazionale (1969-75) e Segretario di Stato (1973-77), durante le amministrazioni repubblicane di Richard Nixon e Gerald Ford, Kissinger si è imposto, nel tempo, come il principale esponente della realpolitik americana, cioè di una politica il cui fine è la tutela degli interessi della grandi potenze, quella che il corriere definisce cioè quel realismo che combina la capacità di comprendere gli interessi in gioco, la rapidità nel decidere e un certo cinismo nel sacrificare principi e persone, nel nome di un risultato auspicabile.
Pechino lo ha ricordato definendolo “un vecchio amico del popolo cinese”. Gli elogi nel ricordarlo sono stati tanti sia mondo politico che dalla stampa, d’altronde sono i potenti a scrivere la storia. Il Washington Post ha scritto che Kissinger «plasmato la storia», il Fatto Quotidiano le ha esaltato: «Ce ne fossero oggi di politici della stazza di Kissinger». L’Ansa l’ha definito «Il Machiavelli d’America», forse perché per Kissinger contava solo in fine: infatti, per lui i mezzi erano tutti quelli che sarebbero stati necessari per raggiungere l’obiettivo. D’altronde, ha fatto espandere la guerra al Vietnam in Cambogia e al Laos, dove gli Stati Uniti hanno fatto piovere più bombe di quante ne abbiano sganciate sulla Germania e sul Giappone nella Seconda guerra mondiale. La Cbs ha avuto un approccio più freddo ricordandolo con la definizione di «politico controverso». Ancora più preciso è stato il docente Gary J. Bass in un articolo su The Atlantic: «Nonostante tutti gli elogi delle intuizioni di Kissinger sugli affari globali e il suo ruolo nello stabilire relazioni con la Cina comunista, bisogna ricordare la sua insensibilità nei confronti delle persone più indifese del mondo. Quanti dei suoi elogi funebri si cimenteranno con il suo record completo in Vietnam, Cambogia, Laos, Bangladesh, Cile, Argentina, Timor Est, Cipro e altrove?»
Ben Rhodes, sul New York Times ha scritto un articolo dal titolo: «Henry Kissinger, l’ipocrita».
Dalla penna di Rhodes possiamo leggere: «La sua è stata una politica estera innamorata dell’esercizio del potere e svuotata di preoccupazione per gli esseri umani». Continua Rodhes: «La storia è scritta da uomini come Henry Kissinger, non dalle vittime delle campagne di bombardamenti delle superpotenze, compresi i bambini in Laos, che continuano ad essere uccisi dalle bombe inesplose che sporcano il loro Paese».
di Daniele Leonardi
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Creato Venerdì, 01 Dicembre 2023 15:47
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Ultima modifica il Venerdì, 22 Marzo 2024 14:48
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Pubblicato Venerdì, 01 Dicembre 2023 15:47
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L’opinione pubblica riveste un ruolo importante in tutte le guerre, ma si è dimostrata un vero e proprio fronte di guerra in Medio Oriente, più che in ogni altro conflitto. Entrambe le fazioni hanno dimostrato di tenere in grande considerazione il ruolo dei media e il suo potere di condizionamento del popolo, dando vita ad una guerra dell'informazione, in cui i due schieramenti impongono una personale narrazione del conflitto. Gli occhi del mondo sono un vantaggio strategico e un mezzo di finanziamento e di pressione. Per volere di Israele ed Egitto, dal 7 ottobre la Striscia di Gaza è inaccessibile alla stampa estera. Per testimoniare la guerra è rimasta la sola rete del Qatar Al Jazeera e pochi altri corrispondenti. La rete satellitare Al Jazeera è seguita da decine di milioni di telespettatori del mondo arabo, grazie ai finanziamenti del governo del Qatar. I corrispondenti a Gaza sono abitanti del posto e affrontano gli stessi problemi della popolazione palestinese: procurarsi cibo, acqua e stare al sicuro. Nessuna protezione speciale, poiché Israele ha dichiarato di non poterla garantire. I giornalisti rappresentano uno degli obiettivi di questa guerra.
Le due parti non vedono la stessa guerra. Le immagini delle tv israeliane mostrano poco le vittime civili, e per oscurare i massacri del kibbutz, le autorità israeliane hanno creato un proprio filmato di 45 minuti proiettato ai giornalisti della stampa estera accreditati. D’altronde, se non hai immagini di un evento, nessuno ha memoria di quel conflitto, poiché sono le immagini che creano una memoria collettiva.
Meta è stata attaccata di censura per aver oscurato dei post, ma ha dichiarato che ci sono stati alcuni cambiamenti nella moderazione per proteggere gli ostaggi: l'intelligenza artificiale rimuove quelle immagini che identificano gli ostaggi presi da Hamas per proteggere la privacy e la sicurezza di quegli ostaggi. Quindi, non importa se tu condividi quel video per condannare Hamas: la macchina non fa differenza. Meta ha classificato Hamas come un'organizzazione pericolosa, e i contenuti che contengono riferimenti alle organizzazioni pericolose hanno maggiori limitazioni. Meta ha inoltre annunciato di aver creato un team speciale di persone che parlano in ebraico e arabo per monitorare i contenuti. A causa dell’alto numero di contenuti segnalati riguardanti il conflitto, anche contenuti che non violano le linee guida potrebbero essere rimossi per errore. I social hanno reso più complesso il ruolo della Stampa, rendendo inutile il ruolo del giornalismo nel suo mestiere di dare le immagini, ma al contempo ha reso indispensabile l’esistenza del giornalismo, come unico garante della funzione di filtro e paladino della verità. I social non solo non riescono a farlo, ma forse nemmeno vogliono: Elon Musk, appena acquisito Twitter, ha smantellato la divisione che si occupava della di controllare la disinformazione all'interno della piattaforma. D’altronde, è l’unica cosa che conta per i social è la viralità (e non la veridicità) del contenuto. Twitter sta cambiando il suo feed in modo da privilegiare l'engagement dei contenuti rispetto all'affidabilità, contenuti che creano un ambiente favorevole alla disinformazione. i contenuti fake puntano alla viralità, e per farlo devono coinvolgere ed influenzare, quindi sono indirizzati alle nostre emozioni: in particolare all’indignazione. Il ruolo che Twitter ha avuto nelle precedenti guerre, cioè quello di una piattaforma per restare aggiornati, è stato rimpiazzato quasi da TikTok, in cui si va non tanto per comprendere le ragioni di un conflitto ma per vedere il materiale senza filtri, nudo e crudo, di cosa sta accadendo in tempo reale. Come scrive Vox in un suo articolo, mentre Twitter si affidava agli esperti che raccontavano il conflitto, su TikTok dominano i “news creator”, cioè una nuova figura di creator conquistano dei fan con la promessa di indipendenza dai giornali mainstream. Per valutare l’affidabilità dei contenuti, l’esperto di alfabetizzazione digitale Mike Caulfied, ha elaborato un metodo che prende il nome di “SIFT”, e si basa su una serie di check da fare:
- Stop, fermati e sii consapevole della tua risposta emotiva al titolo o alle informazioni contenute nell’articolo;
- Investigated resource (indaga sulla fonte), cerca la fonte o l’autore;
- Find Better Coverage (trova una copertura migliore), vedi se riesci a trovare altre fonti che confermino la notizia;
- Trace Claims, Quotes, and Media to their Original Context (rintraccia affermazioni, citazioni e media nel loro contesto originale), risali la catena della notizia, individua la fonte originale a cui fa riferimento e si ispira l’articolo.
L’attenzione è la valuta principale dell’era digitale, motivo per cui ognuno di noi oggi deve essere questi passaggi per proteggere sé stesso.
di Daniele Leonardi
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Creato Martedì, 28 Novembre 2023 15:43
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Ultima modifica il Venerdì, 22 Marzo 2024 14:44
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Pubblicato Mercoledì, 29 Novembre 2023 15:43
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La guerra ai tempi dei social si combatte anche con gli influencer. Per questo Israele sta reclutando i blogger più importanti del Paese "a beneficio della difesa israeliana in tutto il mondo".
Ha spiegato il ministro degli Esteri d’Israele, Eli Cohen: “I social network e l'influenza sull'opinione pubblica internazionale sono fondamentali durante la guerra, al fine di mobilitare il sostegno internazionale". Gli influencer “sono veri patrioti che agiscono per amore della patria e si prendono cura di tutti i cittadini di Israele”, ha aggiunto il ministro.
La maggiore delle sorelle Kardashian, Kim, ha origini armene e si è schierata in difesa degli ebrei, pubblicando sulla sua pagina Instagram un lungo post, nel quale ha espresso solidarietà ai civili, definendosi “particolarmente sensibile a questi temi perché sono anni che parlo del genocidio armeno". Kylie Jenner, la più piccola delle sorelle Kardashian, nonché la donna più seguita sui social al mondo con oltre 400 milioni di follower, ha scritto: "Ora e sempre stiamo con il popolo d'Israele", condividendo l'immagine della bandiera israeliana, perdendo un milione di seguaci.
Gigi Hadid, modella statunitense con origini palestinesi, ha condiviso nelle storie del suo account Instagram un post di una pagina, che commentava la guerra in Israele con una nota di un esperto in materia internazionale. A riprendere la storia della modella statunitense è stato l’account ufficiale dello Stato di Israele.
I contenuti relativi alla guerra hanno ottenuto un engagement rate medio più elevato rispetto a quelli legati ad altri argomenti. Da una ricerca realizzata da Intwig per l’associazione Parole OStili in occasione del Festival della comunicazione Non Ostile, emerge che solo il 25% degli influencer italiani su Instagram e solo il 14% di quelli di TikTok ha mostrato attenzione verso il conflitto.
I media hanno creato una polarizzazione del conflitto, poiché lo scontro genera audience, semplificando la questione ad uno schieramento in due fazioni, tra chi è a favore dell’invio di armi e chi è contro, finendo per essere etichettati come filoeuropei o filorussi. Allo stesso modo, alcune tra le più famose influencer internazionali hanno perso milioni di follower per aver preso posizione sulla guerra in Israele. Secondo Rosy Russo, presidente e founder di Parole OStili, “scegliere di non affrontare un tema tanto attuale quanto importante porta con sé una serie di valutazioni dalla doppia faccia: se da un lato i creator sono consapevoli che un conflitto militare non è un tema su cui hanno competenza, dall’altro viene meno il loro ruolo di intermediari, utile per rendere questi temi più vicini alla sensibilità di tutti”. In un'intervista rilasciata durante un incontro alla sede della Obama Foundation nel 2019, l’ex presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che quello sui social non può essere definito attivismo, poiché si tratta solo di urlare un’indignazione, di scagliare una pietra contro l’altro, ma l’attivismo è quello capace di produrre un cambiamento, di tendere la mano verso l’altro. L’imperativo dei media è quello di abbassare la complessità del tema, lo spiega bene Concita De Gregorio su Repubblica: “C’è il non riconoscersi nel pensiero binario, nella coscrizione obbligatoria, c’è la difficoltà dell’obbedire all’imperativo di abbassare il livello e abbattere la complessità, eliminare il dubbio”. Semplificare le questioni è solo un’illusione. Una società caratterizzata dalla velocità e dalla riduzione di tutto a pochi minuti, a pochi caratteri, ad una sintesi estrema che favorisce la disinformazione. La complessità è un valore che non lo si ottiene chiudendosi all’interno di uno schieramento, cedendo alla narrazione polarizzata dei dibattiti, ma aprendo il proprio orizzonte al diverso. L’azzeramento del diverso, invece, è un fine perseguito nei conflitti, come nel caso di Israele, il cui parlamento ha approvato una misura che vieta il consumo sistematico e continuativo di pubblicazioni di Hamas, anche se si tratta di contenuti terzi, con una pena di un anno di carcere. Ne ha fatto le spese Yasmine, una donna palestinese arrestata per aver cambiato il suo status WhatsApp con la dicitura” possa Dio dargli la vittoria e proteggerli”, che le forze israeliane hanno interpretato come sostegno ad Hamas, anche se la donna ha dichiarato non essere rivolto a loro. Siamo ben lontani all’incitamento al terrorismo, come nel caso di Bian Kateb, uno studente di tecnologia che ha postato la foto di un piatto marocchino con la dicitura “presto mangeremo il piatto della vittoria”. Un disegno di legge che reprime il libero pensiero e porta ad una pulizia del pensiero morale, non degna di una democrazia, quale Israele dichiara ancora di essere. Ogni parola è filtrata secondo il frame della polarizzazione, dimenticandosi delle sfumature, della verità, della complessità, dell’opinione neutra. Come dire che, da una parte qualcuno è morto, ma dall’altra qualcuno è stato ucciso. I media hanno il dovere di non semplificare tutto ad una visione semplicistica, perché sebbene a Gaza ci siano i terroristi di Hamas, non può essere vero anche il contrario, cioè che tutti coloro che vivono nella striscia di Gaza siano terroristi.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 20 Novembre 2023 15:39
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Ultima modifica il Venerdì, 22 Marzo 2024 14:40
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Pubblicato Lunedì, 20 Novembre 2023 15:39
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L'esercito israeliano è considerato la forza armata più avanzata nella comunicazione online, tanto da diventare un caso studio a cui si sono ispirati tutte le altre formazioni militari. Nel 2010 Il Ministero degli Affari Esteri dello Stato di Israele ha investito 15 milioni di dollari nella strategia di comunicazione social dell'esercito, cifra che all'epoca rappresentava un grande investimento. Il risultato ha prodotto una macchina da guerra social che oggi è presente su più di dieci piattaforme e in quattro diverse lingue. Si contano 3,7 milioni di followers su Facebook e oltre due milioni di seguaci su Twitter. 450.000 iscritti su YouTube e oltre un milione di follower su Instagram. Charlie Garnett ha analizzato per due mesi la presenza su Twitter dell'esercito trovando quattro pillar di comunicazione:
- I soldati sono mostrati duri da difendere sé stessi e gli israeliani, ma con un cuore tenero.
- La maggior parte dei video dell'esercito israeliano insiste sulla diversità di genere dell'esercito stesso: tante ragazze in divisa vengono ritratte davanti a degli sfondi romantici, come un tramonto.
- Prima degli ultimi eventi (cioè quando venne analizzato la strategia di comunicazione dell’esercito da Garnett) la Palestina non era molto citata.
- Il frame della minaccia.
Creare contenuti molto condivisibili per aiutare l'esercito israeliano ad ottener simpatie durante i periodi di pace, cosicché nei tempi di guerra, Israele potrà contare dell’appoggio della rete. Dall’altra parte c’è Hamas, che con l’attacco del 7 ottobre, sembrava voler far cadere Israele in una trappola: sotto la pressione dell’opinione pubblica, Netanyahu non poteva far altro che provocare un’escalation bellica. Tuttavia, nei piani di Hamas, questa risposta poteva avere lo scopo di cambiare l’immagine che avevano gli alleati di Israele. Costruendo bunker sotto gli ospedali, e provocando una risposta su una popolazione civile, avrebbe provocato l’indignazione degli occidentali. Proprio perché Netanyahu gode dell’appoggio di gran parte del mondo occidentale, Hamas aveva bisogno di cambiare la reputation di Israele. La comunicazione di Hamas si basa sulla manipolazione delle persone tramite la paura: una strategia spesso adottata da gruppi terroristici, consistente in video di terrore trasmessi quasi in tempo reale. La comunicazione in streaming di quanto avviene sul campo di battaglia è parte integrante della strategia di attacco. Hamas fa leva sulla paura psicologica sfruttando l'avanzata tecnologia di Israele, trasformando questo grande punto di forza di Israele in un punto di debolezza. Uno degli Stati con più connessione al mondo, con un uso intensivo di smartphone e social, avrebbe sicuramente visto le immagini che arrivano dalle GoPro dei soldati, e ne sarebbe stata influenzata. Clip video dei soldati rigorosamente in verticale, postate su X e Telegram, dato che le altre grandi piattaforme di social network in passato avevano eliminato in modo repentino queste tipologie di video. La questione fondamentale da comprendere è l'obiettivo alla base di questa strategia, cioè il terrore. Se teniamo bene a mente questo, riusciamo a comprendere anche il perché questi video sono diventati virali anche se fake. Infatti, se questi video siano veri oppure no, non è questione così importante. L’importante è influenzare gli utenti. Molti filmati riportavano immagini di altre guerre, tentando di giustificare il loro operato con attacchi subiti che in realtà non erano veri. Se un video è fatto apposta per provocarci indignazione, è molto probabile sia fake. Ma questo non conta, perché ha già provocato una nostra reazione.
Sono dinamiche della guerra moderna che vanno oltre il conflitto israelo-palestinese e non riguardano uno solo degli schieramenti: tutte le parti in causa utilizzano le immagini per raccontare il proprio punto di vista, giustificare le loro azioni, guadagnarsi l'appoggio dell'opinione pubblica mondiale e di un sistema di alleanze; il web, le immagini, le strategie di comunicazione, giocano un ruolo fondamentale nelle dinamiche di un conflitto. Basti pensare che fino a poco anni fa la guerra era sempre stata raccontata da persone terze: durante la Prima guerra mondiale un soldato in possesso di una macchina fotografica poteva finire a giudizio dalla Corte marziale. Oggi la situazione è completamente rovesciata: se spostiamo lo sguardo anche al conflitto in Ucraina, le truppe sono state incoraggiate a pubblicare i contenuti; allo stesso modo i soldati di Hamas indossano una GoPro sui caschi, come parte integranti del loro equipaggiamento. La guerra si combatte non solo a suon di bombe e munizioni, ma anche con immagini e indignazione.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 11 Novembre 2023 17:21
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Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:22
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Pubblicato Sabato, 11 Novembre 2023 17:21
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La Striscia di Gaza è governata da Hamas, un’organizzazione islamista con un’ala miliziana la cui missione è opporsi all’occupazione israeliana dei palestinesi. È un’organizzazione politica salita al potere dopo le elezioni del 2006, che non ha più molto consenso, ma che compensa questa mancanza con la preparazione militare della sua milizia. Tutti i partiti politici in Palestina hanno una milizia, ma quella di Hamas è la più addestrata. Il 7 ottobre il Hamas ha fatto partire un attacco terroristico in grado di abbattere il muro di confine che circonda la striscia di Gaza, uccidendo 1400 israeliani, riuscendo a fare prigionieri 229 ostaggi. Si tratta del più grande attacco mai portato avanti dal gruppo di Hamas, che ha avuto come conseguenza l’inevitabile contrattacco di Israele nella striscia di Gaza. La storia ci insegna che combattere il terrore con la stessa moneta non è mai stata la soluzione, ma il governo di Netanyahu, forse anche condizionato dalla pressione dell’opinione pubblica, ha deciso di porre fine all’esistenza di Hamas, provocando una guerra senza esclusione di colpi. Rispondere con l’orrore significa scendere allo stesso livello di un gruppo terroristico, pur sapendo che un gruppo terroristico non deve giustificare le sue azioni mentre uno Stato democratico e un membro della Nato deve farlo, anche agli occhi degli alleati che rischia di allontanare con l’indignazione del mondo occidentale. In un mese sono morti lo stesso numero di civili che sono morti in due anni di guerra in Ucraina. Biden nel suo intervento ha ricordato gli errori degli Stati Uniti in risposta all’attacco delle torri Gemelli, esortando il governo israeliano a stare molto attento ad entrare in un conflitto di cui non si ha l’idea di cosa ne sarà a guerra conclusa. Israele invita i palestinesi all’evacuazione verso sud poiché la Striscia di Gaza continuerà ad essere oggetto di bombardamenti, ma la popolazione non può superare i confini meridionali, dato che l’Egitto ha ribadito che non farà entrare nessuno. L’unico passaggio per arrivare in Egitto è il check point di Rafah, uno dei sei presenti nella striscia di Gaza, l’unico a Sud. I check point sono gli unici punti di accesso per far transitare gli aiuti umanitari, poiché la Striscia di Gaza è circondata da barriere e recinzioni. La Striscia di Gaza è una delle zone più densamente abitate al mondo, con una popolazione complessiva di 2,2 milioni di abitanti; attorno all'area urbana di Gaza City vivono circa 650.000 persone. Se si contano anche i rifugiati palestinesi nei due campi profughi nei pressi della città, la popolazione complessiva sale a 1,8 milioni per una densità di 8000 abitanti per chilometro quadrato. Se Israele invadesse la striscia troverebbe davanti a sé un territorio troppo urbanizzato, pieno di macerie, condizioni che renderebbero difficile l’avanzata via terra. I massicci bombardamenti israeliani ad oggi hanno raso al suolo la metà degli edifici di Gaza city, riducendo gli abitanti a vivere senza energia elettrica, acqua e cibo. La striscia di Gaza è una prigione a cielo aperto in cui si muore di fame. L’evento che ha fatto di nuovo precipitare il conflitto nell’attacco del 7 ottobre non è chiaro, ma il recente avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita ha fatto la sua parte. Infatti, la Palestina è appoggiata dai Paesi arabi a maggioranza musulmana, alcuni in maniera netta (Iran, Libano, Qatar), altri in maniera più velata, criticando le politiche di Israele, pur mantenendo dei rapporti con esso. È il caso dell’Egitto e della Giordania, ma più recentemente anche di Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan. L’Iran, che lotta con Israele per l’egemonia nel Medio Oriente, finanzia gruppi di milizie e governi anti-Israele in tutta la regione. Questo sostegno attraverso armi e denaro ha creato un fronte chiamato “asse della resistenza”. Un’asse che si oppone non solo ad Israele, ma anche al suo più grande alleato: gli Stati Uniti. In questo asse della resistenza rientrano sia il gruppo di Hamas che il gruppo di milizie di Hezbollah, che attacca il confine settentrionale di Israele con il Libano. Questa escalation potrebbe sfociare quindi in una guerra su due fronti, che potrebbero diventare addirittura tre con le tensioni in Cisgiordania, in cui vi è l’occupazione di Israele. Quindi, se Israele invaderà la Striscia di Gaza con un attacco massiccio dovrà tenere a mente l'ipotetica risposta libanese dal confine nord. Tuttavia, l’escalation di una guerra su vasta scala non conviene a nessuno, tantomeno all’Iran: infatti, quando le truppe israeliane hanno invaso Gaza, Hezbollah non ha risposto con un’avanzata da nord perché non ha alcun interesse di attaccare il Libano e coinvolgerlo in una guerra. La situazione però resta delicata, con l’urgenza di trovare al più presto una tregua.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 04 Novembre 2023 17:18
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Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:19
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Pubblicato Sabato, 04 Novembre 2023 17:19
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Lo scorso aprile la Russia ha presieduto la presidenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ad ognuno dei 15 Paesi che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, infatti, tocca presiedere il Consiglio per un mese, secondo una normale turnazione alfabetica.
Sebbene il presidente del Consiglio che presiede le riunioni abbia poca capacità di influenza sullo stesso, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato di un "fallimento dell'istituzione", mentre il suo ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha parlato di "schiaffo in faccia alla comunità internazionale". Oltre al danno la beffa: l'ultima volta che la Russia ha avuto la presidenza è stato proprio a febbraio 2022, mese in cui ha lanciato l'invasione dell’Ucraina.
L'Assemblea Generale dell'ONU si è riunita il 2 marzo 2022 per votare la risoluzione di condanna dell'invasione russa dell'Ucraina. I voti a favore della risoluzione sono stati 141; quelli contrari sono stati solo 5: Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord e Siria. Gli astenuti sono stati 35, tra cui i Paesi BRICS.
I sostenitori dell'Ucraina vorrebbero l’espulsione della Russia dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ma affinché ciò accadesse, sarebbe necessario un voto del Consiglio di sicurezza e quindi anche della Russia, la quale mantiene il diritto veto. Infatti, secondo l’articolo 27 dello statuto, per approvare tutte le questioni che non siano procedurali (questioni relative alla pace alla risoluzione dei conflitti e a sanzioni e persino all'ingresso di paesi dell’ONU) occorrono 9 voti minimi favorevoli, i quali devono includere il favore di tutti e 5 i membri permanenti.
Quindi il voto contrario di uno di loro diventa implicitamente una sorta di veto. I cinque membri permanenti dell’ONU sono Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina, cioè i cinque vincitori della Seconda guerra mondiale. L’articolo 27 consacra la superiorità di alcuni Stati su tutti gli altri; solo ai cinque membri permanenti spetta stabilire cosa sia una minaccia per la pace, un'aggressione o un atto di conquista. Nello specifico, nell'articolo 27 dello Statuto sono stabilite due diverse maggioranze a seconda dei due tipi di questioni da sottoporre al voto del Consiglio: le questioni procedurali, cioè quelle formali che stabiliscono lo svolgimento della seduta che richiedono il voto favorevole di almeno nove membri tra permanenti e non permanenti; poi ci sono le decisioni su ogni altra questione che richiedono sempre una maggioranza di nove voti, ma che comprenda i voti dei cinque membri permanenti. Il parere contrario di uno dei cinque non può bloccare la deliberazione sul nascere come permetterebbe un vero diritto di veto, ma può comunque annullarla in fase di voto. i membri non permanenti godono però di un simile potere, il cosiddetto veto di blocco, per cui anche se i cinque membri permanenti votano favorevolmente mancherebbero comunque ancora quattro voti per raggiungere la maggioranza di nove, e si eserciterebbe se il fronte di non permanenti si schierasse compatto per un voto contrario.
Questo diritto di veto svolgerebbe una funzione di prevenzione per impedire che scoppi un conflitto tra i cinque membri permanenti. Eppure, il veto non è servito ad evitare crisi internazionali, anzi: è stato utilizzato per ostacolare la designazione dei segretari generali o per impedire l'ingresso di alcuni Stati nell’ONU. È stato il caso della Repubblica Popolare Cinese, che ricorse al veto per impedire l'ingresso del Bangladesh e di altri Paesi che riconoscevano Taiwan. Un consiglio così strutturato è impossibilitato a prendere provvedimenti in caso di conflitti di dimensioni globali perché in questi conflitti c'è sempre il coinvolgimento di almeno uno dei cinque membri permanenti. L’unico modo sarebbe la sospensione di un Paese dall’Onu, ma bisognerebbe passare dal voto del paese stesso. La Russia mise il proprio veto alla risoluzione che voleva aprire un'indagine sull'incidente della Malaysia Airlines nel Donbass, così come non passò la condanna per l'annessione della Crimea, così come non passarono nel 2011 nel 2012 le risoluzioni contro il regime di Assad in Siria, e ancora prima il veto degli Stati Uniti aveva respinto il riconoscimento del genocidio in Ruanda.
"La verità è che se uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza è coinvolto in un conflitto armato non c'è nulla che il Consiglio di sicurezza possa fare per fermarlo, perché quello Stato eserciterà il proprio veto come la Russia sta facendo ora sull'Ucraina, come potrebbe fare la Cina su Taiwan e gli americani sull'Afghanistan e l'Iraq", ha dichiarato Andrew Macleod del King's College London's Department of War Studies.
Oggi aderiscono all’ONU 193 Paesi che avrebbero bisogno di un Consiglio di sicurezza più rappresentativo della popolazione mondiale; per farlo occorrerebbe aumentare la rappresentanza africana e dell’America latina, estendere il seggio permanente a Brasile, India e Germania oppure trasformare il seggio francese in un maxi-seggio dell’Unione Europea. Questi difetti di struttura determinano il mal funzionamento della macchina, una struttura che forse aveva senso nel dopoguerra ma che non rispecchia più gli equilibri geopolitici attuali, diventando un organismo sempre meno influente e di fatto sostituto nei suoi compiti dalla Nato. Tuttavia, l’Onu ha ancora un ruolo importante nei servizi di assistenza umanitaria ai profughi, come dimostrato anche a Gaza o attraverso l’UNIFIL (la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite. Il problema è che ha perso il grande ruolo per cui è nata, quello di mediazione la politica internazionale.
di Daniele Leonardi
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Creato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:23
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Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:24
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Pubblicato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:23
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Nell’ultimo decennio, la spesa per le armi nei Paesi NATO della UE è cresciuta quattordici volte più del loro Pil complessivo. In Italia la spesa per i nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi. Gli Stati Uniti sono passati da 320 miliardi nel 2000 a 754 miliardi nel 2022, una cifra che rappresenta il 10% del budget federale. Questo business attualmente è quasi esclusivamente generato da cinque grandi aziende americane: Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Beoing, Northrop Grumman e General Dynamics. Il resto delle posizioni della top ten è occupato da industrie cinesi, fatta eccezione per la BAE Systems britannica. Il primo produttore di armi dell’UE è italiana, la Leonardo. La Turchia è stato il primo Paese destinatario delle esportazioni di armi italiane nel periodo 2010-2020. A seguire, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Gli Stati Uniti, invece, sono il principale fornitore di Israele.
Più di un terzo delle armi globali vendute in tutto il mondo negli ultimi cinque anni è di provenienza U. S. e circa la metà di queste armi sono vendute in Medio Oriente, il quale negli ultimi anni si è dimostrato il principale acquirente di armi a livello globale. In particolare, l’Arabia Saudita ha il primato di essere il più grande importatore di armi al mondo. Anche il Qatar si è fiondato sugli armamenti registrando un +360% nel quadriennio che va dal 2016 al 2020. Tuttavia, sul podio degli importatori dietro i sauditi non c'è il Qatar, ma ci sono India ed Egitto, il quale ha registrato nello stesso periodo un incremento del 136%. Mentre l'Egitto ha acquistato sempre meno armi dagli Stati Uniti in favore di Russia e Francia, oltre che essere il principale acquirente italiano, i sauditi nel 2017 hanno firmato un accordo sotto la Presidenza Trump per una commessa di armi dell'ammontare immediato di 110 miliardi di dollari e l'impegno a pagarne altri 350 nei successivi dieci anni. Con queste armi i sauditi stanno conducendo una guerra interminabile in Yemen, dove secondo l’agenzia di stampa francese AFP alla fine del 2021 si sarebbero contati quasi 380.000 morti. Dall'altro fronte del conflitto in Yemen c'è l'Iran che arma invece gli Houthi. A testimoniarlo sono i quasi 1500 AK47 e 220.000 munizioni che sono state rinvenute in una nave cargo partita dall’Iran e diretta verso lo Yemen.
La Russia vanta il secondo posto in termini di vendita di armi a livello globale. A partire dal 2000, cioè dal primo mandato di Putin, il governo russo ha avviato un programma per rinnovare gli armamenti di fattura sovietica. Dal 2016 l’esportazione russa di armi rappresenta circa il 20% delle vendite globali di armamenti. In particolare, gli aerei costituiscono il 50% delle esportazioni. In risposta alle sanzioni occidentali risalenti al 2014, il governo russo ha istituito un massiccio programma di sostituzione delle importazioni per ridurre la sua dipendenza da armi estere. Dal 2016 l’India è il principale importatore di armi russe. Le sue esportazioni sono diminuite del 22% tra il 2016 e il 2020, ma ciò è dovuto principalmente a una riduzione del 53% delle vendite all’India. Allo stesso tempo, ha notevolmente migliorato le sue vendite in paesi come Cina, Algeria ed Egitto.
L’economia di guerra non riguarda solo la compravendita di armi: nel 2003 la Halliburton, multinazionale del settore petrolifero, avrebbe guadagnato quasi 40 miliardi di dollari soltanto dai contratti federali legati al conflitto. Come rinvenuto da un'inchiesta del Congressional Research Service, oltre 400.000 azioni della Halliburton erano già nelle tasche del vicepresidente americano Dick Cheney al momento della guerra. La Halliburton non fu un caso isolato, ma rappresenta un nuovo modo di fare business in guerra. Le compagnie militari private arricchiscono questo quadro: ha preso la scena delle cronache internazionali il gruppo Wagner che ha i suoi interessi in Africa. Le privatizzazioni dei gruppi militari sono molto in uso negli Stati Uniti: una delle più famose è l’Accademy. Aziende come la Blackwater sono esplose a partire dal 2001. Il dipartimento di Stato americano ha fatto sempre più affidamento a servizi offerti da queste realtà. Un'inchiesta di Time ha evidenziato che il magnate e fondatore della Blackwater, Erik Prince, con finanziamenti CIA, avrebbe avuto colloqui privati con Andriy Yermak, capo di gabinetto del presidente Zelensky. Secondo l’inchiesta, la Blackwater starebbe progettando la creazione di un esercito privato in collaborazione con la compagnia Lancaster 6 e l’intelligenza ucraina, da affiancare ad altri battaglioni. Poi c’è la questione del traffico di armi illegali, con il rischio di far arrivare queste armi nelle mani delle organizzazioni criminali. L’Ucraina, infatti, è un Paese con importanti problemi di corruzione. Di conseguenza, c’è il timore che dopo la guerra una parte delle armi, alcune molto avanzate, inviate al Paese finiscano nel mercato nero.
L’economia di guerra però non è caratterizzata solo dalla vendita di armamenti: a guadagnare più di tutti dalla guerra in Ucraina sono state le compagnie energetiche. Sfruttando l’aumento dei prezzi degli idrocarburi, e quindi dell’energia in generale, diverse realtà del settore hanno potuto realizzare nel 2022 gli utili più alti della loro storia. Secondo uno studio di Greenpeace, i dieci più grandi fondi speculativi al mondo ci avrebbero ricavato quasi due miliardi di dollari.
In un contesto di emergenza, molte sono le speculazioni che provocano maggiori incassi nel breve termine, dal settore energetico a quello alimentare, ed in particolare dei cereali, ma nel lungo termine sono proprio le aziende di armi che dovrebbero trovare i maggiori profitti. Inoltre, se scoppiassero altre guerre, la domanda di armi potrebbe superare l’offerta.
di Daniele Leonardi
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Creato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:16
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Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:17
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Pubblicato Giovedì, 26 Ottobre 2023 17:16
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La Russia ha messo in atto un’opera di deportazione di bambini ucraini in Crimea, iniziata già prima dell'invasione del 2022: migliaia di bambini inviati nei campi estivi in Crimea, trattenuti il tempo sufficiente per essere affidati ad una famiglia russa. Infatti, vi è una normativa russa per cui se un bambino resta senza genitori per almeno sei mesi può essere dato in affidamento ad un'altra famiglia. Un’opera di importazione di bambini avente lo scopo di eliminare una generazione di giovani ucraini trasformandoli in nuovi russi. I soldati russi hanno fatto irruzione nelle case, aiutati dalle segnalazioni di ucraini filorussi. Orfanotrofi svuotati a Donetsk e Lungansk. Lo testimonia il direttore dell’orfanotrofio di Kherson ha messo in salvo più di 50 bambini. Un tentativo di cancellare il futuro all’Ucraina. Per recuperare i propri figli, ai genitori ucraini non restava che la possibilità di andarli a prendere di persona in Crimea, ma questo spesso non avveniva per i difficili costi da sostenere per il viaggio, oltre che per le difficoltà legate ai bombardamenti. In soccorso dei genitori si è mossa Save Ukraine, l'associazione non governativa che dall'inizio della guerra si occupa di dare una mano agli ucraini che sono dovuti scappare dalle zone occupate dai russi.
Nei confronti di Putin e della Commissaria per i diritti dei bambini per la Federazione Russa, Maria Lvova-Belova, pende un mandato di arresto del tribunale internazionale dell’Aja per la deportazione e il trasferimento illegale di bambini ucraini in Russia. Il presidente russo e la Commissaria Maria Alekseyevna Lvova-Belova non potranno mettere piede nei 123 Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma. Tra i Paesi che non hanno firmato il Trattato c’è la Russia, mentre gli Stati Uniti non l’hanno ratificato. L’accusa nasce dal lavoro fatto da Save Ukraine, la quale ha inviato una lista di 19.000 bambini deportati in Russia, ma tanti altri non stati identificati. Un mese prima dell'invasione russa, dalle stime di Save Ukraine, quasi 60.000 bambini sono stati portati via dal Donbass e nessuno sa dove siano adesso. L’Organizzazione, che si occupa di cercare e trovare i minori deportati in Russia per riportarli indietro, ha salvato 128 bambini, ma sono un milione e mezzo i bambini che sono finiti sia nei territori occupati dell'Ucraina sia nella Federazione Russa. Questi bambini oggi sono sotto il dominio dell'occupante e la politica della Russia è quella di eliminare la loro identità Ucraina. In Ucraina c'è un grosso calo demografico, a cui si aggiunge il fatto che milioni di donne e bambini sono scappati all'estero e non si sa se faranno ritorno. L’Ucraina ha perso il 50% della popolazione di bambini, passando dal 2014 ad oggi, da più di otto milioni di bambini ad una stima di quattro milioni e mezzo. A molti di questi bambini che hanno la cittadinanza russa è stato inculcato l’odio verso l’Ucraina a partire dalla scuola. Dopo l’invasione è cambiato il programma scolastico russo: gli argomenti principali sono legati ad aspetti della tradizione del Paese, per stimolare negli studenti l’amore per la patria. Quella che viene studiata è una versione diversa della storia, basata su falsi storici. Tutto questo avviene perché anche la Russia ha un enorme problema demografico. Il governo del Cremlino ha riorganizzato l’istruzione promuovendo una narrazione unilaterale e alterata degli eventi storici per giustificare le offensive militari. Libri di storia scritti in pochi mesi che cambiano la narrazione degli eventi, una manipolazione della storia raccontata nelle scuole per creare una nuova generazione di bambini che conosca una solo narrazione filorussa della storia. La propaganda russa è riuscita dividere gli ucraini tra filorussi (spesso anziani) e filogovernativi: fratture di una guerra che si contende anche i bambini.
La narrazione secondo cui l’Ucraina sia colma di nazisti, tra cui il suo presidente, giustifica l’aggressione con il tentativo di una pulizia etnica e un ritorno all’ordine sotto il comando russo. Una narrazione inculcata nella mente delle persone, soprattutto quelle più anziane che non hanno avuto modi diversi di informarsi se non quello della propaganda del governo attraverso i media: radio, tv, giornali. La libertà di informazione che internet ha offerto riesce a scardinare la narrazione imposta dall’educazione sovietica, per cui la maggior parte di coloro che non approvano il conflitto russo-ucraino sono i ragazzi, mettendo contro figli e genitori. La continua caccia al nazismo si deve alla storica vittoria russa contro i tedeschi, che si ricorda ogni anno nella Giornata della Vittoria, e che ricorda ogni anno come i nazisti siano ancora oggi il nemico da combattere. Le ambizioni coloniali in politica estera trovano spesso giustificazioni con il ricorso alla storia, attraverso la narrazione di rappresentazione condivise. Prima vi è la costruzione di un nemico e poi questa narrazione viene fatta veicolare nell’opinione pubblica. L’educazione sovietica cerca di inculcare ai bambini un forte nazionalismo attraverso l’addestramento militare e la manipolazione della storia secondo cui esisterebbe una russofobia in Occidente. E così, chi deporta i bambini accusa l’altro di nazismo.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 14 Ottobre 2023 17:14
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Ultima modifica il Domenica, 17 Marzo 2024 16:15
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Pubblicato Sabato, 14 Ottobre 2023 17:14
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Ha governato per 16 degli ultimi 27 anni, ha messo in grande difficoltà il processo di pace con i palestinesi, e ha spostato l'asse del Paese sempre più a destra: è il ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il suo attivismo politico inizia nel 1979, anno in cui fonda il “Jonathan institute”, intitolato a suo fratello Yoni, vittima dell’operazione “Fulmine”. Netanyahu iniziava già allora a parlare di quello che lui definisce “terrorismo palestinese”. Nel 1996 viene assassinato Yitzhak Rabin, primo ministro laborista, simbolo del tentativo di pacificazione tra Israele e Palestina, vittima di un estremista nazionalista. Il primo ministro in sostituzione Shimon Peres decide di andare ad elezioni per avere un mandato più forte e proseguire i processi di pacificazione. Il suo avversario è Benjamin Netanyahu, che nel frattempo è diventato leader del partito del Likud. I sondaggi lo danno sotto di quasi 30 punti percentuali rispetto a Peres. Si profila uno scontro impari: da una parte Peres, politico di esperienza, grande oratore e leader stimato dentro e fuori Israele; dall'altra parte il poco conosciuto Benjamin Netanyahu, il cosiddetto ultimo arrivato. Tuttavia, una mossa fece saltare il banco, e fu la chiamata di Netanyahu ad Arthur J. Finkelstein, uno degli strateghi politici più conosciuti negli Stati Uniti. Il tempo passato negli Stati Uniti, infatti, aveva insegnato a Netanyahu quanto fossero importanti le abilità in tema di comunicazione politica, e questo lo portò ad affidarsi a quello che oggi definiremmo uno spin doctor, un uomo che aveva lavorato con Reagan, George Bush senior e che si vocifera avesse addirittura profetizzato la carriera politica di Donald Trump. Finkelstein seguiva una formula che adattava ad ogni contesto: il “negative campaigning” (che lui ribattezzò in “rejectionist voting”), un tipo di campagna elettorale in cui si preferisce attaccare un avversario invece di difendere il proprio programma. In parole più semplici: la credenza alla base della sua strategia era che scoraggiare le persone fosse molto più facile che motivarle. Brad Parscale, che ha gestito la campagna digitale di Trump, l’ha definita uno degli strumenti più importanti delle presidenziali statunitensi del 2016. Il metodo è una sorta di moderno manuale d’istruzioni del populismo di destra.
Il passato da sondaggista e programmatore nel campo della finanza ha maturato le abilità di Finkelstein, il quale registrava i dati sulla popolazione: età, residenza, candidato preferito, convinzioni politiche, numero di presenze in chiesa. Con la conoscenza di questi parametri, egli era stato capace di individuare i temi che suscitavano maggiore interesse nella popolazione. La sua strategia consisteva nel polarizzare al massimo l’elettorato, mettere gli elettori gli uni contro gli altri, giocando sulle paure della popolazione; una tecnica che sarebbe poi diventata tra le più usate in materia di comunicazione politica. Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Richard Nixon lo capì a sue spese quando, durante lo scandalo Watergate, si presentò in tv dicendo «Non sono un imbroglione» con il risultato che tutti pensarono a lui come tale. Infatti, la negazione di un frame, non solo ha per effetto la sua attivazione, ma addirittura lo rafforza. Netanyahu utilizza questo schema addossando un’etichetta al suo avversario, dichiarando che il suo rivale volesse concedere parte della Città Santa ai palestinesi. Questo ha creato una polarizzazione dell’elettorato: chi sosteneva Peres adesso sosteneva anche la divisione di Gerusalemme, a danno della sicurezza del paese. Il resto lo ha fatto Hamas, che, ironia della sorte, è stata (inconsapevolmente) alleata di Netanyahu, dando credito alle paure che Netanyahu alimentava. La questione palestinese rimase sempre prioritaria per Netanyahu, il quale, a fronte della decisione del governo Sharon di abbandonare la Striscia di Gaza, decise di dimettersi da ministro delle finanze. Nel 2009 Netanyahu diventa nuovamente premier e porta di nuovo avanti la questione palestinese. Con Obama i rapporti sono ai minimi storici, ma la vicinanza con la presidenza Trump porterà alla firma dei famosi Accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Netanyahu riesce comunque a convincere i Paesi arabi del fatto che le opportunità economiche a cui potrebbero accedere valessero più di un loro sostegno alla Palestina. Le dinamiche di politica interna portano in seguito alle dimissioni di Netanyahu, il quale torno però al governo nel 2022 con una coalizione di estrema destra capeggiata da Itamar Ben-Gvir, leader di “potere ebraico”, contraddistinto da un forte odio verso i palestinesi. Quest’ultimo ricoprirà il ruolo di ministro per la sicurezza nazionale nel nuovo governo Netanyahu. Un governo di estrema destra che con la sua riforma del sistema giudiziario voleva limitare il potere della corte suprema, suscitando grandi proteste nel paese. Il governo di Netanyahu esaspera la questione palestinese favorendo la creazione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, permettendo violenze nei campi profughi palestinesi e rafforzando la segregazione della Striscia di Gaza. Dal 2007 nessun palestinese può più uscire dalla striscia di Gaza senza permesso israeliano. La mattina del 7 ottobre, il giorno dopo il cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom kippur, Hamas lancia circa 2000 missili diretti verso Israele e alcuni miliziani sfondano il confine; come cinquant'anni prima, Israele è colta di sorpresa. L'intelligence non ha previsto l'attacco e i miliziani di Hamas entrano nel Paese con una sorprendente facilità. facendo centinaia di ostaggi e vittime. Netanyahu risponde con bombardamenti a tappeto nella Striscia di Gaza, senza distinzioni tra i cittadini, riducendoli a vivere senza elettricità, cibo e acqua. Da una parte Hamas ha ottenuto risultati militari senza precedenti ma allo stesso tempo ha innescato una catena di eventi che potrebbero avere conseguenza mai registrate. Netanyahu si trova a dover rimediare ad uno dei più grandi fallimenti dell'intelligence israeliana, trovandosi a gestire l'operazione militare contro Israele più vasta dai tempi della guerra Yom Kippur, cioè dal 6 ottobre 1973.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 09 Ottobre 2023 15:42
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Ultima modifica il Venerdì, 23 Febbraio 2024 14:42
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Pubblicato Lunedì, 09 Ottobre 2023 15:42
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Il 19 settembre scorso, l’Azerbaigian ha attaccato l’area sotto il controllo armeno del Nagorno-Karabakh, una regione interna all’ l’Azerbaigian ma indipendente, abitata da armeni cristiani. Una Repubblica indipendente che aspirava al ricongiungimento con l'Armenia. Alle origini di questa situazione c'è stato un errore abnorme dell'Unione Sovietica che nei primi anni ‘20 stabilì che l’Artsakh (a maggioranza armena) dovesse essere incorporato in un'altra Repubblica Socialista Sovietica, ossia l’Azerbaigian. Con la fine dell’Unione Sovietica, questo territorio divenne oggetto di contesa e causando lo scoppio di tre conflitti: quello che va dal 1988 al 1994, quello del 2020 e l’ultimo il mese (2023). Negli anni ‘90 fu l'Armenia a prevalere, grazie al sostegno russo. A circa trent'anni di distanza però, le parti si sono invertite e l’Azerbaigian, che ha notevolmente potenziato le sue risorse militari grazie ai proventi dei fossili e al sostegno di alleati come Turchia e Israele, si è praticamente ripreso il Nagorno Karabakh.
Per la Turchia, un collegamento diretto con l’Azerbaigian, senza dover passare dal Nagorno Karabakh, significherebbe un accesso diretto per il Mar caspio e con l'Asia centrale, favorendo i collegamenti eurasiatici della Turchia. La Turchia deve passare per la Georgia per arrivare all’Azerbaijan e per il resto dei collegamenti euroasiatici. L'apertura di questo corridoio consentirebbe da un lato ovviamente di legare in modo più stretto Turchia e Azerbaijan, dall'altro di ridurre la dipendenza di entrambi dalla Georgia.
Gli azeri, forti della loro alleanza con la Turchia (dall’indipedenza dell’Azerbaijan in poi, la Turchia si descrive come un solo Stato con quello azero), il 19 settembre hanno condotto un'operazione antiterrorismo per contrastare alcuni presunti sabotatori armeni. Il 26 settembre una forte esplosione ha colpito l'area di Stepanakert (che gli azeri invece chiamano Xankənd), la capitale dell'auto proclamato Stato dell’Artsakh, causando la distruzione di un deposito di carburante, provocando decine di morti e centinaia di feriti. Nemmeno gli armeni sono intervenuti in sostegno dei propri connazionali, probabilmente nella consapevolezza della superiorità militare degli azeri, sia in termini di uomini che di mezzi. La Russia, storico alleato dell’Armenia, non si è esposta in difesa degli armeni per non inimicarsi la Turchia. L’Armenia ha partecipato a esercitazioni militari con gli americani, cosa non gradita a Mosca. Il governo armeno ha maturato un avvicinamento agli Stati Uniti, confinato con l’allora speaker della Camera Nancy Pelosi Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, l'Armenia, non solo ha inviato aiuti a Kiev, ma ha anche ratificato lo statuto della Corte penale internazionale, cioè l’organo che ha emesso un mandato di cattura contro Putin per i crimini commessi in Ucraina.
Mentre il governo di Baku dichiara di voler “giungere a una risoluzione delle problematiche che separano Baku ed Yerevan”, i profughi armeni nella più totale disperazione hanno scelto di dare alle fiamme le loro proprie case per lasciare terra bruciata agli azeri. Il Nagorno-Karabakh trova ancora una volta un triste epilogo, che, da ormai trent’anni, è scritto con il sangue. La sconfitta ha provocato in Armenia delle tensioni interne, soprattutto dai reduci di guerra, ma la sensazione è che l’Armenia, nella consapevolezza di non potersi contrapporre, si sia rassegnata a perdere il controllo Nagorno-Karabakh, con la conseguente fine della Repubblica di Artsakh.
di Daniele Leonardi
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Creato Sabato, 30 Settembre 2023 15:39
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Ultima modifica il Venerdì, 23 Febbraio 2024 14:41
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Pubblicato Sabato, 30 Settembre 2023 15:39
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Il Caucaso è una regione montuosa ricca di idrocarburi. I popoli che la abitano si fanno guerra da sempre. L'Azerbaigian si può dire che sia nato due volte: nel 1918, con il fallito esperimento della Repubblica Transcaucasica, e nel 1991, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Armenia e Azerbaijan sono infatti entrambe realtà nate dal disfacimento dell’Unione Sovietica. Dal 1988 fino al 1994, Baku si frappose a Yerevan allo scopo di annettere la storica regione del Karabakh (Artsakh in armeno), a maggioranza armena. Era il 1988 quando i nazionalisti azeri decisero di cacciare gli armeni dai loro territori in vista dell'indipendenza. La disputa sfociò nelle tre guerre del Nagorno Karabakh: 1992, 2016 e 2020. Il filo rosso che accomuna tutti questi conflitti è la disgregazione del potere russo nella regione e il sorgere di quello turco. L’ultimo impero a tenere il controllo del Caucaso è stato l’impero russo (Unione Sovietica) che ha sancito un’alleanza con glia armeni attraverso l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). Il Trattato, voluto fortemente dalla Russia, riafferma l’impegno dei suoi membri a non farsi guerra tra loro e introduce una clausola di solidarietà in base alla quale un atto di aggressione esterna nei confronti di uno dei Paesi sarebbe considerata un attacco a tutti. Tuttavia, nel quadro geopolitico attuale, con i buoni rapporti turco-russi, il Cremlino potrebbe non ostacolare la Turchia, la quale appoggia l’Azerbaijan, visto anche il ruolo di mediatore di Erdogan nel conflitto russo-ucraino. Turchia e Russia cercano di non pestarsi i piedi per non perdere forza nei confronti degli Stati Uniti. Turchia e Russia sono unite dall'ostilità verso la primazia degli Stati Uniti, nella convinzione di avere diritto ad una propria sfera di influenza. Questo spinge i due Stati a non combattersi, ma anzi a cooperare in quei teatri dove sarebbe più verosimile lo scontro, come ad esempio il Caucaso, dove la Russia ha lasciato mano libera alla Turchia nella Seconda guerra del Nagorno Karabakh. In questo modo, la Turchia è riuscita a sviluppare un’alleanza con l’Azerbaigian. L’Armenia, senza l’appoggio russo, non potendo fronteggiare gli azeri, potrebbe avvicinarsi agli Stati Uniti, ma c’è un’altra questione: l’Armenia è l’ultimo territorio fedele ai russi nel Caucaso, senza la quale, i turchi avrebbero un controllo sull’Asia centrale fino al Turkmenistan, che darebbe un colpo al potere russo e cinese sull’area, circostanza che agli Stati Uniti non dispiacerebbe, ricordando anche che la Turchia, pur vantando ottimi rapporti con Russia e Cina, è pur sempre un Paese della Nato. A questo punto, gli armeni sembrano sempre più soli davanti alla possibilità di un’escalation militare che potrebbe spazzare via la popolazione armena.
di Daniele Leonardi
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Creato Venerdì, 08 Settembre 2023 15:30
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Ultima modifica il Venerdì, 23 Febbraio 2024 14:31
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Pubblicato Venerdì, 08 Settembre 2023 15:30
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Le crisi umanitarie sono molte e, seppur accadono in contesti diversi, hanno sempre alcuni aspetti in comune: nascono dove si consumano conflitti militari e dove le capacità di governi e istituzioni sono poche: Se poi le crisi sono di lunga durata, e se riguardano una parte significativa della popolazione di un Paese, condividono un'altra caratteristica: non fanno più notizia. Tra le crisi umanitarie che non hanno ancora visto una fine e che possiamo definire una guerra dimenticata, c’è sicuramente quella della Siria, la quale sta affrontando dal 2011 una delle peggiori crisi dei nostri tempi, e che non sembra rallentare. Dal 2020, infatti, il numero di persone che necessitano di assistenza umanitaria è aumentato del 30%, fino a superare le 15 milioni di persone.
Gli attori in gioco in questa guerra sono tanti. La Siria è oggi suddivisa in quattro aree: quella governativa di Assad (sostenuta da Russia, Haezbollah e Iran), quella in mano ai curdi nel nord-est al di là dell’Eufrate cioè la regione del Rojava, quella dell'area intorno alla città di Idlib gestita dal governo di opposizione il cosiddetto governo di salvezza siriana, ed infine il nord-ovest più una striscia centrale, sotto controllo turco.
I primi colpi di guerra furono sparati, nel marzo 2011, dal dittatore siriano Bashar al-Assad contro i manifestanti pacifici della Primavera Araba. La protesta era dettata dalle gravi problematiche sociali, quali ad esempio le crescenti disuguaglianze socioeconomiche, la corruzione, l’autoritarismo. I manifestanti organizzano una risposta al governo con i disertori dell’esercito siriano, formando quello che viene definito Esercito Siriano Libero, dando origine alla guerra civile. Quella del Siria è diventata poi una guerra per procura, in cui gli attori esterni diventano i veri protagonisti. Assad viene sostenuto dall’Iran attraverso l’invio delle truppe di Hezbollah, mentre sulla sponda opposta, i Paesi arabi più ricchi del Golfo del Persico sostengono i ribelli per contrastare l’influenza dell’Iran nella zona. Da questo momento in poi, inizia un’escalation con l’Arabia Saudita che scende in prima linea per sostenere i ribelli. Nel 2013 il Medio Oriente si trova in una situazione di due grandi poli contrapposti: le potenze sunnite sostengono i ribelli, mentre quelle sciite sostengono Assad. L’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad provoca indignazione da parte di tutto il mondo, in particolare degli Stati Uniti, i quali decidono di scendere in campo “in nome della sicurezza nazionale”, come ribadito dalle parole di Obama. Dall’altra parte c’è il nemico storico degli Stati Uniti, la Russia, che sostiene la Siria, muovendo pericolosamente la sua pedina su uno scacchiere già molto affollato. Mentre gli Stati Uniti portano avanti un progetto di addestramento dei ribelli siriani, si verifica una scissione nell’esercito dei ribelli, con una parte di questi che decide di staccarsi e combattere al-Qaeda, che fino a poco prima sostenevano, e si autodefiniscono Stato islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). L’Isis non combatte contro Assad, ma contro ribelli e curdi, creando uno scompiglio e un’ulteriore faglia di guerriglia interna. Gli Stati Uniti si ritrovano a dover fronteggiare due nemici: Assad e ISIS. Scende in campo anche la Turchia, la quale bombarda i curdi in Iraq e in Turchia. La volontà di primeggiare sul mondo arabo da parte dei turchi e di bloccare i 4 milioni di profughi sui confini, unita poi alla storica questione curda in Turchia, sono motivi che portano Erdogan ad approfittare della situazione. I Curdi attaccati da Erdogan erano in lotta contro l’ISIS, il quale però non viene attaccato dalla Turchia. Due Stati alleati come Stati Uniti e Turchia si ritrovano a combattere, indirettamente, tra di loro. La Russia, sostenendo di bombardare l’Isis, attacca invece solo i ribelli, attaccando quindi gli Stati Uniti. Anche qui, Russia e Turchia fanno fronte comune. Il ruolo della Russia è stato determinante per la sopravvivenza di Assad, poiché l’intervento russo ha ribaltato gli equilibri del conflitto. In questo modo, Assad riesce a prendere il controllo di Aleppo a scapito dei ribelli. Per la riconquista di Aleppo, la Russia ha fornito le bombe a grappolo, vietate dall’Onu, sganciate su zone densamente abitate, provocando numerose morti civili. Con Trump al potere gli Stati Uniti si erano un po' alienati dal conflitto, ma il ripetuto uso di armi chimiche da parte di Assad non lascia indifferente gli Stati Uniti che decidono di attaccare direttamente il regime di Assad con il lancio di missili. Gli Stati Uniti si oppongono al regime di Assad per opporsi all’Iran, nemico di Israele, storico alleato statunitense in Medio Oriente. Una guerra per procura che ha provocato la morte, stando alle stime più realistiche, di almeno 400.000 siriani. Quasi 5 milioni di profughi siriani all'estero e quasi 7 milioni di sfollati su una popolazione che nel 2011 ammontava a quasi 22 milioni di persone.
La svaluta della moneta, il terremoto, e la fame hanno fatto il resto. Ma non solo. La priorità per paesi come l’Iraq e la Siria oggi è la guerra al narcotraffico. Una crisi senza fine che non fa più notizia.
di Daniele Leonardi
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Creato Giovedì, 31 Agosto 2023 14:48
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Ultima modifica il Mercoledì, 31 Gennaio 2024 13:49
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Pubblicato Giovedì, 31 Agosto 2023 14:48
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Il Niger rappresenta uno Stato, sia per le sue materie prime (uranio) che per la sua posizione geografica. La sua stabilità politica è fondamentale per l’Occidente. Il continente militare occidentale in Niger si aggira sui 1500 soldati francesi, un migliaio di statunitensi e 400 italiani. Gli Stati Uniti in questi anni hanno addestrato l’esercito per formare una sicurezza nel Paese. Questo stesso esercito, però, si è rivoltato all’Occidente. Il colpo di Stato del 27 luglio, che ha avuto il supporto di una parte consistente popolazione nigerina, ha destituito il presidente in carica democraticamente eletto nel 2021, Mohammed Bazoum, da un gruppo di militari locali, facendo prigioniero l’ex capo di Stato. Bazoum aveva sconfitto alle elezioni lo storico politico Mahamane Ousmane, anche se parlare di elezioni democratiche in determinati Paesi nei quali vi è una forte influenza occidentale, e in particolare francese, è difficile. Si tratta di Stati che hanno ottenuto l’indipendenza ma che nutrono ancora una forte influenza francese, dato il suo passato coloniale.
La politica di Bazoum è sempre stata vista come filoccidentale, un presidente amico di quegli Stati del blocco Nato che gli consentono di esercitare un potere democratico in cambio dello sfruttamento delle risorse minerarie. Infatti, il blocco dei Paesi della Comunità Economica degli Stati dell'Africa dell’Ovest, Ecowas, amica dell’Occidente, ha minacciato di procedere a un'azione armata contro i golpisti se non ripristineranno la democrazia. Quello del 27 luglio è stato il sesto golpe dal 2020 ad oggi nell’area del Sahel: Mali nell’agosto 2020, Ciad aprile 2021, di nuovo Mali nel maggio 2021, Burkina Faso prima nel gennaio 2022 e poi in settembre. In risposta all’Ecowas, il Mali, il Burkina Faso e la Guinea, guidate da giunte militari golpiste, hanno minacciato che se si attaccherà in Niger, loro interverranno in favore dei golpisti. L’Ecowas ha provveduto allora per una politica di sanzioni contro il Niger, bloccando le risorse e chiudendo tutte le frontiere. Niamey, capitale del Niger, è rimasta al buio e più impoverita di quanto già non lo fosse. Le cause del golpe sono da ricercare guardando più alle dinamiche interne che oltre i suoi, seppur labili, confini. I fattori esterni, poi, certamente lucrano sulle dinamiche interne. La linea politica di rottura del presidente Bazoum rispetto ai leader precedenti ha provocato dissensi, soprattutto quando ha deciso di cambiare i leader dell’esercito, mettendosi contro una parte di esse. Proprio l’autore del golpe, Abdourahamane Tchiani, avrebbe dovuto essere il prossimo ad essere spodestato. Le ragioni di questo colpo di Stato vanno ricercate più nel rapporto del presidente Bazoum con l’esercito, che con la situazione geopolitica e di influenze esterne. Infatti, l’ex presidente era già sopravvissuto ad altri tentativi di sovvertire il potere. I cori dei manifestanti in piazza contro la Francia e pro-Russia sono presto spiegati: Il presidente Bazoum ha intrattenuto accordi commerciali per la vendita di armi: un quarto dei dispositivi militari circolanti nel Sahel proviene proprio da Mosca. La percezione della Russia in Africa è quella di un alleato per la liberazione dall’occupazione occidentale. Tuttavia, le bandiere manifestanti erano in misura minore rispetto a quelle presenti nel golpe in Burkina Faso. L’influenza russa c’è sicuramente, ma risulta difficile ipotizzare che ci sia la Russia dietro questo golpe, anche perché il golpe è stato pubblicamente condannato da Mosca, ma è possibile che possa usare questo cambio al vertice per trarne dei profitti in futuro.
di Daniele Leonardi
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Creato Giovedì, 10 Agosto 2023 13:45
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Ultima modifica il Mercoledì, 31 Gennaio 2024 13:46
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Pubblicato Giovedì, 10 Agosto 2023 13:45
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Non esiste un dato ufficiale e preciso sulla quantità di armi presenti in America, poiché non esiste un registro ufficiale, e quelli che ci sono non sono sempre aggiornati. Secondo una stima del 2017 della Small Arms Survey, negli Stati Uniti ci sarebbero 120 armi da fuoco ogni 100 civili.
Altre stime sostengono che oggi negli Stati Uniti circolerebbero più di 300 milioni di armi funzionanti, in un Paese che ha 330 milioni di abitanti; probabilmente negli Stati Uniti ci sono più armi che persone. Il dato che lascia ancora più sbalorditi è che ogni anno gli americani acquistano un numero di armi superiore a quello che hanno in dotazione tutte le forze dell'ordine del mondo. Al secondo posto di questa classifica c’è lo Yemen, ma si tratta di un paese in cui è in corso una sanguinosa guerra civile. Il terzo e il quarto posto sono di Serbia e Montenegro, che hanno avuto nel passato una guerra civile. In America, qualcosa sembra non tornare: in realtà, le armi sono presenti nella cultura americana, e quindi, nella vita quotidiana. Un problema che non tocca solo i civili ma persino le persone autorità più protette: infatti, ben 11 presidenti americani sono stati aggrediti da armi da fuoco. Bisogna andare alla radice per cercare la causa di una cultura delle armi così radicata, non giustificabile con la cultura dei videogame, quella casomai è una conseguenza. Nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, più precisamente nel Secondo emendamento, è scritto che per la costruzione di una società armonica e libera, è fondamentale che ci sia una milizia popolare ben armata. In questo senso, per un cittadino americano, il possesso di un’arma è una forma di libertà, non una violazione di quella altrui. Com’è possibile che sia stato inserito nella Costituzione? Gli emendamenti alla Costituzione contenuti dalla Carta dei diritti nascono come conseguenza delle contestazioni da parte degli antifederalisti preoccupati che dietro il progetto di un governo federale si nascondesse l'insidia di un ritorno in nuova veste di un governo centrale autoritario. Le milizie erano un esercito formato da cittadini e volontari con cui gli Stati federati potevano contrapporsi alla forza militare del governo, dotato di un esercito regolare. Un divieto al possesso delle armi da parte del governo centrale avrebbe così impossibilitato la formazione di queste milizie. Il diritto a possedere un'arma è diventato, agli occhi del cittadino americano, uno strumento di emancipazione, una garanzia di libertà contro il temuto autoritarismo del governo federale. Il diritto all’autodifesa, che poteva essere fondamentale in quegli anni, è diventato un elemento intrinseco nella cultura americana: attorno ad esso sono nati riti, attraverso sport e tradizionali popolari, che diventano simboli generazionali su cui è stato fondato un grande business. Fu Richard Hofstadter, nel 1970, a coniare il termine “gun culture” descritta come la certezza da parte degli americani che il diritto individuale al possesso delle armi sia la più grande protezione garanzia a tutti gli altri diritti e unica salvaguardia alla democrazia.
Molti americani posseggono un’arma, ma non tutti la sanno usare. Le normative sulla vendita delle armi, secondo un sondaggio Gallup di quest'anno, ha rivelato che la maggior parte degli intervistati il 64% si dichiara non soddisfatto delle leggi sulle armi, ma cosi tanti dal 2001. Non è solo una questione di non comprare più armi, ma di regolamentare quelle 300 milioni già in circolo.
di Daniele Leonardi
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Creato Lunedì, 16 Novembre 2020 15:53
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Ultima modifica il Lunedì, 16 Novembre 2020 16:16
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Pubblicato Lunedì, 16 Novembre 2020 15:53
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Scritto da Administrator
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«I chose to say with my own body what the Arab leaders could not say. My body is a case of gunpowder that blows up enemies. To the Arab leaders who are watching, I say WAKE UP. Do your duty. It is shameful that Arab soldiers remain asleep while the daughters of Palestine fight. While they go towards their deaths». These are the last words of Ayat Akhras, taken from the traditional video-heading of the 16-year-old human-bomb, born and raised in the Dheisheh refugee camp in Bethlehem. It was recorded before being blown up in the name of the Alqsa Martyrs Brigades on 29 March 2002 in a supermarket on the outskirts of West Jerusalem. Ayat's mother says: «My little star was tender. She was very sweet. She was also always happy. And she was smart. She was one of the best at school. She never felt discouraged. She believed in the one God, Allah, like all of us. But she was modern. Only in public she used to cover her hair with the veil. Just like God wants. But she didn't wear the Jilbab . I didn't know about her contacts with the armed activists. If I'd known, I'd have locked her in the house. And we didn't even know that she had joined the Alqsa Brigades. But here everyone is fighting for our land. Oh, my daughter actually always had an interest in politics. And she cried a lot when she heard about Palestinians being killed by Israeli soldiers. But she was leading a normal life. She loved to study. She was in her high school and always said obsessively that she wanted to continue her studies. She dreamed of becoming a nurse or a journalist».
Another testimony is that of Reem al Rayashi:«Yes, yes, since I was 13 I've dreamed of becoming a martyr and dying for my people», says 20-year-old Reem at Rayashi in her video-heading. «I've always wanted to turn myself into mortal splinters against the Zionists and knock on the doors of Heaven with their skulls. I've always wanted to be the first woman to sacrifice herself in the name of Allah. And my joy will be complete when the parts of my body fly everywhere». Reem was hired by Hamas because she was an adulteress. And leaving her husband for another had stained herself with an unforgivable guilt for Islam. Only by martyrdom she could have regained her honour. On 14 January 2004 she exploded, killing 5 people and injuring 12.
«With this action I have decided to send the occupants the message that there is no security for the Jews on our land. To attack, according to God's will, the arrogants of the damn checkpoint and kill them». These are the words that the woman-lama left written in her spiritual will in a letter to her family. While in a second letter she asks her classmates not to forget at all to grow up, to educate their children in love with the Jihad. «Pray, pray, pray», concludes the text, «so that God will not fail to accept me as a martyr. Fight for the freedom of your country».
Imane and Sanae, 14-year-old Moroccan twins who were born together, decide to die together. And it is by martyrdom that they want to interrupt the life spent on the margins of society, to redeem the miserable existence with a striking gesture. As a kamikaze. «Because they have been too much fascinated by the attack of September 11th in the USA», say friends and acquaintances. Theirs is the classic profile typical of women-bombing: psychological graft poured into a mix of indoctrination and desire to clean up their image. In the neighborhood they are considered prostitutes, women who are now lost. To get by, they make do as they can. They ask for alms, they offer themselves. They don't have any real family behind them.
di Noemi Genova